di Giorgio Bona
la tua coppia d’ali puntata verso l’etere, –
perché il mondo è la tua culla
la tomba è il mondo
Sono i passi di una canzone che Alla Pugačëva, osannata popstar caduta in disgrazia per una presa di posizione contro la guerra in Ucraina, intonava sui versi di Marina Cvetaeva (Nemico Pubblico, trad. Claudia Sugliano, De Piante, Milano 2022).
Passi di una poesia dal titolo “Ti riconquisterò da tutte le terre, da tutti i cieli” che accompagnò allora la poetessa verso un triste epilogo (1941), quel suicidio che si sarebbe forse evitato se non fosse tornata volontariamente in patria dall’esilio per aiutare il marito, marito Sergej Ėfron, malato e arrestato dalla polizia segreta di Berija con l’accusa di essere un traditore. Un marito che forse non amava più ma che non si sentiva di abbandonare al suo triste destino.
Ecco che il settimanale Literaturnaja Gazeta recupera negli archivi del KGB le lettere inedite tra cui quella indirizzata a Berija, che fanno pensare al rischio spaventoso di una caduta della stessa Cvetaeva nelle mani del boia. Questa lettera resta una delle grandissime testimonianze di un capitolo terribile della storia del paese, il rapporto del regime sovietico con i suoi scrittori.
Lavrentij Pavlovič Berija (1899–1953) fu il capo della polizia segreta dell’Unione Sovietica ai tempi di Stalin e primo vicepresidente del Consiglio dei Ministri per un breve periodo nel 1953, anno della sua morte. La storia ce lo restituisce come l’anima nera delle repressioni staliniane con le purghe e le deportazioni di massa.
È con estrema nobiltà che Marina Cvetaeva si rivolge al capo della polizia segreta di Stalin. Vuole avere notizie in merito all’arresto del marito, rinchiuso per attività antisovietica e condannato a morte, e della figlia Ariadna, arrestata nel 1939 appena due mesi prima del rientro di Cvetaeva in Unione Sovietica con il figlio Mur.
Era all’estero dal 1922: sono trascorsi diciassette anni ma per lei non c’è possibilità di un reinserimento nella società dove le verrà negato anche un posto come lavapiatti. Il pensiero che una lettera, una forma scritta, legittimi il grande valore della parola forse può trovare riconoscimento soltanto in chi sa ascoltare. Non sono più i tempi in cui Marina Cvetaeva, Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke, possono cercarsi turbinosamente attraverso i propri scritti (cfr. Cvetaeva, Pasternak, Rilke, Il settimo sogno. Lettere 1926, Editori Riuniti, Roma 1980). La poesia era la loro voce, un punto di incontro, la presenza per veder realizzato il grande sogno della letteratura. Marina condivise con Boris e Rainer l’idea di affidarsi al destino, l’idea che dentro una parola si dovesse riconoscere e amare il poeta, non l’uomo. Sarebbe stata l’unica testimonianza davanti al mondo.
A Marina interessava l’anima, non i colori della natura al mutare delle stagioni, gli effluvi dell’amore: l’anima, scalfita dalla parola intesa come creatura viva.
Serena Vitale in un suo scritto su Marina riconosceva due cariche esplosive che abbattevano tutte le pareti e scardinavano le porte: il sogno (riesco a vivere soltanto in sogno… è la mia vera vita… dove tutto si avvera) e il suo succedaneo diurno, la lettera (una forma del rapporto ultraterreno meno perfetta del sogno).
Rilke lo aveva intuito: con le sue lettere creava spazio (zaočnost’), la contrada che si stende al di là dello sguardo, la sconfinata distesa dell’assenza che riunisce e avvera, mentre qui, nella vita dei giorni, la presenza separa e distrugge.
La lettera al capo della polizia segreta contiene tutti questi ingredienti. Emerge grande dignità in quelle righe che si potrebbero intendere come una supplica.
No. Niente supplica. Vi si legge l’amore di una moglie e di una madre, un amore fiero portato nell’anima; e si vede l’anima immaginando Marina, china su uno scrittorio, che arma la penna con l’inchiostro dentro una notte azzurra con denti di cristallo, scandendo i suoi versi.
Compagno Berija…
Una lettera che testimonia un’epoca, l’epoca in cui la Russia ha dissipato i suoi poeti.