Il 23, 24 e 25 agosto – nel corso dell’ultima ondata di calore che ha colpito l’Europa meridionale – i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS) dello stabilimento Electrolux di Susegana (TV) hanno dichiarato la sospensione del lavoro nelle ore più torride della giornata, non essendo possibile continuare la produzione in condizioni di tutela minima della sicurezza di operaie e operai. La direzione si era precedentemente opposta alla richiesta di un cambiamento dell’orario per evitare di costringere i dipendenti a lavorare in catena di montaggio con temperature attorno ai 34 gradi, offrendogli invece angurie gratuite. Questa situazione, in cui le decisioni prese da uffici climatizzati mettono lavoratrici e lavoratori in condizioni estreme, è emblematica della dimensione di classe della crisi ecologica, caratterizzata da forti asimmetrie per quanto riguarda sia le responsabilità nel causarla sia l’esposizione alle conseguenze. Sull’accaduto, proponiamo questa intervista ad Augustin Breda, delegato RSU FIOM all’Electrolux di Susegana.
LF: Qual è la situazione dell’Electrolux oggi?
AB: L’Electrolux è una multinazionale svedese con circa 50.000 dipendenti, produce elettrodomestici in tutti i continenti del mondo. In Italia è entrata acquisendo la Zanussi di Pordenone, la quale aveva precedentemente comprato la Zoppas di Conegliano. Oggi Electrolux ha cinque principali stabilimenti in Italia: Porcia (lavatrici), Susegana (frigoriferi), Forlì (forni e piani cottura), Solaro (lavastoviglie) e Cerreto d’Esi (cappe aspiranti). In Italia è la più grande azienda del settore, seguita dalla Whirlpool.
La forza lavoro dello stabilimento di Susegana è composta da donne e uomini in proporzioni simili e per circa un quinto da dipendenti di origine straniera. Fino a un anno e mezzo fa, la fabbrica aveva 1500 dipendenti. Ora siamo calati a 1300 circa, tutti a tempo indeterminato, perché non sono stati rinnovati i contratti a tempo determinato a causa – ci dicono – di una flessione della domanda. Infatti, Electrolux ha puntato sul cosiddetto “alto di gamma” ma questa scelta si sta scontrando con l’inflazione e la stagnazione dei salari reali. Siamo così passati da una produzione di 4200 frigoriferi al giorno a poco più di 3000 in questo momento.
La fabbrica è attualmente costituita da quattro linee, due nei reparti tradizionali e due nei reparti Genesi avviati nel 2021. Produciamo frigoriferi da incasso per le cucine componibili preparate da mobilieri come Ikea. Il processo produttivo parte dalla lamiera che viene trasformata nel “cassone” nel frigorifero, dentro al quale vengono inserite le componenti. Queste ultime arrivano sia da fabbriche del territorio, come la Sole di Oderzo, sia da altri continenti. Per esempio, i compressori – che fino a poco fa erano fatti all’ACC di Mel (BL) – ora provengono dalla Cina. Prima lavoravamo su due turni ma con la ristrutturazione siamo passati a giornata (dalle 7.00 alle 16.00) in tre linee su quattro.
LF: La cosiddetta Industria 4.0 è arrivata anche a Susegana, in che modo sta cambiando il processo lavorativo?
AB: L’ultima ondata di automazione digitale è arrivata con i reparti Genesi. Sia i nuovi frigoriferi sia la fabbrica stessa hanno dentro un sacco di microchip che controllano tutto. Il nuovo processo lavorativo vede una maggiore presenza di robot, i quali hanno eliminato una serie di operazioni umane. Gli stessi frigoriferi sono ingegnerizzati a monte per essere prodotti più convenientemente dalle macchine. Ci sono però molti cosiddetti “back up”: se la macchina non funziona arrivano operaie e operai per compiere le operazioni che essa avrebbe dovuto svolgere. Per ora, in Genesi c’è più personale di quanto era stato preventivato.
Per le lavoratrici e i lavoratori, gli effetti dell’innovazione tecnologica sono come sempre ambivalenti. L’ergonomia è migliorata, alcune delle operazioni più gravose sono state automatizzate e l’operaio si deve adattare meno al frigorifero perché il processo lavorativo è stato concepito per minimizzare gli stress muscoloscheletrici. Ma per pagare l’automazione hanno aumentato i ritmi. Prima facevamo un pezzo ogni 50 secondi circa, che è già un bel ritmo. Adesso siamo a 30 e rotti sulla carta ma in realtà quando possono spingono la velocità anche oltre.
Per esempio, nella fabbrica tradizionale, che aveva le catene a tapparella, se tu avevi 50 secondi per fare il pezzo questo restava fermo per 50 secondi prima di transitare alla fase successiva. Nella nuova fabbrica, sei tu che devi schiacciare un bottone per mandar via il pezzo. L’azienda ti dice che hai 35 secondi ma in realtà preme affinché tu lo faccia più veloce, regalando il tuo lavoro. Su questo abbiamo aperto un contenzioso. È rivelatore anche il fatto che nessun delegato sindacale è stato assegnato agli impianti Genesi, dove hanno dato la priorità agli operai più giovani e quindi per ora in grado di tollerare ritmi più intensi.
Un altro effetto è stato l’aumento dei “team leader”, che una volta si chiamavano aiuto capo. Nella fabbrica tradizionale, i team leader conoscono bene il processo lavorativo e sono in grado di sostituire le operaie e gli operai anche nelle mansioni più complesse. Nella nuova fabbrica, che è nuova anche per la direzione, i team leader sono persone che dicono ad altre persone di correre di più, con l’ausilio di tablet collegati a sensori che li avvisano quando qualcosa non va. C’è stata quindi anche una digitalizzazione del management.
LF: Nel 2022, 113 persone sono morte sul lavoro in Veneto, che è anche la regione italiana con il più alto numero di lavoratori giovanissimi morti sul lavoro. Ricordiamo il caso di Giuliano De Seta, morto l’anno scorso a 18 anni durante l’alternanza scuola-lavoro. Voi avete portato avanti una campagna provinciale per la sicurezza sul lavoro, attraverso il caso emblematico di Mattia Battistetti. Quali sono i principali fattori di rischio nella vostra fabbrica e come vedete la situazione al livello locale?
AB: La nostra fabbrica produce malattie professionali, parliamo di centinaia di persone “con limitazioni”, ovvero che non dovrebbero fare certi lavori perché già rovinate. Si tratta principalmente dei ritmi che, dal punto di vista muscoloscheletrico, ti sottopongono a uno sforzo superiore alla capacità di resistenza e recupero del tuo corpo, in particolare braccia, mani, gomiti, spalle. Per contenere la cadenza dei ritmi abbiamo due livelli d’intervento: la trattativa informale sul lavoro e le commissioni formali su tempi e metodi. In queste ultime si registra sempre una maggiore rigidità da parte dell’azienda, perché non sono disponibili a formalizzare cedimenti sulla loro autorità di gestire unilateralmente la fabbrica. Questo è un problema oggettivo che non abbiamo risolto negli ultimi cinquant’anni.
Ad ogni modo, abbiamo sempre avuto una forte attenzione per la sicurezza. Tutt’oggi, due volte all’anno, commemoriamo la nostra collega Luisa Ciampi, uccisa il 12 novembre 2001 da un’esplosione causata dalla fuga di un gas refrigerante. Sarebbe bastato un semplice rilevatore per prevenire l’incidente ma non c’era, così quando hanno acceso i cannelli di saldatura è saltata in aria la linea, provocando 12 feriti e il decesso di Luisa dopo sei mesi di agonia in ospedale.
La nostra provincia è particolarmente funestata dalle morti sul lavoro e questo accade non solo perché viviamo in una zona industrializzata ma anche perché è stato deciso scientemente di indebolire lo SPISAL, ovvero l’entità addetta ai controlli. Di conseguenza le competenze specifiche sono insufficienti, cosa che spesso mette lo SPISAL in una posizione di totale inferiorità rispetto alle imprese che dovrebbe sorvegliare. E queste sono scelte politiche.
Abbiamo portato avanti la campagna per la giustizia per Mattia Battistetti soprattutto per l’importante reazione della famiglia, che non si è chiusa nel lutto ma si è aperta a contestare i modelli organizzativi che possono causare questi incidenti. Noi l’abbiamo ritenuta una reazione di altissima dignità e valore sociale. Per questo stiamo seguendo tutte le fasi, anche processuali, per non lasciare la famiglia sola in questa battaglia per rendere giustizia a una tragedia evitabile e per far sì che anche in Italia, come esiste l’omicidio stradale per eccessiva negligenza alla guida, ci sia una normativa simile per la sicurezza sul lavoro.
LF: Qual è stato l’impatto delle ondate di calore sulla salute e la sicurezza di operaie e operai? Come avete reagito?
AB: Le linee non hanno l’aria condizionata per ragioni di costi. La direzione ha preferito installare dei “rinfrescatori”, i cosiddetti impianti adiabatici. Tuttavia, nella fabbrica vecchia i rinfrescatori sono pochi, mal disposti e mal funzionanti, cosicché nei giorni più caldi le temperature hanno raggiunto i 34 gradi, con alti livelli di umidità. Soprattutto, le linee continuavano a correre alla stessa velocità di sempre e quelle temperature moltiplicano lo sforzo fisico e mentale per stare dietro ai ritmi. In Genesi, invece, i rinfrescatori funzionano meglio cosicché la temperatura era inferiore di circa 4 gradi, ma con un’umidità più alta, perché – per risparmiare – non sono stati installati gli estrattori per far circolare l’aria umida. Attenzione, non è un caso che i rinfrescatori funzionino in Genesi e non nella fabbrica vecchia. Accade perché i sistemi digitali operanti in Genesi – i server, le schede elettroniche, ecc. – non funzionano se fa troppo caldo. In modo simile, anche le persone vengono prese in considerazione solo se smettono di “funzionare”.
Martedì della settimana scorsa un’operaia si è fratturata un piede proprio in uno dei reparti più caldi. Noi avevamo già detto che, anche se è vero che gli incidenti purtroppo possono capitare in ogni momento dell’anno, è più faticoso mantenere la concentrazione quando si è sottoposti a un acuto stress termico. Un responsabile della sicurezza aziendale ha però comunicato che i cali d’attenzione sono più probabili quando si rientra dalle ferie, ragionamento da cui bisognerebbe concludere che per garantire la sicurezza non si dovrebbe riposare mai!
In un primo momento abbiamo chiesto all’azienda di sospendere il lavoro nelle ore più calde (più o meno dalle 13.00 alle 17.00) dei giorni con i più alti picchi di calore, usando al limite la cassaintegrazione. Abbiamo però ricevuto una risposta negativa, e ovviamente chi ce l’ha data lavora con l’aria condizionata negli uffici. Le RLS, con l’appoggio delle RSU nel loro insieme, hanno così deciso di sospendere il lavoro in autonomia perché non sussistevano le condizioni di salute e sicurezza minime, pertanto chi voleva poteva abbandonare le linee. Non è stato dunque dichiarato uno sciopero, ma nei pomeriggi da mercoledì a venerdì le persone sono uscite. Si è fermata soprattutto la parte vecchia della fabbrica, dove c’è un po’ più di coscienza sindacale ma soprattutto più caldo.
Il problema di fondo è che, nel corso degli anni, i forti cambiamenti climatici hanno determinato una difficoltà sempre più acuta di stare in fabbriche che non sono state pensate per temperature così alte. È quindi necessario trasformare la struttura produttiva per far fronte alla crisi climatica. Per esempio, un altro problema è che i dipendenti devono parcheggiare le loro automobili all’aperto e le grandinate sempre più forti rischiano di danneggiarle seriamente. Naturalmente basterebbero delle coperture, ma noi preferiremmo un sistema di trasporto pubblico che permetta a operaie e operai di raggiungere la fabbrica in modo meno inquinante.
LF: Più in generale, come vedi la relazione tra organizzazione nei luoghi di lavoro e crisi ecologica?
AB: Secondo me la coscienza climatica delle lavoratrici e dei lavoratori è tendenzialmente migliore di quella dei loro datori di lavoro. Noi abbiamo partecipato ad alcuni scioperi di Fridays for Future con tassi di adesione impressionanti. Penso che soprattutto i lavoratori con qualifiche più basse abbiano ben chiaro quello che sta succedendo, perché l’instabilità del clima costituisce per loro una minaccia economica. Gli è quindi chiaro non necessariamente per la corretta astrazione sull’avanzare della crisi climatica ma perché vivono il riscaldamento globale sulla propria pelle. Il caldo in fabbrica, la grandinata che ti scassa la macchina con cui devi andare al lavoro… Cose che prima non succedevano quasi mai e ora sono sempre più frequenti.
Ovviamente il problema di fondo resta che le imprese, in un modo o nell’altro, devono fare profitti. Se potessero farlo senza cambiamento climatico, quest’ultimo non ci sarebbe. Quindi non ci sono alternative a insistere con le mobilitazioni, che sono l’unico modo – assieme alla protesta che il clima fa già da solo – per dare prima l’allarme e poi il senso che un’alternativa a questo modello di società, di vita e di lavoro c’è. E secondo noi c’è.