Continua il genocidio a Gaza: Il ruolo del commercio delle armi

Israele ha ripreso i bombardamenti contro Gaza, uccidendo più di 400 persone. Questi attacchi mettono definitivamente fine alla tregua, che però era già stata ripetutamente scossa dallo stato sionista in molti modi, dagli attacchi contro la Cisgiordania al taglio di aiuti umanitari ed elettricità a Gaza. Netanyahu ha addotto come pretesto la liberazione degli ultimi ostaggi, ma la ripresa dei bombardamenti è stata apertamente condannata proprio dalle famiglie di questi ultimi. Emerge chiaramente l’intenzione del governo israeliano di continuare nella sua politica di pulizia etnica, esplicitamente appoggiata dall’amministrazione Trump-Musk. Intanto si moltiplicano gli appelli a tornare in piazza contro il genocidio. Nel corso dell’ultimo anno e mezzo, Israele ha devastato la striscia di Gaza in modo indescrivibile, uccidendo almeno 48.000 persone. In questo estratto dal libro Monstrous Anger of the Guns, Ahmed Alnaouq scrive della sua esperienza familiare a Gaza e della vita sotto la continua e brutale campagna d’Israele per occupare la Palestina e commettere un genocidio contro il popolo palestinese. Le armi, fornite a Israele da diversi paesi del mondo, fanno parte della vita quotidiana a Gaza. Questi paesi e le loro aziende produttrici di armamenti sono complici dell’assalto contro Gaza, un orrore che ha portato all’annichilimento della famiglia di Ahmed. La versione originale in inglese di questo estratto è stata pubblicata dal blog di Pluto Press.

Non più innocenti

Quattro anni fa, durante uno dei miei ultimi giorni a Gaza, mi è stato chiesto in un laboratorio di scrittura di descrivere Gaza in poche parole. Ho risposto: “Gaza è un luogo dove i bambini non sono più innocenti”. Capisco che questa descrizione potrebbe risultare sorprendente o persino preoccupante per degli stranieri. Eppure per me riflette una dura realtà. Qualche mese dopo, sono arrivato nel Regno Unito per un Master in giornalismo, ma l’immagine dei bambini di Gaza è ancora oggi nella mia testa. Qualche giorno fa, mentre camminavo verso il mio ufficio a Londra, ho visto dei bimbi che giocavano con le loro biciclette davanti a casa. Incapace di fermare i miei pensieri, mi sono ritrovato a comparare la loro situazione con quella dei piccoli della loro età a Gaza. Questi giovani londinesi si stavano godendo il tempo dei giochi com’è giusto che sia, i nostri figli a Gaza stanno morendo di fame. Mentre i bambini di Londra conoscono bene i nomi di una moltitudine di videogiochi e parchi divertimenti, i nostri figli a Gaza sono abituati a riconoscere i diversi tipi di armi usate contro di loro, per terrorizzare le loro famiglie. Sin dai miei primi ricordi, i miei amici e io avevamo una conoscenza intima dei missili, degli elicotteri e delle pistole, erano parte della nostra realtà quotidiana. I bambini di Gaza sanno distinguere i diversi tipi di velivoli militari semplicemente ascoltando il suono che riempie i cieli.

Forse, quando ho detto che Gaza è un luogo dove i bambini non sono più innocenti, stavo riflettendo sulla mia esperienza di crescere a Gaza, con tutte le difficoltà del caso. O forse stavo pensando a come i miei nipoti se la cavavano nella vita, o magari ricordando le storie che i miei genitori raccontavano sulla propria infanzia. Prendiamo mio padre, nato nel 1948 come rifugiato a Dair al-Balah. Durante la sua nascita, la tragedia bussò alla porta della nostra famiglia. Suo nonno e suo fratello furono uccisi da una bomba israeliana che piovve dal cielo mentre erano al mercato, portandosi via 150 persone della nostra città. In quel giorno segnato dal destino, mia nonna perse suo padre e suo zio ma diede anche alla luce mio padre. Anche se questo massacro è stato perlopiù dimenticato dalla Storia, mia zia non smetteva mai di parlare della sofferenza che ha portato alla nostra famiglia. Lei stessa era solo una bimba quando fu costretta a fuggire a Gaza dalla sua casa di Yaffa nel 1948, assieme a mio nonno. Nonostante la gioia di accogliere un nuovo nato, mia zia – che aveva pochi anni all’epoca – ricorda il profondo dolore provato da mia nonna per la perdita della sua famiglia.

Crescendo a Gaza, ero immerso nei racconti del mio bisnonno, Ali, storie di coraggio e tenacia. Mi dicevano che era l’uomo più forte della nostra città e che aveva sfidato l’esercito britannico durante il Mandato, cosa per la quale fu condannato a morte. Scappò miracolosamente dal carcere e si rifugiò in Libano, dove si sposò con una donna libanese e visse per molti anni, prima di tornare in Palestina.

La Guerra dei Sei Giorni

La Guerra dei Sei Giorni scoppiò nel 1967, quando mio padre aveva 19 anni. Non poté studiare all’università a causa del conflitto e della responsabilità di contribuire a mantenere la famiglia dopo la morte di suo padre. All’epoca, la mia futura madre aveva solo nove anni. Racconta spesso i suoi ricordi del periodo successivo alla Nakba. I miei genitori descrivevano i nuovi orrori a cui questa guerra li aveva esposti, in particolare l’arrivo dei carri armati come macchine di sterminio. Israele non produceva i propri carri armati, poteva però contare sulle importazioni da Francia, Germania Ovest e Stati Uniti. Dopo la guerra, Israele occupò la striscia di Gaza, la penisola del Sinai, le alture del Golan e il Libano meridionale. Per noi a Gaza, quegli anni segnarono l’inizio di un incubo ancora in essere, l’occupazione militare.

Prima dell’inizio della guerra, mio nonno Salem aveva costruito un rifugio sotterraneo a casa sua, anticipando il conflitto. Divenne l’unico rifugio del quartiere. Con l’intensificazione della guerra, mio nonno fece entrare la famiglia nel rifugio, e presto anche i vicini vi cercarono riparo. Mia zia Wesal, che ora ha 77 anni, ricorda i giorni colmi di paura passati nel rifugio, da dove ascoltava i soldati israeliani che entravano a casa sua. Sbirciando da un buco nel muro, vide i soldati sparare indiscriminatamente sulla gente nelle strade, un vicino fu tragicamente fucilato nella sua stessa casa. Ancora oggi sottolinea il pericolo che attraversarono, se fossero stati scoperti probabilmente sarebbero stati uccisi.

Dopo la Guerra dei Sei Giorni, Israele occupò l’intera striscia di Gaza. I miei genitori videro soldati israeliani aprire buchi nei muri delle scuole per sparare sugli studenti palestinesi, per sport. Mia zia ricorda di aver visto dei soldati festeggiare dopo aver vinto scommesse fatte sul ferire bambini palestinesi, mirando agli occhi o alle gambe. Una delle storie più raccapriccianti trasmessemi dalla mia famiglia è quella della pratica dei soldati israeliani di scommettere sul genere dei feti delle donne palestinesi incinte, per poi aprire i loro ventri per scoprirlo. La brutalità contro i civili fu frequente durante la guerra del 1967 e lasciò cicatrici durature nella memoria collettiva degli abitanti di Gaza.

Mia zia mi ha raccontato la storia struggente di un uomo ospitato nel loro rifugio di famiglia, la cui intera famiglia era stata uccisa dai soldati israeliani. Gli invasori non ebbero pietà, lasciarono strade cosparse di cadaveri. Un altro vicino soffrì un altro tipo di tortura; gli israeliani massacrarono i suoi otto figli davanti ai suoi occhi, lasciandolo a piangerli per il resto dei suoi giorni.

Dopo la guerra, mio padre mi raccontò di come l’esercito israeliano continuò a trovare nuovi modi di torturare i palestinesi, tra cui le detenzioni arbitrarie. Lui stesso fu incarcerato tre volte, ogni volta solo per qualche giorno. Quando gli chiedevamo perché lo avessero arrestato, rispondeva solo: “Perché gli era venuta voglia di farlo”.

Gaza sotto l’occupazione

La conquista israeliana di Gaza del 1967 compromise intenzionalmente l’economia locale, coltivando la dipendenza. Molti gazawi, compreso mio padre, non ebbero altra scelta che cercare lavoro in Israele o restare disoccupati. Anche se era uno degli studenti più promettenti della sua scuola, mio padre non continuò gli studi all’estero, decidendo di contribuire a mantenere la sua famiglia dopo la morte di suo padre. Aveva una memoria fotografica ed era fluente in tre lingue: arabo, inglese ed ebraico. Persino a 75 anni, ricordava le lezioni di quando era alle scuole elementari. Come innumerevoli altri palestinesi, si trovò costretto a lavorare come manovale in Israele a causa del soffocamento economico imposto dall’arsenale israeliano, che devastò l’economia di Gaza. Ricordo mio padre svegliarsi alle due del mattino per andare a lavorare in Israele in autobus, sopportando umiliazioni quotidiane dal padrone e dai soldati israeliani ai checkpoint.

I semi del risentimento e della resistenza furono piantati in uomini come mio padre, che affrontò maltrattamenti degradanti. I lavoratori palestinesi venivano spesso detenuti per ore, spogliati e perquisiti dai soldati israeliani anche solo per divertimento. Mia madre, sempre preoccupata per mio padre, spendeva le sue serate alla finestra, attendendo il suo ritorno.

Quando avevo cinque anni, mio padre mi raccontò una storia che non ho mai dimenticato. Il padrone israeliano aveva fatto un’affermazione profondamente sconcertante: “Dio creò solo gli israeliani come esseri umani, gli altri esseri erano animali creati per servirli. Ma i primi israeliani rimasero disgustati dagli animali, quindi chiesero a Dio di trasformali in esseri simili agli umani. È così che voialtri siete venuti al mondo”. Questo aneddoto esemplifica la disumanizzazione che molti palestinesi subiscono da alcuni israeliani. Nell’ottobre del 2023, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha imposto un “assedio totale” su Gaza, tagliando l’accesso a elettricità, cibo, acqua e carburanti, dichiarando: “Combattiamo contro animali umani e agiamo di conseguenza”.

Nel 1987, un’escalation di vessazioni da parte di alcune milizie israeliane contro dei lavoratori palestinesi in Israele culminarono nella morte di sei palestinesi, innescando l’esplosione della prima Intifada. L’esercito israeliano rispose duramente, con coprifuoco, arresti di massa e una violenta repressione, aggravando la sofferenza dei palestinesi. Le scuole furono chiuse, le aziende erano bloccate, i movimenti vennero strettamente limitati, cose che causarono difficoltà economiche e proteste sociali. Questo periodo di disobbedienza civile e di resistenza alterò profondamente le vite quotidiane dei palestinesi, dimostrando la loro tenacia di fronte all’oppressione.

La mia formazione

Sono nato nel 1994, lo stesso anno in cui l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) fu costituita come risultato degli accordi di Oslo con Israele. L’arrivo dell’ANP generò tra i gazawi la speranza che fosse giunta l’ora della libertà, della sovranità e della fine della sofferenza palestinese. Tuttavia, l’ottimismo durò poco. Gli accordi di Oslo prevedevano la creazione di uno stato palestinese entro il 1999 ma la realtà si rivelò essere ben diversa. La seconda Intifada scoppiò come risposta alle vessazioni israeliane e all’invasione della Moschea al-Aqsa da parte del Primo Ministro israeliano.

La seconda Intifada esacerbò le già estreme condizioni di vita dei palestinesi. Le restrizioni imposte da Israele si intensificarono, ostacolando in particolare la mobilità dei palestinesi per cercare lavoro e diffondendo così la disoccupazione. Molti palestinesi, tra cui mio padre, si misero a fare i tassisti a causa della mancanza di lavoro. L’insurrezione, causata dall’oppressione israeliana, aumentò le tensioni, le violenze e le perdite di vite umane. I palestinesi si scontravano quotidianamente con le truppe israeliane, i checkpoint, i raid nei quartieri, che lasciarono profonde cicatrici sia sugli individui che sulle comunità.

Quando scoppiò la seconda Intifada, avevo solo sei anni e avevo appena cominciato il mio viaggio attraverso il sistema scolastico. Camminando per andare a scuola, vedevo proteste e funerali. L’immagine di un carro armato israeliano che invade Dair al-Balah, la mia città, resta ancora vivida nella mia memoria. La seconda Intifada mi rese familiare con i suoni sinistri delle macchine di sterminio. I carri armati, i primi veicoli che ho visto vagare sulle nostre strade, infliggevano morte e distruzione.

Un giorno, durante il tragitto per visitare dei parenti a Gaza City, ci imbattemmo in un carro armato che bloccava la strada, circondato da soldati. Confuso, chiesi a mio padre come mai fosse lì. “Per impedire alla gente di passare” rispose, aggiungendo “Solo per il bello di farlo”. Non riuscivo a capire perché i carri armati invadevano le nostre strade, portandosi via delle vite ogni uno o due giorni. Tuttavia, il discorso di un soldato israeliano per Breaking the Silence mi diede degli indizi. Rivelava una strategia di intrusione e intimidazione per garantire che i palestinesi ricordassero e temessero la presenza israeliana. Quando ripenso alla seconda Intifada, ricordo carri armati, M16, elicotteri Apache, martiri, pietre, ferite e, soprattutto, la paura.

Assedio e guerra

Nel 2007, iniziò l’assedio israeliano ai danni di Gaza, che ci privò di risorse essenziali come cibo, acqua, gas ed elettricità. Ricordo che, quando avevo dodici anni, mio padre raccoglieva ogni giorno legna da ardere per la cucina, perché le frontiere erano sigillate. L’assedio ci fece sprofondare in un’esistenza primitiva. Le fabbriche chiusero, il lavoro nei campi si bloccò e centinaia di pazienti degli ospedali morivano ogni anno a causa della crisi sanitaria generata dal blocco delle importazioni.

Durante l’assalto israeliano contro Gaza, cominciato il 27 dicembre 2008, le esplosioni fecero tremare la nostra scuola mentre aspettavo nervosamente di fare un esame. Il caos all’esterno evocava pensieri apocalittici man mano che i morti e la distruzione aumentavano. Restarono uccisi 1.400 palestinesi, oltre a 5.000 feriti e 46.000 case danneggiate o distrutte. In questa guerra incontrammo per la prima volta armamenti che non conoscevamo, compreso il temibile F-16.

L’F-16, emblema della potenza militare moderna, infonde una profonda paura nei civili di Gaza. È un jet da combattimento fornito a Israele dagli Stati Uniti. All’inizio veniva fatto dalla compagnia produttrice di armi General Dynamics, mentre ora lo produce Lockheed Martin. La sua presenza in cielo è monito di bombardamenti devastanti e simbolo della continua violenza e instabilità che hanno afflitto Gaza per decenni. Il ruggito del suo motore è tuttora un costante memento dell’orrore e della vulnerabilità della vita a Gaza. L’F-16 non è solo un macchinario, ma anche l’incarnazione del persistente trauma del popolo di Gaza.

Israele ha usato anche diversi altri tipi di armi contro Gaza. Durante la guerra del 2008-9, il fosforo bianco, un’arma proibita dalle convenzioni internazionali, fu impiegato per la prima volta in modo intensivo contro la popolazione civile di Gaza. La casa di mio zio fu colpita diverse volte col fosforo bianco. Fortunatamente non era a casa, altrimenti lui e la sua famiglia sarebbero stati uccisi. Tuttavia, è stato ben documentato che Israele bombardò una scuola dell’Onu col fosforo bianco, uccidendo o ferendo più di dodici palestinesi che vi cercavano rifugio. Inoltre, durante questa guerra, Israele introdusse l’ampio uso dei droni a Gaza. Questi droni sono diventati un altro strumento per il controllo dei palestinesi, non solo per la sorveglianza ma anche come macchine di sterminio per il bombardamento dei civili. Persino dopo la fine della guerra, questi droni hanno continuato a ronzare sopra le nostre teste giorno e notte.

Nel 2014, Israele lanciò un’altra guerra contro Gaza, più dura e brutale della precedente, uccidendo più di 2300 persone. Questa volta, tra le vittime c’era anche mio fratello. Fu colpito da un aereo F-16 e fatto a pezzi.

Nel 2018, i palestinesi di Gaza, stanchi dell’assedio imposto su di loro da tredici anni, chiesero la fine dell’accerchiamento e il diritto al ritorno. Decisero di marciare pacificamente fino al muro che separa Gaza dal resto della Palestina storica. Decine di migliaia di palestinesi protestarono ogni settimana per due anni. Tuttavia, l’esercito israeliano rispose col piombo e i gas lacrimogeni. Io ero un giornalista sul campo e ho perso il conto di quante volte sono stato preso di mira, ma sono sopravvissuto. Sfortunatamente, lo stesso non si può dire per alcuni dei miei colleghi. Israele ha ucciso due giornalisti durante la Marcia del Ritorno, assieme a molti paramedici e più di 300 manifestanti palestinesi. Israele usò diversi tipi di armi contro i manifestanti, tra cui proiettili a farfalla che penetrano nel corpo per poi esplodere, amputando così più di 300 persone.

Nel 2021, Israele lanciò un’altra guerra contro Gaza, facendo centinaia di vittime. Questa volta abbiamo visto una nuova categoria di uccisioni, i massacri. Per la prima volta, Israele bombardò interi edifici abitati. Anche la casa della mia collega Zainab Alqolaq fu bombardata, cosa che portò alla morte di 22 membri della sua famiglia. Rimase ferita e sepolta sottoterra per sei ore. Ascoltando la sua storia, non potevo immaginare il suo dolore e la sua sofferenza, né come avesse fatto a sopravvivere. Fino allo scoppio della guerra seguente.

Il prezzo pagato dalla mia famiglia

Nell’ottobre del 2023, Hamas ha effettuato un’operazione militare contro Israele, uccidendo circa 1200 tra israeliani e stranieri. Israele ha risposto con un genocidio. Un’enorme guerra contro Gaza, senza precedenti, che supera persino la Nakba del 1948.

Il 22 ottobre 2023, un jet da combattimento israeliano ha sganciato una bomba sulla mia casa a Dair al-Balah, Gaza, uccidendo 21 membri della mia famiglia – mio padre, due fratelli, tre sorelle, un cugino e quattordici nipoti di età uguale o inferiore ai tredici anni. Questi sono i loro nomi.

Mio padre, Nasri Alnaouq, di 75 anni. Mia sorella Walaa, di 36 anni, e i suoi bimbi: Raghd, di 13 anni; Eslam, di 12 anni; Sara, di 9 anni, e Abdullah, di 6 anni. Mia sorella Alaa, di 35 anni, e i suoi figli: Eslam, di 13 anni; Dima, di 12 anni; Tala, di 8 anni; Noor, di 4 anni; e Nasmah, di 2 anni. Mia sorella Aya, di 33 anni, e i suoi figli: Malak, di 12 anni; Mohammed, di 9 anni; e Tamim, di 6 anni. Mio fratello Muhammad, di 35 anni, e i suoi figli: Bakr, di 11 anni, e Basema, di 9 anni. E Mahmoud, di 25 anni, un attivista per i diritti umani che era appena stato selezionato per un master in Australia. Era il mio fratello minore.

Inizialmente, tre membri della mia famiglia – Shimaa, Omar e Malak – sopravvissero al bombardamento, seppur feriti. Purtroppo, dopo alcuni giorni in ospedale, Malak morì a causa delle gravi scottature riportate. Restò uccisa come i suoi fratelli e sua madre. Suo padre, Yousef, è il solo sopravvissuto del nucleo familiare.

Quando Malak morì, suo padre Yousef mi mandò un messaggio su WhatsApp: “Malak è diventata una martire”. Gli feci le mie condoglianze. Lui rispose: “Sono un corpo senz’anima. Sono morto mille volte ogni giorno guardando mia figlia, la mia primogenita, morire”. Poi condivise alcuni ultimi ricordi di Malak, una conclusione tragica ma in qualche modo confortante per la sua storia.

Gli altri due sopravvissuti al bombardamento sono Shimaa, mia cognata, di 33 anni, e mio nipote Omar, di 3 anni. Entrambi rimasero feriti ma si ripresero dopo alcuni giorni. Quando Shimaa recuperò la capacità di proferir parola, raccontò l’esperienza terrificante dell’impatto della bomba. Coprì Omar con una coperta per proteggerlo dal fumo mentre erano intrappolati sotto le rovine. Alla fine furono salvati da un intervento miracoloso dei vicini.

“Muhammad non era solo mio marito” ha detto Shimaa. “Era mio padre, mia madre, le mie sorelle e i miei fratelli. Era il mio universo e nulla al mondo potrà sostituirlo. Nulla potrà compensare la mia perdita. I miei figli erano tutti speciali. Avevamo sogni per loro, speravamo di costruire un futuro luminoso e colmo di significato. Poi, in un momento, tutto il mio mondo è collassato. Con una bomba, ho perso mio marito, i miei bimbi, la mia casa e la mia famiglia. Sono Shimaa, sono distrutta.”

La devastazione di Shimaa è la mia, e quella delle mie sorelle che non erano in casa in quel momento. Mia sorella maggiore, Doaa, era stata lì con i suoi quattro figli solo il giorno prima, ma fortunatamente se n’erano andati per mancanza di spazio. Quando chiamai Doaa in seguito, scoppiò a piangere, ripercorrendo l’elenco dei nomi dei nostri cari perduti. Incapace di contenere il mio dolore, la pregai di smettere.

In quel momento, provai empatia per Zainab Alqolaq e capii la profondità del suo dolore, un sentimento al di là delle parole. Prego che una tragedia così non capiti a nessun altro al mondo. Nel momento in cui scrivo, nel marzo del 2024, il totale delle vittime dell’ultima aggressione israeliana contro la Palestina è di oltre 30.000 persone. Voglio ricordare al mondo che ognuna di queste morti rappresenta un genitore, un figlio, una sorella, un fratello, una persona amata. Non siamo numeri.

Condividi questo contenuto...

Lascia un commento