di Gioacchino Toni
Schade, dass Beton nicht brennt (Peccato che il cemento non bruci). Così, riprendendo una scritta tracciata sulle mura della città dagli squatter berlinesi, è intitolato un film documentario realizzato dal Gruppo NovemberFilm nei primi anni Ottanta sul movimento di occupazione delle case vuote nella zona di Kreuzberg. L’ostilità espressa dagli autonomen berlinesi non è evidentemente tanto rivolta al calcestruzzo in sé – materiale utilizzato per edificare sin dall’antichità – quanto piuttosto al suo impiego moderno – nella variante “rinforzata”, il cosiddetto “cemento armato” –, con cui sono edificati i quartieri degradati a cui sono costrette le fasce più povere della popolazione. Nonostante un glossario tecnico un po’ approssimativo, a questo slogan occorre rincrescere il merito di aver colto il legame esistente tra degrado urbanistico-abitativo, a cui è relegata una larga fetta di società, ed il materiale con cui tale habitat è edificato.
È proprio tale materiale ad essere preso di mira dal saggio di Anselm Jappe, Cemento. Arma di costruzione di massa (elèuthera 2022), saggio in cui l’autore riflette sul cemento armato a partire dal crollo del viadotto Morandi nel 2018 a Genova. Al di là di colpevoli e criminali incurie e di eventuali ricorsi a materiali di scarsa qualità, il cemento armato è un materiale destinato ad un precoce invecchiamento divenuto simbolo dell’architettura novecentesca, tanto dei grandi maestri del funzionalismo quanto dei più anonimi fautori del disastro urbanistico-ambientale di cui è ormai impossibile non prendere atto.
Dapprima integrato nei metodi di costruzione tradizionali e celebrato da alcune avanguardie storiche, la sua “rivoluzione” in Francia può dirsi avvenire nel primo dopoguerra con l’industrializzazione del settore delle costruzioni edili che lo elegge come materiale imprescindibile. Se il cemento armato tende ad essere associato alle costruzioni funzionaliste-razionaliste, non ha fatto mancare il suo apporto nemmeno negli edifici neogotici, nelle ville liberty e nell’architettura organica.
Il boom del cemento armato, almeno in Occidente, si ha tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso e se già dopo pochi decenni dalla loro costruzione le stretture realizzate con tale materiale iniziano il loro inesorabile processo di decadimento, per quanto possa essersi data una buona manutenzione, presto si dovrà fare i conti con l’obsolescenza di buona parte dell’ambiente edificato che ci circonda.
Se è vero che nella società contemporanea vengono da tempo mosse critiche nei confronti dei progettisti e delle imprese costruttrici – fedeli alle logiche del profitto – e si levano diverse voci contro l’imperativo di continuare a costruire senza sosta, forse, suggerisce Jappe, sarebbe utile mettere in discussione lo stresso cemento armato. Il legame tra cemento e capitalismo potrebbe non risolversi nel suo contribuire ai profitti di pochi, ma, secondo lo studioso, si potrebbe vedere in esso «la perfetta materializzazione della logica del valore della merce […] chiamato concrete in inglese e concreto nello spagnolo e nel portoghese latinoamericani, può ben essere considerato come il lato concreto dell’astrazione capitalista» (p. 18).
Se la gestione capitalista dello spazio, con l’ingiustizia sociale che ne deriva, è stata ed è oggetto di critiche, anche feroci, scarso interesse è stato sin qua rivolto ai materiali impiegati. Jappe propone dunque di trasformare in atto di accusa l’elogio che spesso viene fatto al cemento armato in quanto materiale che ha permesso l’architettura e l’urbanistica dei secoli XX e XXI. A scanso di equivoci è bene sottolineare che nel volume l’autore non propone il ritorno a murature prive di legnati; ciò che gli interessa è invece concentrare i suoi ragionamenti su di un materiale particolare come il cemento armato per il suo legame con il capitalismo industriale.
Con riferimento alla Francia, quando ha iniziato ad essere impiegato, il cemento armato è stato utilizzato soprattutto negli edifici pubblici, nelle opere di ingegneria civile e nelle abitazioni popolari. Servirà qualche tempo prima che questo venga accettato nelle dimore borghesi. La sua introduzione può dunque dirsi socialmente connotata tanto che finisce per essere “rivendicato” dal pensiero più progressista come “materiale proletario” da elogiare, inoltre, per la sua modernità.
Nonostante l’edilizia del cemento armato tenda ad indirizzarsi verso l’abitazione di massa, secondo Jappe non si deve scorgere una forma di emancipazione proletaria in quella che definisce una modernizzazione delle baracche.
L’architettura modernista del dopoguerra ha introdotto una novità degna di nota: i poveri sfogano la loro rabbia sulle loro stesse case. Il legame tra i grandi complessi residenziali e il continuo “degrado”, piccolo o grande che sia, è a tal punto visibile che ormai è considerato inevitabile, “naturale”. Non ci sono prove di tali pratiche nei tuguri proletari del XIX secolo. Il successo è innegabile: invece di attaccare le case dei ricchi, gli “esclusi” attaccano ora le loro stesse case (pp. 61-62).
Se precedentemente il proletariato urbano manteneva un legame orgoglioso con le abitazioni e i quartieri in cui dimorava, per quanto miseri fossero, nell’era del cemento armato tende invece a rivolgere l’odio non verso la classe avversa ma verso se stesso e verso i luoghi in cui vive ed a tale ribaltamento, sostiene Jappe, il ruolo dell’urbanesimo e della gestione del territorio è stato tutt’altro che secondario.
Il diffondersi delle nuove abitazioni è andato ad affiancare forme di inurbamento e modernizzazione forzati che hanno indotto a trasformare l’arredamento domestico, alla diffusione dell’automobile, all’abbandono dell’autoproduzione e alla perdita delle abilità nelle riparazioni domestiche anche più banali. Al di là dei miglioramenti reali, tutto ciò è stato reso possibile anche grazie alla capacità del capitalismo di far provare un senso di vergogna a quanti ancora vivevano “alla vecchia maniera”.
Il cemento armato è alla base anche della cosiddetta “architettura brutalista” spesso applicata nella costruzione di nuovi edifici universitari e, secondo l’autore, ciò appare del tutto in linea con l’avvento della “università di massa”
Nel corso degli anni Cinquanta del Novecento tanto negli ambienti lettristi che, successivamente, situazionisti si produsse una critica radicale all’urbanistica dell’epoca che prese di mira anche il funzionalismo a cui tanti, anche di tradizione progressista, erano devoti. Quelle mosse da tali ambienti non erano, però, critiche mosse da uno spirito nostalgico-tradizionalista – come invece accade ai nostri giorni in diversi critici della modernità di matrice libertaria –, si trattava piuttosto di prospettare un altro modello di modernità, libero tanto da rigurgiti passatisti quanto da acritiche celebrazioni dell’esistente:
l’urbanismo unitario, e qui stava la loro originalità, non doveva servire all’ordine esistente, al lavoro o alla vita familiare, alla circolazione delle automobili o agli “svaghi” autorizzati, alla standardizzazione o all’economia. Tutto al contrario, l’architettura immaginata da lettristi e situazionisti era volta al gioco e al nomadismo, al “comportamento sperimentale” e allo smarrimento: in breve, alla “costruzione di situazioni”. Un aspetto essenziale era quindi la struttura labirintica, così come la possibilità per gli abitanti di modificare gli edifici (p. 73).
Raoul Vaneigem nel 1961, nei suoi Commentaires contre l’urbanisme scrive:
Abitare è il ‘bevete Coca-Cola’ dell’urbanistica. Si rimpiazza la necessità di bere con quella di bere Coca-Cola. […] Mischiando il machiavellismo al cemento armato, l’urbanistica ha la coscienza a posto. […] Bisogna costruire in fretta, c’è molta gente da alloggiare, dicono gli umanisti del cemento armato. Bisogna scavare trincee senza tardare, dicono i generali, c’è la patria da salvare. Non c’è forse qualche ingiustizia nel lodare i primi e nel beffarsi dei secondi?1.
Il ricorso massiccio al cemento si rivela nocivo per la salute del pianeta; si pensi alla ricaduta ambientale dell’estrazione massiccia di sabbia e ghiaia, all’impoverimento dei terreni ed al consumo di energia con conseguenti ricadute in termini di emissione di anidride carbonica determinata dalla sua produzione, oltre a richiedere l’impiego di una grande quantità di risorse idriche. Trattandosi però di cemento armato, occorre considerare anche la presenza del ferro nel calcolo dell’impatto sul pianeta.
Al di là dei problemi di impatto sulla salute e sull’ambiente, occorre però, secondo Jappe, concentrarsi sulla responsabilità del cemento armato nell’aver permesso l’architettura moderna così come si è sviluppata con tutta la sua negatività, pertanto, sostiene l’autore, la domanda da porsi non è tanto cosa il cemento armato abbia reso possibile – nella consapevolezza che non mancano di certo esempi positivi –, quanto piuttosto occorre chiedersi cosa sia scomparso a causa sua e cosa abbia reso impossibile, quanto abbia inciso sulla perdita di savoir-faire e sul declino dell’artigianato edile, quante capacità e competenze nell’ambito dell’edilizia abbia cancellato…
L’omogenizzazione, la standardizzazione e l’anonimato dell’architettura e dell’urbanistica dell’età del cemento armato è sicuramente figlia della rottura operata dal capitalismo industriale nei confronti dello sviluppo millenario della civiltà.
Una delle prime esigenze del potere moderno è di vedere e controllare ogni cosa: conosciamo il ruolo emblematico del carcere detto “panottico” proposto in Inghilterra da Jeremy Bentham nel 1780. Le lunghe arterie dritte che attraversano le città moderne non servono solo a sparare sugli insorti, ma anche a impedire che qualcuno pensi anche solo di insorgere […] L’ideale panottico del potere si realizza non solo nella linea retta senza ostacoli, ma anche nel culto della trasparenza […] Questo fanatismo per la trasparenza corrisponde al desiderio di sorveglianza totale da parte di chi detiene il potere. L’architettura della visibilità è sorta quando la credenza in un Dio che tutto sa e tutto vede cominciò a intimorire meno le coscienze: Bentham era un protagonista dell’Illuminismo! Ed è anche una lotta contro il nostro lato oscuro, contro tutto ciò che sfugge al controllo della razionalità strumentale (pp. 155-156).
Il volume di Jappe termina dedicando un capitolo a William Morris ed alla sua lucida presa di coscienza, in pieno Ottocento, di come la meccanizzata produzione seriale dia luogo a realizzazioni di pessima qualità estetica derivata dalla logica profonda del “sistema fabbrica” e dalla parcellizzazione del lavoro svilente l’apporto creativo individuale. I meriti delle proposte di Morris sono probabilmente da ricercarsi più sul versante delle problematiche poste che su quello delle reali risposte praticate; la sua ambizione di unire etica ed estetica, di dare vita ad un’esperienza in grado di liberare tanto la creatività dei lavoratori, attraverso modalità produttive preindustriali, quanto la fruizione dei destinatari dal grigiore della produzione seriale, impatta, inevitabilmente, con la logica complessiva di un sistema economico che ne impedisce di fatto l’attuazione. Resta, tuttavia, un apprezzabile, per quanto romantico e utopistico, tentativo di invertire la rotta rispetto ai tempi correnti.
Insomma, un’alternativa al cemento armato, arma di costruzione di massa nelle mani del capitalismo, pare possibile soltanto mettendo davvero in discussione quest’ultimo.