Il 30 settembre abbiamo assistito, nel contesto del Festival di Internazionale a Ferrara, al talk “Brandelli di umanità”. Il dibattito ha visto la partecipazione di Mario Calabresi, giornalista italiano ed ex direttore di Repubblica, e Cristina Cattaneo, medica legale e antropologa, esperta di riconoscimento dei corpi.
Il dibattito si apre con due dialoghi teatrali tra un pescatore e una viaggiatrice. Il testo di per sé risulta molto forte e a tratti anche disturbante. Siamo in un futuro prossimo sull’isola di Lesbo e il pescatore è un commerciante di carne umana. Difatti, la grandissima quantità di naufragi ha dato vita a questo macabro business. In base alle provenienze e alla “qualità” del corpo, esso acquisisce valore nel mercato e viene venduto. Nell’audio viene ricalcata anche l’indifferenza e la distanza del pensiero del pescatore dalla morale comune, nonostante però la totale indifferenza delle persone al di fuori della viaggiatrice.
Il secondo audio invece ricalca con forza le atroci torture che vengono inflitte ai migranti, dalle violenze fisiche passando a quelle sessuali. Qua, il pescatore, con un freddo cinismo, rimarca le responsabilità dell’occidente al quale, tutto sommato, va benissimo così. Addirittura, si spinge ad affermare che siano quasi contenti delle partenze dei migranti e che gli ispettori europei fanno controlli solo di facciata, ignorando il problema della tratta degli esseri umani. Il dialogo si chiude immaginando una grande stanza, insonorizzata dal pescatore, dove vengono contenuti i corpi e dove le anime dei morti continuano a urlare di disperazione.
La parola passa a Cristina Cattaneo, che ci racconta del suo lavoro di ritrovatrice di identità dei cadaveri. Dal 1995 infatti dirige il Laboratorio di antropologia e odontologia forense, con l’obiettivo di restituire un’identità a tutte quelle persone morte in mare. Difatti, ci racconta l’antropologa, è molto comune che le questure ricevano chiamate da parte delle famiglie che hanno tutto il diritto di esser informate della morte di un loro familiare. Un evento che ha molto contribuito a scuotere le coscienze di questo tema è stato il naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013, dove morirono almeno 368 persone. In quella data infatti è stato di vitale importanza lo sforzo atto a identificare i morti. L’identificazione è qualcosa di molto complesso ma ci sono comunque vari metodi. Ad esempio, si conta molto sull’ascoltare i vivi, non solo gli eventuali sopravvissuti ma anche i parenti delle vittime, che essi siano nei paesi di origine oppure nel Nord Europa.
Cicatrici, tatuaggi, protesi dentarie…sono tutte caratteristiche che possono così aiutare all’identificazione.
Calabresi incalza allora la dottoressa dicendo che manca l’empatia per i vivi, com’è possibile allora pretenderla per i morti?
Ma forse sono proprio i morti ad aver un linguaggio spesso più eloquente dei vivi, ci spiega la dottoressa Cattaneo. Infatti, i cadaveri han davvero tantissime cose da raccontare. Ad esempio, spesso, molti migranti han l’abitudine di portarsi queste bustine di cellophane sigillate che, a prima vista, potrebbero sembrare sostanze illegali ma che invece contengono la terra dei loro rispettivi paesi. Il corpo stesso è inoltre un ricettacolo di storie e descrizioni. L’antropologa ci racconta delle ferite che spesso portano appresso queste persone, soprattutto quelle provenienti dalla Libia. Capita che sia difficile identificare la natura di questi fregi proprio per via dei sempre nuovi metodi di tortura che avvengono nel nord africa.
Per fortuna non tutto è macabro, e non è raro trovare, ben impacchettate e protette, anche le lettere che queste persone scambiano con le rispettive famiglie, spesso incredibilmente quotidiane.
Ma anche i vivi parlano moltissimo, come un ragazzo quattordicenne che raccontò di esser stato diversi giorni in una cella con accanto il cadavere del suo migliore amico in decomposizione, ucciso a calci dai trafficanti. Ancora oggi, infatti, il problema della tratta degli esseri umani espone ogni anno migliaia di persone che spesso muoiono senza averne nemmeno un nome.
Non dobbiamo dimenticare la nostra responsabilità morale ma anche politica di fronte a questo scempio. È necessario che l’Italia, ma anche l’Europa, lavorino al fine di trovare una soluzione al problema della tratta nel Mediterraneo.