Coltivare la natura, di Giacomo Sartori

Kellermann editore, Vittorio Veneto 2023, Pagg. 185 € 16

L’ultimo libro di Giacomo Sartori esce dal suo abituale brand, composto da un mix di scrittura raffinata e sperimentale, straniamento “autistico”, indagine spietata dell’animo e dei comportamenti, resistenza alle involuzioni che ci minacciano fin dalla nascita, per entrare a gamba tesa nella scrittura scientifica. Perché Sartori è anche uno scienziato: agronomo e geologo, conosce i terreni, i processi di germinazione e fotosintesi, e conosce la storia. Infatti non è solo un testo di denuncia del depauperamento dei suoli attraverso l’intervento predatorio dell’uomo, ma anche un excursus storico dell’agricoltura, e un globale, disperato atto d’amore per la natura e di tutto ciò che ci offre (MB).

Di seguito pubblichiamo l’introduzione di Carlo Petrini e un capitolo (pagg. 68-70)

“Di volumi, libri e trattati su suoli e agricoltura ce ne sono parecchi in circolazione. Eppure, a mio modo di vedere, con Coltivare la natura Giacomo Sartori ha portato a compimento un lavoro che riesce ad approcciare il tema da una prospettiva poco battuta, ma senz’altro di valore. Mi riferisco all’excursus storico con cui ripercorre in maniera dettagliata lo sviluppo della relazione – per noi esseri umani vitale – tra agricoltura e fertilità dei suoli durante l’arco dei millenni (dal Neolitico ai giorni nostri). Si tratta di una relazione per certi versi contraddittoria: dal punto di vista del suolo la pratica agricola è infatti un’attività estrattiva (che preleva risorse nutritive dal terreno, riducendone la fertilità), mentre dal punto di vista dell’uomo è generativa (che produce cibo volto al nutrimento e sostentamento).

Una contraddittorietà che è stata però gestita grazie al savoir faire umano che ha consentito di trovare tecniche e metodi calati nei singoli contesti territoriali e capaci di ricreare e mantenere nel tempo la fertilità dei suoli. A un certo punto della storia recente, qualcosa si è però inceppato. Nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, e ancor più nel secondo dopoguerra, la chimica di sintesi ha soppiantato la visione olistica e di sistema che fino a quel momento aveva caratterizzato la relazione uomo – agricoltura.

Se nella pratica questa operazione ha fatto sì che l’attività agricola venisse assoggettata al paradigma produttivo lineare input-output, dal punto di vista del pensiero l’uomo è stato assalito da una sorta di delirio di onnipotenza che gli ha fatto credere che la natura si potesse dominare, e che i fenomeni naturali coinvolti nella produzione dei raccolti si potessero pilotare a favore dei propri interessi.

La chimica di sintesi insinuava presuntuosamente di poter risolvere un conflitto ontologico (quello tra agricoltura e fertilità dei suoli) che datava alla notte dei tempi, e invece, tutt’al contrario, ha provocato un incremento esponenziale della perdita di sostanza organica dei suoli coltivati. Trattare il suolo come una dinamica aziendale ci sta portando velocemente verso il baratro. Il suolo è materia viva, e come tale dovrebbe essere gestito. Per di più, se oltre a essere vivo è pure sano, allora fa da dimora alla più grande biodiversità al mondo (si parla di miliardi di microrganismi che ammontano a circa due terzi di tutti gli esseri viventi). Sopprimere la vitalità del suolo attraverso pratiche agricole predatorie implica, seppur indirettamente, di star affliggendo la medesima barbarie a noi stessi. Andando alle radici del problema, e ripercorrendo le soluzioni che di epoca storica in epoca storica hanno da un lato nutrito le persone e dall’altro garantito il mantenimento della fertilità dei suoli, Sartori aiuta a prendere maggiore consapevolezza della questione. Abbiamo urgente necessità di persone che imparino a camminare e a trattare la terra con rispetto, perché senza un suolo vivo non c’è futuro. Smettiamo di calpestarlo”.

Lo tsunami della via chimica sui paesaggi agrari italiani

“Le dinamiche descritte hanno stravolto in pochi decenni la natura e l’aspetto dell’agricoltura italiana, riducendo drasticamente le coltivazioni collinari e pedemontane, che ne rappresentavano la parte preponderante, e ne costituivano la storica ricchezza e la peculiarità. Intere zone coltivate da migliaia di anni, ben prima dei Romani, con tecniche che si adattavano ai vari ambienti, sono state lasciate a sé stesse.

Si è assistito quindi a una concentrazione delle aziende redditizie, o più spesso che ancora resistevano, nelle zone di pianura, più facilmente coltivabili. In particolare nelle piane alluvionali, o poco inclinate, che sono le più ricercate anche dall’urbanizzazione e dall’industria. Esse appaiano come superfici indifferenziate, quando sono quasi sempre il risultato di antiche opere di bonifica e di regimazione delle acque. Sono invase da colture specializzate, più spesso cerealicole, che sostituiscono quelle promiscue, prima onnipresenti.

Tutte le altre aree sono diventate marginali, se appunto per vocazione o altri motivi non sono riuscite a ripiegare su qualche coltura ad alto reddito. O più spesso sono degradate e abbandonate, restando in balia delle acque, dando luogo a dissesti idrogeologici. Il paesaggio dell’intero Paese, prevalentemente in pendenza, e molto articolato, ne risulta completamente stravolto, e dissestato.

Della passata organizzazione delle colture restano segni che in genere solo gli specialisti sanno leggere, quali filari di piante arboree, o resti di filari, senza più le viti che sostenevano. O anche alberi isolati, baulature ancora riconoscibili dei campi ormai accorpati, terrazzamenti in via di franamento, muretti, mucchi di pietre formate dagli antichi spietramenti.

In un trentennio gli addetti dell’agricoltura si sono ridotti in maniera vertiginosa, passando dai quasi nove milioni nel 1951, a meno di un milione e mezzo nel 1981. Tutto un mondo rurale, con una storia e una tradizione che affondava nella notte dei tempi, e con la sua preziosissima conoscenza capillare di un territorio composto da un mosaico di elementi diversi, e delle pratiche a esso appropriate, è stato spazzato via. E sono state le realtà più deboli economicamente, spesso presenti negli ambienti più problematici, a scomparire per prime. Certo l’epocale esodo dalle campagne è andato di pari passo a un rapido innalzamento del livello di vita, ma l’agricoltura, che a sua volta faceva grandi passi, non ci ha solo guadagnato. E ancora meno i territori.

Nel giro di pochissimo tempo sono state accantonate quelle opere di miglioramento delle terre e di modellamento delle superfici che erano la caratteristica, e il vanto, dell’agronomia della penisola fin dall’epoca romana. Per ottenere l’accorpamento dei campi sono state cancellate in particolare la maggior parte delle sistemazioni agrarie di pianura e di collina. Le antiche 70 71 opere di regimazione e di intercettazione delle acque sono in genere coperte. Le conseguenze in termini di erosione idrica sono catastrofiche.

I potenti trattori hanno permesso per anni di lavorare molto in profondità il terreno, quasi sempre troppo in profondità, come mai si era fatto in precedenza. Forse proprio per redimere le fatiche di generazioni e generazioni con strumenti manuali e animali da tiro, verrebbe da pensare. Più spesso portando a un suo peggioramento, mediante la riesumazione degli strati poco fertili di profondità e della pietrosità. E causando una perdita ulteriore di sostanza organica, per una più spinta mineralizzazione a contatto con l’aria. Il tutto restando nel sentiero della tradizione “ingegneristica” descritta.

I mezzi meccanici hanno consentito di appianare e rendere uniformi le superfici collinari, o di creare ciglioni (zone pianeggianti raccordate da scarpatine), quasi sempre sotterrando i suoli fertili che avevano impiegato millenni per formarsi, o peggiorandoli in modo definitivo. Sebbene negli ultimi anni si faccia in genere più attenzione a salvaguardare i suoli (asportandoli e riposandoli dopo le sistemazioni delle superfici), tali interventi distruttivi, che erano la regola fino a un passato molto recente, sono ancora diffusi. E questo anche in zone di grande pregio agronomico e paesaggistico (Chianti, colline venete…)”.

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