Sabato 3 dicembre si terrà a Perugia il dibattito dal titolo “Resistenze, dal passato al presente” con Tommaso Baldo, storico e autore di “Cichero. Storia e memoria di una divisione partigiana” e Cannibali e Re, progetto divulgativo di rinnovamento della narrazione storica. L’iniziativa si inserisce in un ciclo di incontri organizzato dall’associazione Ya Basta Perugia che mettono a fuoco il tema della “comunità”. Di seguito un contributo di Tommaso Baldo alla discussione.
«Ci sono tutti i tasselli per creare una storia del mondo completamente diversa. È solo che siamo troppo accecati dai nostri pregiudizi per vederne le implicazioni. Per esempio, quasi tutti oggi ripetono che la democrazia partecipativa e l’uguaglianza sociale possono funzionare in una piccola comunità o in un gruppo di attivisti, ma non possono essere applicate a una città, a una regione o a uno stato. Ma l’evidenza davanti ai nostri occhi, se ci decidiamo a guardarla, suggerisce il contrario. Le città ugualitarie, e perfino le confederazioni regionali, sono storicamente piuttosto comuni. Le famiglie e le case ugualitarie non lo sono. Quando sarà pronunciato il verdetto della storia, capiremo che la perdita più dolorosa delle libertà umane è cominciata su piccola scala, a livello di relazioni tra sessi, gruppi di età e servitù domestica: il genere di rapporti che esprimono allo stesso tempo la massima intimità e le forme più profonde di violenza strutturale. Se vogliamo davvero capire come diventò accettabile per la prima volta che alcuni trasformassero la ricchezza in potere mentre altri finivano col sentirsi dire che le loro esigenze e la loro vita non contavano, è qui che dovremmo guardare. Ed è sempre qui che dovrà svolgersi il difficilissimo lavoro di creare una società libera».
David Graeber. Come cambiare la storia dell’umanità. “Internazionale” 6 settembre 2020
La riflessione svolta da Graeber è parte di un’analisi che vuole smitizzare l’idea che l’umanità sia passata da uno stato di assoluta eguaglianza all’interno di piccole bande di cacciatori-raccoglitori ad uno stato di oppressione ad opera di caste militari e sacerdotali in seguito alla scoperta di agricoltura e allevamento e alla costruzione delle città.
Invece le più recenti riflessioni in campo archeologico e antropologico suggeriscono che forme di organizzazione familiare gerarchica e patriarcale, forme di organizzazione comunitaria egualitaria e processi di gerarchizzazione momentanea o “di scopo” convissero per molti millenni, per la maggior parte della storia umana. Non ci fu alcun netto passaggio da una sorta di “età dell’oro” del comunismo primitivo all’“età della schiavitù” come inevitabile portato del sedicente “progresso” (sviluppo della capacità di produrre cibo e di radunare più persone in un solo posto).
Questa riflessione sulla complessità e sulla contraddittorietà dei passaggi che portarono all’uscita da quella che siamo abituati a chiamare “preistoria” ci dice molto sull’utilità della storia come disciplina al servizio dei movimenti di liberazione. Un’analisi storica di qualità impatta direttamente sulla percezione che abbiamo non solo di un fatto o di un periodo, ma sulla stessa natura umana. Una visione complessa e articolata del passato è sempre una delle più profonde ed efficaci armi per contestare l’egemonia delle classi dominanti che cercano di spacciare per invariabile “natura umana” quella che è la propria ideologia.
Le riflessioni di Graeber ci portano inoltre su un piano di analisi realistico del concetto di “comunità”. Essa non è mai stata nulla di “naturale”, incorrotto, paradisiaco, ma neppure qualcosa di slegato dal mondo circostante, destinato alla marginalità e alla scomparsa come portato del “progresso”. Quella dialettica che Graeber individua durante la preistoria e nelle prime civiltà stanziali, ovvero la dialettica tra orizzontalità e verticalità, tra egualitarismo e gerarchia che si svolge contemporaneamente all’interno della sfera domestica, di quella comunitaria e degli aggregati sociali che nascono dalla confederazione di comunità o dalla loro sussunzione da parte di più ampie compagini sociali, attraversa tutta la storia umana.
Pensiamo ad esempio all’esistenza, nel Medioevo europeo, di forme comunitarie di villaggio basate sui beni comuni o monasteri sostanzialmente egualitari, posti però alle basi di una struttura sociale feudale che faceva della diseguaglianza per “volere di Dio” la propria cornice ideologica.
Occorre poi tenere presente che le comunità e l’identità che riunisce più comunità in un “popolo” – nel senso di appartenenza ad una comune lingua, cultura e storia – nascono a volte da un processo di espulsione, da una fuga, da un esodo, dal volersi sottrarre al controllo di un’autorità oppressiva scegliendo l’ignoto, il rischio e le privazioni piuttosto che la schiavitù.
È questa una prospettiva storiografica assunta in tempi recenti da saggi come L’arte di non essere governati. Una storia anarchica degli altipiani del sud-est asiatico di James C. Scott (Torino: Einaudi, 2020), che esplora in questa chiave le origini di popoli come i Karen o gli Hmong del sud-est asiatico. Ma se adottiamo la prospettiva di Scott troviamo moltissimi riscontri di questo tipo di processo nella storia umana.
Il libro dell’Esodo della Bibbia ne è l’esempio più famoso. Ma ci sono anche le diverse versioni della leggenda curda sull’origine di quel popolo, che hanno tutte in comune la scelta della libertà contro la tirannia, operata lasciando la pianura e salendo sulle montagne. La stessa scelta che oggi i partigiani e le partigiane del PKK in forma storicamente nuova rinnovano.
Naturalmente non sempre questi antichi atti di rivolta hanno dato origine ad identità di lunga durata come quelle degli ebrei o dei curdi. Ci furono comunità ribelli come quelle che si raccolsero intorno a Spartaco, a Fra Dolcino e a Thomas Muntzer che vissero una breve e intensa stagione finita nel sangue. Altre riuscirono a sopravvivere alla repressione per decenni o secoli, prima di essere spazzate via o costrette alla sottomissione. È il caso dei Bagauidi, i contadini divenuti guerriglieri nel tramonto dell’impero romano, degli Hussiti nella Boemia a cavallo tra Medio evo ed età moderna, degli schiavi fuggiaschi che diedero vita a Palmares in Brasile e dei Seminole (nati dall’ibridazione tra nativi americani, africani ed europei) nelle paludi della Florida. Altre comunità nate dalla ricerca della libertà divennero invece il braccio armato di sistemi gerarchici e oppressivi. È il caso dei Cosacchi, sorti dall’incontro tra servi della gleba fuggiaschi e popolazioni nomadi delle steppe, avanguardia della rivolta popolare con Stenka Razin ma trasformatisi nei secoli successivi in detentori di privilegi, persecutori di minoranze e massacratori di operai e contadini.
In ogni caso vediamo come la dialettica tra spinte verso l’orizzontalità, la libertà, l’eguaglianza e spinte a gerarchizzazione, autoritarismo e diseguaglianza continuino a dispiegarsi nel tempo con alterne vicende e su vari piani, dando vita a imperi, religioni, ribellioni, popoli e comunità.
L’affermarsi del capitalismo e dello stato nazione sono senza dubbio un passaggio centrale che cambia i termini e lo svolgimento del processo dialettico. Il loro sviluppo si accompagna perché entrambi perseguono uniformità dei processi, che siano produttivi, culturali e decisionali; entrambi sfociano nella pretesa di creare una “società monolitica” o nella quale la diversità è assorbita da processi di standardizzazione; entrambi cercano di cancellare la comunità come attore dei processi storici. In questo senso si può ritenere, come fa Ocalan, che il totalitarismo non sia un loro incidente di percorso ma la loro essenza, che emerge in particolari momenti di crisi o quando è necessario accelerare il processo di accumulazione delle risorse.
Ma sotto la pressione del capitalismo e dello stato nazione le comunità sono state capaci di ricostruirsi in forme storicamente nuove.
Ad esempio la risposta popolare alla costruzione dello stato italiano come stato-nazione centralista e alla “distruzione delle basi materiali del mondo contadino” (per usare l’espressione usata da Emilio Sereni nel suo Il capitalismo nelle campagne 1860-1900) è stata la costruzione delle cooperative cattoliche o socialiste, delle leghe bracciantili e delle Case del popolo. La narrazione dal punto di vista del potere, o finalizzata alla “conquista del potere”, tende a porre l’accento sui leader, sulle organizzazioni politiche e sindacali, sulle riflessioni teoriche. Tutte cose importanti, ma dovremmo forse porre attenzione anche alla quotidianità della vita e alla capacità delle soggettività oppresse di creare comunità resistenti prima delle teorie, dei leader e delle organizzazioni.
Tutto comincia sempre da un qualche gruppo di sbandati a cui semplicemente un giorno hanno tolto un posto nel mondo o che un posto in un mondo a capo chino non lo volevano. Lo aveva capito un cattolico moderato come Riccardo Bacchelli, che ne Il Mulino del Po racconta l’inizio della lotta di classe nel ferrarese di fine Ottocento ad opera degli stamplinà, una tribù di contadini rimasti senza terra che decide di stabilirsi su una spiaggetta del Pò e di costruirci sopra le proprie palafitte con materiale rubato al genio civile, integrare il magro salario da braccianti cacciando e pescando di frodo, per poi diventare la base della prima forma di organizzazione proletaria.
Perché prima della classe, del sindacato, del movimento, del partito, ci sono sempre le tribù, le bande. Quando esse trovano modelli organizzativi e ideali possono diventare comunità e poi confederazione di più comunità, sino a partorire un progetto complessivo volto alla rivoluzione mondiale.
L’Unione sovietica si chiamava così perché in principio erano i Soviet, i liberi consigli popolari. Non furono teorizzati da Lenin o da altri, ma praticati da un’infinità di persone comuni il cui orizzonte mentale era segnato dal ricordo della tradizionale comunità di villaggio delle campagne russe e a cui le necessità materiali imponevano di adeguare quel modello alla necessità della vita nella modernità capitalistica e al protagonismo di soggetti quali i giovani e le donne. E fu proprio quando la voce delle tante persone comuni venne silenziata da un processo di verticalizzazione autoritaria, quando il “fare cosa” (il socialismo) divenne più importante del “fare come” (il Soviet) che iniziò la degenerazione del processo rivoluzionario.
Il totalitarismo fascista sorse invece in Italia dalla reazione delle classi possidenti della val padana alla concreta esistenza delle leghe bracciantili, alle lotte concrete delle comunità proletarie capaci di forme di autorganizzazione efficaci e capillari. I figli degli stamplinà facevano paura perché avevano costruito una contro-società confederale fatta di cooperative, sindacati, case del popolo e amministrazioni comunali che rischiava di rimpiazzare la società borghese o almeno di costringerla a profondi compromessi.
E l’espressione politica più limpida di queste comunità confederate, la loro voce nelle istituzioni rappresentative, di fatto il loro ambasciatore presso lo stato borghese, era Giacomo Matteotti, un uomo passato alla storia come “riformista”. Ma per lui “riformismo” significava non la graduale sussunzione del proletariato all’interno dello stato-nazione, ma piuttosto la graduale affermazione dell’organizzazione confederale delle classi lavoratrici. Senza scorciatoie, sempre inevitabilmente dittatoriali, ma anche senza cedimenti, il suo articolo sulla necessità di insorgere contro la grande guerra del febbraio 1915 non lascia dubbi su questo. Ma amano farci vedere Matteotti da solo, Matteotti senza la sua gente, senza le guardie rosse armate di nodosi bastoni che lo scortavano nei comizi, senza i dibattiti infuocati nelle assemblee delle leghe bracciantili, senza la sua rivendicazione delle forme di lotta sindacale più “ruvida” quali il boicottaggio, fatta in parlamento e accompagnata alla profezia che la giustizia popolare avrebbe un giorno colpito i proprietari terrieri complici dello squadrismo. Questo è il classico esempio in cui si estrapola il singolo dalle comunità che ne hanno costruito la figura fino a renderla irriconoscibile, incomprensibile e in definitiva falsa.
Proprio la necessità di schiacciare le comunità proletarie di cui Matteotti era espressione spinse i fascisti a sperimentare, sin dal 1921, le prime forme di totalitarismo. La necessità di toglierlo di mezzo dopo che era rimasto la loro unica voce trasformò il governo fascista in totalitarismo esplicito e completo. Ma proprio questa scelta dà la misura della fragilità dello stato-nazione in Italia, per sopravvivere allo scossone della grande guerra ha dovuto inventare il totalitarismo, tale era l’altezza della sfida posta dalle tante Italie comunitarie.
E vent’anni di totalitarismo portarono lo stato italiano all’auto-dissoluzione dell’8 settembre 1943, perché una società senza comunità non può stare in piedi, diventa «aggregato che le circostanze hanno riunito e le circostanze disperderanno», per dirla con Mazzini (ne I doveri dell’uomo).
E allora, dopo lo sfascio totale non solo di un apparato statale ma di una società, per ricostruire bisognò ripartire dalle bande, dalla fuga e alla lotta per sottrarsi all’oppressione e allo sterminio. Sono state le bande, sulle montagne o nei quartieri, a salvare i partiti del CLN da una realtà che non sapevano come leggere e affrontare. E naturalmente sono stati poi i partiti (soprattutto il PCI) a dare a quelle bande l’organizzazione per diventare esercito di popolo. A questa dialettica tra l’egualitarismo della banda e la gerarchia dell’organizzazione di partito, più che a quella tra i partiti dentro i CLN, credo che bisogna guardare per cogliere il processo che ha fatto venir fuori la Resistenza, ovvero la cosa più utile e più radicale che si sia fatta in questa disgraziata geografia chiamata Italia.
Leggere un libro come Comunisti e partigiani di Manlio Callegari, sulla resistenza nella Sesta Zona ligure ci restituisce tutta la complessità e la vitalità di quello che era un movimento, perché l’apporto delle organizzazioni di partito è stato sì decisivo ma si è dato sul terreno del movimento reale, non delle teorie o delle decisioni a tavolino. Tant’è che nell’estate del 1944 la dirigenza del PCI di Genova lamentava che i propri quadri mandati in montagna si sentivano ormai «prima partigiani e poi comunisti». E prima di tutto partigiano lo era Bisagno, un giovane comandante garibaldino, cattolico ed ex-ufficiale dell’esercito, che però finì per incarnare lo spirito della banda, la spinta all’orizzontalità all’interno del movimento partigiano. Un’altra figura che è stata separata nel racconto dai suoi compagni e compagne di lotta, contrapposta ad essi e ad esse e così falsificata.
Questa attenzione alla storia delle comunità resistenti ci rivela aspetti che non furono per nulla marginali, perché condizionarono in maniera positiva l’elaborazione dei partiti. Ne vennero fuori la «Democrazia progressiva» del comunista Curiel (che fu per decenni lo slogan del PCI, seppur non realmente compreso da chi lo ripeteva) e l’idea (purtroppo sfumata) di inserire nella Costituzione il diritto/dovere alla resistenza dal basso in caso di violazione dei valori fondanti della stessa da parte dello stato, teorizzata dal cattolico Dossetti.
Non si tratta quindi di fare la storia della marginalità, ma di mostrare come le lotte e le resistenze di quelle comunità che si è cercato di mettere ai margini e annientare abbiano condizionato in maniera decisiva la storia nel suo complesso.
E oggi a cosa ci serve saperlo? ci serve per ricordarci che la resistenza è sempre fatta dalle comunità, dalle comunità resistenti, che si dotano di un’organizzazione. E ci serve per ricordarci che se vogliamo proseguire la rivoluzione interrotta nel 1945 dobbiamo prima sapere che non era una rivoluzione rigidamente proletaria, rigidamente socialista, ma piuttosto una rivoluzione confederalista, volta alla costruzione di una democrazia radicale.
Oggi il capitalismo e lo stato nazione perseguono ancora l’annientamento delle comunità e soprattutto delle comunità resistenti. Lo vediamo ad esempio nel continuo ricorso allo strumento dell’“associazione a delinquere” per reprimere il dissenso politico e sociale. E noi invece la nostra associazione la dobbiamo allargare a dismisura, la dobbiamo portare ben oltre il recinto di ciò che di solito definiamo come “estrema sinistra”, “movimento”, ecc. Dobbiamo essere capaci di far sì che le forme di organizzazione siano in grado di intrecciarsi tra loro, di intrecciare in un grande arazzo tutti i fili di ogni comunità che intenda resistere, confederarsi e costruire un’Italia, un’Europa e un mondo diversi da quelli esistenti.