Il report completo del tavolo di lavoro “capitalismo fossile e capitalismo green nella transizione ecologica”, tenutosi al Venice Climate Meeting di Rise Up 4 Climate Justice.
Contesto di partenza: il cambiamento di prospettiva del capitalismo
Il tavolo di lavoro ha fatto una riflessione iniziale sul ruolo cruciale giocato dalla logica di mercato all’interno della crisi climatica, in particolare dopo gli accordi di Kyoto (Cop 3, 1997), Parigi (Cop 21, 2015) e Glasgow (Cop 26, 2021)[1].
Green Economy: valore, natura, lavoro
Negli ultimi decenni le élites globali hanno fatto propri i dettami della cosiddetta green economy, secondo la quale il limite ambientale non deve essere percepito come vincolo allo sviluppo, bensì come fondamento di un nuovo ciclo di accumulazione e rigenerazione del modello di crescita infinita pur situato all’interno di uno spazio finito e di risorse finite.
Il punto di partenza di questa strategia va individuato nella crisi energetica del 1973, quando per la prima volta assistiamo a una crisi capitalista che è sia economica che naturale, sia produttiva che riproduttiva.
Da quel punto in avanti abbiamo assistito a una crescente mercantizzazione della crisi ecologica, all’interno della quale assume un ruolo inedito la finanza. L’esempio più noto sono i climate futures, la recente quotazione in borsa dell’acqua e in generale la finanziarizzazione dei cosiddetti beni comuni, l’aumento esponenziale dei pacchetti assicurativi sui danni delle catastrofi naturali. A tutto questo si somma il noto greenwashing delle multinazionali dell’energia, che sottende una dialettica interna allo stesso capitalismo registratasi negli ultimi anni, tra la tensione conservativa del fossile e quella “futurista” delle energie rinnovabili.
Per usare un’espressione di Emanuele Leonardi: “il mercato, infatti, agisce nei confronti del cambiamento climatico nel doppio, ambiguo ruolo di carnefice – in quanto colpevole di incuria teorica e pratica – e di redentore – in quanto finalmente capace di includerlo correttamente nel sistema dei prezzi[2]”. Si tratta di un’attualizzazione di quella che Toni Negri definiva “ragionevole ideologia”[3], impiantata nella consapevolezza degli attuali rapporti di forza e nella lettura della tendenza progressiva del capitalismo, che nell’attuale contesto storico si traduce nel rapporto sempre più stretto tra lavoro cognitivo, mercati finanziari e d estrazione di valore dalla natura.
Negli ultimi anni il processo di internalizzazione capitalista della crisi ecologica iniziato circa 50 anni fa si è portato a compimento e possiamo dare per assodato che l’estrazione di valore è oggi la combinazione di lavoro cognitivo, innovazione tecnologica e sfruttamento dei vincoli naturali.
Proprio la “transizione” si va a delineare non come un momento di passaggio, ma come vera e propria fase storica del capitalismo, perché in questa fase – anche grazie all’accelerazione che si è avuta nella crisi pandemica – si andranno ad affinare criteri di accumulazione, strategie produttive e riproduttive e le tecniche governamentali di quello che possiamo definire “capitalismo ecologico”.
Quello che vogliamo indagare è dunque il nesso tra natura, valore e lavoro nella fase che si apre e in particolare nel periodo della cosiddetta “Next Generation Eu”, nel quale transiteranno i fondi del Recovery Fund e dei vari piani nazionali.
Ruolo della finanza
Come cambia il ruolo della finanza all’interno dei processi di accumulazione e valorizzazione capitalista a partire dalla nascita della cosiddetta new economy, cominciata più o meno agli albori del nuovo millennio, e quindi la riconfigurazione del capitale finanziario come espressione del capitalismo cognitivo post-fordista. Per citare l’economista Christian Marazzi, “la finanziarizzazione dei processi economici non deve essere vista con lo sguardo (fordista) di una perversione, di un semplice fenomeno speculativo, moralmente condannabile, o di un semplice prolungamento delle forme classiche del capitale finanziario, ma come una vera e propria innovazione interna al funzionamento del capitalismo che ha messo a valore il bios, ossia l’intera vita degli individui”[4].
Quello che caratterizza il nuovo capitale finanziario è la fusione dell’insieme delle funzioni della moneta, che muta il ruolo e l’importanza del sistema bancario, ma soprattutto autorizza la messa in relazione diretta di tutte le forme e gli utilizzi del denaro. Ogni somma di denaro può diventare investimento su titoli azionari e obbligazionari, ma soprattutto modifica le frontiere tra salario e profitto, e dunque la delimitazione semplice e meccanica tra classi sociali direttamente opposte nella ripartizione della ricchezza creata. La partecipazione diretta dei salariati all’investimento sui mercati di azioni e obbligazioni non è più un fenomeno marginale, ma diventa costitutivo della nuova condizione salariale[5].
In quest’ottima va intesa anche la finanziarizzazione della natura, che non è una particolare bolla speculativa che colpisce le risorse naturali, ma va letta in continuità con il grande processo di valorizzazione dei beni comuni materiali e immateriali (natura, welfare, sanità, istruzione) iniziata alcune decine di anni fa e tornato prepotentemente alla ribalta oggi, nella gestione della crisi pandemica.
Il ruolo della finanza ed il triangolo di potere in Italia
La seconda parte del tavolo di lavoro, con il contributo di Alessandro Runci e Simone Ogno della redazione di Re:Common, ha approfondito il ruolo della finanza nel contesto attuale.
Per finanza fossile si intendono tutte quelle istituzioni finanziarie che investono, hanno relazioni o assicurano il comparto del fossile.
La riflessione è iniziata osservando il ruolo delle istituzioni finanziarie all’ interno della transizione energetica avvenuta nel secondo dopoguerra, quando il petrolio ha progressivamente sostituito il carbone nella produzione d’ elettricità e negli usi industriali. La finanza fossile in quel processo si è collocata come “motore primo” in grado di far emergere i settori che intende far crescere e promuovere, stimolando più attori economici; ruolo questo, che continua tutt’ oggi ad assumere, all’ interno della “green economy” e della lenta transizione energetica da petrolio a gas – interpretato, in maniera criminale, come combustibile di transizione – .
In prospettiva, anche all’ interno dell’ economia delle rinnovabili tenderanno a farsi da motore, riproducendo le stesse dinamiche estrattive e di predazione coloniale. Ragion per cui bisogna prestare sempre occhio critico ai grandi progetti di impianti per l’ energia rinnovabile: a riguardo, è interessante guardare al caso di Oaxaca, stato messicano ove alcune compagnie del fossile intendono implementare numerosi parchi eolici, in conflitto con le comunità locali, che mettono invece in risalto come le modalità di sfruttamento dei territori e delle persone sia di matrice profondamente coloniale. Modalità che prendono forma in costi ambientali e sociali fortissimi ricaduti interamente sulle comunità territoriali, mentre i risultati della produzione vengono delocalizzati (in molte zone dello stato non arriva tutt’ oggi elettricità).
La riflessione è proseguita parlando della tassonomia europea, ovvero il quadro normativo di riferimento per l’ UE all’ interno del quale si definisce che investimenti si possono considerare “green” o meno. Il piano, sostenuto fortemente dalle lobby del fossile e dalle istituzioni finanziarie, è quello di considerare gas fossile ed energia nucleare come investimenti verdi.
La finanza italiana ed il blocco di potere per il fossile
La transizione energetica dal petrolio come fonte primaria di energia al gas è una congiuntura di dimensioni planetarie, che comprende la costruzioni di gasdotti che corrono lungo tutto il globo (Nord Stream 2, EastMed, TAP…); i responsabili di questa congiuntura decisionale non sono univoci, ma si devono ricercare soprattutto in USA ed estremo oriente, anche se ovviamente si ripercuote sulle decisioni finanziarie dei gruppi europei.
Andando ad esaminare nello specifico le relazioni della finanza italiana, vediamo che si è strutturata una relazione di potere triangolare che a tutti gli effetti costituisce un blocco di governance: finanza privata (principalmente Intesa san Paolo ed Unicredit), finanza pubblica (Cassa depositi e prestiti, SACE) e società dei combustibili fossili (ENI e SNAM, principalmente) agiscono spesso in concerto. E’ un triangolo le cui relazioni sono profondamente interdipendenti, per semplificare: le società dei combustibili fossili necessitano per le loro operazioni di ingenti somme di denaro, che solo la finanza privata riesce ad elargire, la quale però non investe se il pubblico non assicura un paracadute, specialmente in questa fase di forte aumento del rischio legato ai combustibili fossili.
Disarticolare questa relazione di potere è compito primario dei movimenti per la giustizia climatica, infatti, anche all’ interno della costruzione di singole grandi opere, quando salta uno di questi tre pilastri si determina il collasso di tutto il fulcro. All’ interno della riflessione sulle pratiche d’ iniziativa, Re:common ha portato l’ esempio della campagna contro la compagnia assicurativa Generali, che gestisce asset dal valore di 500 miliardi ed era particolarmente coinvolta nel business del carbone in Polonia. In quel caso, Re:common aveva instaurato una relazione stretta con le comunità e gli attivist* polacch*, creando una dinamica per cui le informazioni e le pressioni su Generali si rimpallavano continuamente sia in Polonia che in Italia. A partire da questa campagna, anche a causa di due anni di pressione bilaterale molto forte, Generali ha dichiarato di tagliare tutti gli asset al carbone polacco.
Un’ esperienza di questo tipo dimostra come la costruzione di campagne ed alleanze reali può produrre risultati concreti, grazie alla suscettibilità della finanza privata al rischio reputazionale (a contrario dell’ industria fossile).
A seguito di queste due introduzioni, il tavolo di lavoro si è diviso in tre sottogruppi, che hanno trattato rispettivamente i temi della governance e della democrazia, della decrescita e del ruolo della finanza pubblica e privata nelle campagne politiche.
Primo sotto-tavolo di lavoro: governance e democrazia
La discussione del sotto-tavolo di lavoro è stata stimolata da alcune domande di partenza: le grandi opere, a cui sia il Recovery Plan che il PNRR danno una valenza centrale ed un grande impulso di liquidità, privano le comunità di capacità decisione sopra i territori: in che modo le comunità possono incidere nelle decisioni delle governance? Quali contraddizioni territoriali possono sorgere a partire dall’ installazione di nuovi impianti sostenibili? Lo stato spesso è falsamente visto come mitigatore del privato, quando in realtà tutela gli interessi del triangolo finanziario/fossile. Come esplicitare questa relazione?
Partendo da questi stimoli, è emerso che la transizione energetica, per come è stata impostata dal Recovery Plan ma non solo, è un processo estremamente centralizzato in cui sarà importante il ruolo della costruzione di nuove infrastrutture per l’ alta velocità da una parte, e nuovi impianti e gasdotti per l’ energia da fonte fossile dall’ altra. All’ interno della transizione energetica quindi, osserveremo sempre più emergere conflitti riguardanti grandi opere dannose mascherate sotto un fitto velo di greenwashing, in cui vedremo impianti dedicati ai fossili spacciati per green, o l’ ormai usuale greenwashing riguardante le linee dell’ alta velocità. All’ interno di questi conflitti sarà importante far emergere il tema del fabbisogno energetico reale delle comunità -in un’ ottica di decrescita- oltre che della democrazia nella gestione delle risorse. A riguardo sono interessanti le esperienze delle reti di redistribuzione energetica autogestite e dell’ implementazione delle “piccole opere di prossimità”. Ma parlando di territorio abbiamo rilevato la difficoltà dei grandi movimenti climatici come Xr o Fff a declinarsi in forma di massa nelle singole questioni territoriali. Anche da qui nasce la necessità di approcciare le grandi opere da una pluralità di punti di vista: da un lato il loro essere inscritti dentro una cornice di green economy che di green non ha niente, dall’ altro svelarne il loro danno ecosistemico, tornare alla materialità del loro danno nella salute pubblica (impatto paesaggistico, sull’ inquinamento dell’ aria, dell’ acqua, dei terreni ecc ). In questo quadro, è forte la necessità di aggredire le contraddizioni territoriali e di affrontare le contraddizioni che il PNRR farà emergere per rendere manifesto il ruolo dello stato come soggetto facente parte dello stesso blocco di potere che devasta i territori e le comunità che li abitano.
Secondo sotto-tavolo: la decrescita
Il discorso sulla decrescita è pressoché assente nella narrazione creata dalla finanza “verde” e dal capitalismo “verde” rispetto alla crisi ecologica, che si propongono di lasciare inalterato il sistema di produzione e consumo, limitandosi a modificare (parzialmente) le fonti di energia. Al contrario, crediamo che il passaggio alle energie rinnovabili debba essere accompagnato da una riduzione dei consumi e del volume del movimento delle merci. Tale decrescita può essere selettiva: alcuni settori è utile continuino ad espandersi, altri devono essere limitati o ristrutturati[6]; tra questi, abbiamo individuato come sicuramente criticabili quello della fast fashion, il settore agro-alimentare e quello degli elettrodomestici, guidato dall’obsolescenza programmata.
Tuttavia in questo passaggio alla decrescita è fondamentale una reale democratizzazione del processo decisionale che regoli produzione ed utilizzo dell’energia, considerando modelli decisionali più locali e collettivi, che colmino le lacune della struttura statale e della democrazia rappresentativa, percepiti come insufficienti.
Sosteniamo infatti che per ottenere un reale cambiamento sia necessario puntare non solo sull’azione del singolo (attraverso ad esempio campagne di sensibilizzazione sul ciclo di vita del prodotto o limitazione della pubblicità), ma anche e soprattutto su un’azione collettiva, che deve assumere diverse forme dalle campagne di boicottaggio, alle assemblee territoriali, alle azioni dirette.
Terzo sotto-tavolo: il ruolo della finanza pubblica e privata nelle campagne politiche.
All’interno della discussione riguardante il coinvolgimento della finanza nella transizione verso un capitalismo “green”, si è reso necessario ragionare del ruolo degli investimenti e delle dinamiche finanziarie all’interno delle campagne politiche stesse. In primis, strutturare azioni praticabili e facilmente accessibili anche a chi non ha basi specifiche sull’argomento è fondamentale nel momento in cui si decide di portare in campo lo strumento della sensibilizzazione sul tema della finanza. Anche sulle campagne già in corso (ad esempio contro economostri come Eni o Shell) comprendere e trasmettere alla dimensione popolare l’importanza che ricopre un soggetto che investe può diventare uno strumento politico efficace. Coinvolgere la collettività di movimenti climatici europei consente di fare campagna a partire dei molteplici attori in campo, analizzandone le criticità attraverso la leva finanziaria e mettendole in relazione.
Prendere spazio informativo attraverso tutti gli strumenti possibili, evitando di limitare la campagna a soggetti di movimento, usando i social e la mobilitazione pratica consente una maggiore diffusione della campagna anche in un momento pandemico come quello che stiamo vivendo. Vogliamo chiarire e diffondere il collegamento tra l’impatto delle grandi opere, degli ecomostri e la finanza: pensiamo sia fondamentale problematizzare collettivamente il tema e sfruttare una narrazione che coinvolga direttamente i soggetti in campo (banche, enti privati e pubblici) in termini di inquinamento prodotto.
I termini di narrazione scelti devono essere volti a responsabilizzare le banche, correlare il profitto economico all’impatto sanitario con l’obiettivo di aprire la campagna su più fronti. Lo stesso lavoro consequenziale deve essere svolto a partire dai territori per finire ad una dimensione possibilmente internazionale.
Abbiamo riconosciuto quanto lo stretto legame tra finanza pubblica e privata abbia influenzato direttamente la salute e la qualità della vita delle persone: il periodo pandemico evidenzia la scelta politica di disinvestire in termini strutturali su welfare, salute e istruzione, a favore di elementi che ulteriormente limitano la possibilità di migliorare la qualità della vita delle persone.
Inoltre riteniamo essenziale evidenziare quanto casi specifici, in cui il ruolo della finanza avrebbe potuto o può costituire una leva di ragionamento politico, abbiano prodotto riscontri simili in territori differenti (ad esempio TAV, Pedemontana, Terzo Valico)
Elementi come SACE, ente pubblico libero di agire quasi senza vincoli finanziari, in grado di mobilitare risorse in termini di miliardi, vengono agevolati dall’azione che compiono nell’ombra: profilare e rendere target pubblicamente il soggetto contro cui viene costruita la campagna, apre spazio di confronto e permette la reale creazione di alleanze.
Le dinamiche che i ministeri proporranno in termini di Recovery Plan, tramite bandi delegati a livello ragionale, potrebbero garantire spazio di ragionamento e portare in rilievo le controversie presenti sui singoli territori.
Prendendo in considerazione il caso Generali, seguito da Re:Common in Polonia, può essere uno spunto per replicare le pratiche utilizzate, andando a colpire gli attori del nostro territorio che sono responsabili, o potrebbero essere responsabili, di investimenti che portano criticità in altri paesi.