Cannibali e compari

di Franco Pezzini

Tom Hofland, Il cannibale, ed. orig. 2022, trad. dall’olandese di Laura Pignatti, pp. 199, € 18, Carbonio, Milano 2024.

“Allora, trentadue esuberi, giusto?” dice Lombard.

“Esuberi?”

“Anime. Lavoratori. Addetti”.

“Ah, sì, esatto” risponde Lute. “Trentadue persone che non ho un motivo valido per mandare via, se non fosse una triste necessità”.

Il contesto – l’esubero di un’unità produttiva, o di suoi singoli membri – è quello che tanti di noi conoscono, per triste esperienza diretta o per averlo sentito narrare magari da persone care: così per esempio, con il licenziamento della donna amata, Luca Rastello iniziava Piove all’insù (Bollati Boringhieri, 2006), e così chissà quanti altri scrittori riprenderanno un tema tanto provocatorio e tagliente. Non solo per contrapporre il potere del logos, la parola-ragione, a quello sguaiato, arrogante, di un certo tardocapitalismo che conteggia le persone come anime morte, spreme e butta con sovrano disinteresse, infetta i più deboli con aziendalismi da kapò per aizzarli contro i sacrificabili e imbestia i rapporti umani fino a renderli non più tali – il tutto calafatando lo storytelling con soavi eufemismi. Mentre il potere della parola toglie maschere, rivela non-detti nelle relazioni o nelle visioni del mondo di chi sta a poche scrivanie di distanza, li consegna a una verità di fatto che ci si potrà affrettare a negare con le retoriche insegnate nei corsi per dirigenti, ma tali da non cambiare di un apice le cose.

Il potere della parola, dunque. Ma insieme un’altra chiave, che il romanzo di Rastello, tanto realistico, aveva però saputo richiamare: una tensione verso il visionario e il grottesco, l’altro e il fantastico che si rivela l’unico linguaggio congruo a raccontare metamorfosi generazionali (come appunto in Piove all’insù, con i rimandi a una SF psichedelica) o invece, come in questo caso, surrealtà dell’orizzonte aziendale. Dove in questione non è solo un discorso di pratiche, ma di stili umani: dell’antropologia di chi per lavoro sporco comandato da vertici o invece per dolorose decisioni imposte dal quadro generale consuma, più o meno con leggerezza, scelte che sfonderanno vite. Ma con risvolti, trovate di contorno e teatrini che nessuna logica di mercato in sé giustificherebbe, e attengono piuttosto a (il)logiche inconoscibili.

Di nuovo: tutti noi ne abbiamo sentiti raccontare o magari vissuti sulla nostra pelle. Se ti hanno imposto un trasferimento impossibile e stai per andartene, quale senso può avere la telefonata del tuo Grande Capo che ti dice dolcemente stupito “Ma noi pensavamo che tu saresti venuto qui” (cioè alla sede lontanissima dove eri destinato per sfinirti e farti dimettere). Spiegarlo come ipocrisia o imbarazzo malgestito non coglie il nodo, né da un punto di vista soggettivo – inutile presumere scorci sul foro interno del soggetto – né dall’altro oggettivo, perché quello appena offerto è un discorso anzitutto surreale. Ancora: se ti hanno comunicato che ti spediscono via, quale utilità pratica ha, da parte del piccolo funzionario che ti sta liquidando, aggiungere che l’azienda non considera quella scelta una violazione dei propri valori etici? È un quid pluris che aggiunge lui gratuitamente, non certo a sgravio di coscienza (semmai maggiormente aggravata da tanto cinismo) e di nuovo piuttosto nel segno di un teatro straniante alla Hoffmann – intendo E. T. A., ma non sarebbe troppo incongruo il richiamo a un omonimo, l’Heinrich autore di Pierino Porcospino… Percepiamo increduli simili discorsi, e pare di trovarci in un film di David Lynch, mentre la realtà intorno a noi nebulizza nel non-senso.

Tutto ciò con quel sentore di straniamento (l’incredibile, l’increduto) che si avrebbe al consumarsi di un evento fortiano quali piogge di rane o autocombustioni – e che non muove da una nostra reazione rabbiosa ma piuttosto dal confronto con l’assurdo, con marionette oniriche da Storia di uno schiaccianoci (fiaba nera ben congrua a un quadro di riduzione del personale, come noci schiacciate di fronte al Re dei topi). Semplicemente, è come se in certi momenti si spalancassero le porte all’alterità: chi è coinvolto non riesce a crederci, tanto è assurdo un certo tipo di rituali, parole, reazioni.  E Il cannibale descrive proprio questo.

Al suo terzo e premiato romanzo, lo scrittore e podcaster Tom Hofland (1990), definito dal quotidiano “de Volkskrant” come il più grande talento letterario del Paesi Bassi, affronta il tema senza moralismi o scorciatoie, con piglio letterario e divertita fantasia. A partire da una scena iniziale davvero fortiana, che capiremo solo alla fine. All’azienda farmaceutica olandese Aletta, un intero reparto è dichiarato in esubero: e il responsabile Lute – un uomo in sé non cattivo, ma piuttosto naïf nel non saper ascrivere gli eventi della propria vita a qualunque quadro di responsabilità umane – dovrebbe convincere alle dimissioni le persone con le quali ha lavorato per anni in rapporti amichevoli. L’inopinato arrivo del cacciatore di teste freelance Lombard, con un losco e fintamente benevolo compare armato di fucile e un infero cane nero, gli toglie le castagne dal fuoco. Ma…

Il romanzo trova un punto di forza nelle caratterizzazioni umane (Lute, i colleghi e in particolare la candida e delusa Mea) e inumane, come i tremendi nuovi arrivati che sembrano emersi in carovana da un racconto di Le Fanu o una fiaba gotica tedesca; rilevante è l’uso degli spazi, sia interni che esterni all’azienda, e che diventano sempre più sinistri al dipanarsi della storia.

Gli spaventosi cooperatori di Lute mostrano una consumata abilità da inquisitori nel confondere il maldestro responsabile e i colleghi destinati all’eliminazione, e lentamente prendono il controllo dell’azienda: sulla loro natura fioriscono qui e là allusioni (come una raggelante, inspiegabile conoscenza di antiche atrocità o il tema del Trillo del diavolo), ma un vago mistero regna. E il responsabile del loro ingaggio capisce troppo poco di realtà assai più evidenti per poterne svelare le dimensioni arcane.

Ovvio, sarebbe un delitto svelare la trama, anche se in realtà il lettore smaliziato può arrivare abbastanza presto a immaginare dove conduca il patto faustiano del pasticcione Lute. Importante è la qualità narrativa, e godibili i dettagli via via ammanniti in un quadro sempre più estremo. Più che dell’orrore sovrannaturale – cui pure strizza l’occhio – la storia parla il linguaggio di quello onirico, grottesco e paradossale, maliziosamente divertente. A ricordare senza manicheismi (a dispetto di quanto possa apparire da un riassunto, Hofland è sottile e non banalizza) che i Lute che incontriamo sulla nostra strada sono poveretti come noi. Ma per paura, comodità, ideologia, hanno scelto il patto con qualcosa di spiacevole che trova carne almeno apparente: carne non-morta, beninteso. Lute ne sia avvertito.

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