Crisi multipolare e spazi politici del capitale: la guerra contemporanea e come contrastarla

Lo scorso 23 maggio si è tenuto a Padova, nella facoltà di Scienze Politiche, il seminario Università e regime di guerra. Movimenti, nuovo internazionalismo, prospettive politiche, organizzato da Collettivo Spina, Spazio Striae Collettivo Lisc. Il seminario, al quale sono intervenuti Sandro Chignola (docente di filosofia politica dell’Università di Padova) e Anna Guerini (ricercatrice in storia delle dottrine politiche dell’Università di Bologna), ha costituito anche un momento preparatorio collettivo al convegno “Rompere i blocchi. Regime di guerra / guerre culturali / economia di guerra”, organizzato da Euronomade a Roma dal 24 al 26 maggio. Di seguito la trascrizione dell’intervento di Sandro Chignola.

Questo contributo non deve essere inteso come una posizione interpretativa sulla situazione presente, ma come l’apertura di un cantiere di discussione comune. Per me vale l’idea che la filosofia non è fatta tanto per comprendere quanto per prendere posizione; quindi cercherò di fornire argomenti di discussione affinché si possa prendere posizione collettivamente all’interno di una situazione radicalmente nuova. 

Per introdurre il tema, pongo come presupposto che l’inchiesta filosofico-politica non può che essere pensata in termini di genealogia, cioè cercare di capire come si stanno muovendo le cose affinché, all’interno di una realtà dinamica e conflittuale, si possa essere all’altezza di ciò che sta succedendo, proprio per riuscire a prendere posizione. 

Siamo entrati in quello che si chiama ‘regime di guerra’, che implica il non poter più pensare al concetto di guerra come un dato o un concetto permanente. Proprio del genealogista è fare capire come parole, concetti e realtà che siamo abituati a identificare, si producano e si riproducano attraverso radicali processi di differenziazione. 

La guerra, nel sistema di relazioni internazionali che si è aperto con la pace di Vestfalia nel 1648, era uno strumento politico regolare; per il principio di Clausewitz la guerra come prosecuzione della politica. Questo ha portato ad addomesticare la conflittualità endemica dei regimi precedenti al ‘600 e fatto sì che la guerra fosse usata come strumento politico per conquistare condizioni più vantaggiose di pace all’interno di un sistema di regolazione complessivo delle relazioni internazionali. 

Completamente differenti sono le guerre che segnano transizioni egemoniche. Una vasta letteratura ha ritenuto che il ritorno della guerra, dopo la grande illusione della “fine della storia” con il crollo del muro di Berlino, alludesse a una nuova transizione egemonica. Per tutto l’Ottocento è stata egemonica la potenza imperiale inglese, poi è sorta la grande potenza degli Stati Uniti che ora, dal punto di vista egemonico globale, è una potenza in crisi: negli ultimi decenni hanno fatto almeno tre guerre, in Vietnam, in Afghanistan e in Iraq, perdendole tutte. 

Quindi, questo nuovo regime di guerra non può essere inteso né come una guerra classica, all’interno di un sistema di relazioni internazionali in qualche modo stabilizzato, né come una crisi di egemonia, perché nella situazione che stiamo vivendo non c’è una potenza egemone emergente. Siamo in una crisi multipolare. 

In questo contesto abbiamo in Europa un occhio privilegiato, perché tendiamo a guardare alle guerre come se in questi ultimi tempi non fossero state endemiche. C’è, però, una grande differenza: mentre circa un ventennio fa, per esempio nelle guerre condotte dopo l’attacco alle Torri Gemelle, queste avvenivano “alla periferia dell’impero”, ora, in questa nuova situazione di caos ecosistemico, la guerra viene riportata al centro, come per la Russia e l’Ucraina, la Palestina, e non solo.

Ci sono tensioni contemporaneamente geoeconomiche e geopolitiche in moltissimi luoghi del globo che coinvolgono lo sdoganamento non soltanto di potenze nucleari, ma anche di discorsi, di una ‘discorsività zombi’, per la quale si minaccia tranquillamente l’uso di armi nucleari tattiche, come se anche l’ultimo punto di equilibrio, quello del terrore nucleare tra le grandi potenze, fosse ormai un equilibrio assolutamente instabile. 

Questa situazione radicalmente nuova normalizza lo stato di crisi. Crisi, nel lessico politico ha un’etimologia precisa, viene da greco krino (κρίνω), che in greco significa scegliere, decidere. La crisi è sempre stata pensata, nel lessico giuridico ma anche nel lessico medico, come il punto di svolta nel quale si decide, prevedeva sempre la possibilità di immaginare che qualcosa o andava bene o andava male, ma determinando un punto di svolta transitorio.

Anche questo è ormai modificato, non soltanto per la normalità della crisi economica che viene continuamente evocata, ma perché non si intravedono transizioni egemoniche, non si intravedono soluzioni negoziate o negoziabili: la crisi alimenta la crisi all’interno di un algoritmo di normalizzazione che fa dell’instabilità contemporanea qualcosa di estremamente pericoloso e nuovo. 

Vediamo tante guerre, che coinvolgono potenze nucleari, tanti processi che possiamo definire di smantellamento e riconfigurazione – non chiaramente orientata – degli spazi politici del capitale che viene accumulandosi su una traiettoria di medio periodo. 

La crisi finanziaria nel 2008 già aveva cominciato a produrre tentativi di stabilizzazione autoritaria del neoliberalismo. La crisi del Covid ha prodotto un’interruzione delle catene logistiche e delle grandi supply chain della produzione mondiale.

Si è incominciato a vedere come le grandi reti logistiche sulle quali si produce l’accumulazione di capitale contemporaneo fossero in qualche modo inceppate e paralizzate, si cominciava a vedere come i progetti Silk Belt cinese e il progetto dell’IMEC avrebbero scatenato tensioni infraimperiali. Ad esempio, l’IMEC è un corridoio che coinvolge Israele, Palestina, Giordania e Arabia, che ha prodotto gli accordi di Abramo, un tentativo di pacificazione per far passare una catena logistica, alternativa a quella cinese, dall’estremo Oriente all’Europa. 

Parlare di spazi del capitale significa parlare del problema della riconfigurazione conflittuale e autoritaria, in una competizione multipolare, all’interno della quale non si intravede chi possa decidere delle grandi catene logistiche globali e dunque degli assetti contemporaneamente geopolitici e geoeconomici di una nuova epoca del mondo. Palestina e Medio Oriente significa appunto IMEC e le catene logistiche attorno al Mar Rosso; Russia e Ucraina significa anche una guerra per la ridistribuzione dell’energia e del grano. Ma situazioni di tensioni di questo tipo si stanno dando anche in Estremo Oriente, dove si stanno riconfigurando alleanze militari come quella tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti per il controllo del Pacifico. 

Si parla di regime di guerra non soltanto perché c’è la guerra, ma perché in questa situazione di ridefinizione contraddittoria di un conflitto multipolare, dentro il quale non si intravedono transizioni di egemonia, il grande progetto che sta passando è un progetto di governance della crisi che si alimenta di una nuova pericolosissima alleanza tra autoritarismo e militarismo. Infatti, uno degli effetti – che non è un side-effect ma uno dei centri di questa ridefinizione degli spazi di accumulazione del capitale – prevede anche una militarizzazione complessiva del rapporto con la società. 

Parlando di università, ci sono applicazioni del rapporto tra la ricerca universitaria sull’intelligenza artificiale e il suo sfruttamento a scopo militare che sono clamorosi. Per esempio, Israele fa selezionare gli obiettivi dall’intelligenza artificiale uccidendo indipendentemente dal fatto che l’obiettivo fosse uno, l’intera famiglia o l’intero quartiere.  Questi rapporti andrebbero inchiestati, anche per capire come sta cambiando il ruolo dell’università. 

Regime di guerra, dal punto di vista economico, significa anche spostare i finanziamenti che dopo il Covid avevano previsto un piano di resilienza che avrebbe dovuto garantire finanziamenti per la sanità, la scuola, l’università, e una sua immediata ridefinizione nella direzione dell’aumento della spesa militare. 

Con regimi di guerra intendo la progressiva militarizzazione che si riscontra ogni giorno, non soltanto nella ‘discorsività zombi’ che parla di patria e di servizio militare obbligatorio, ma all’interno di processi di securizzazione che avevano già sdoganato il lessico della guerra nei confronti dei migranti e nella destrutturazione dei diritti delle donne. Non credo sia un caso che la risorgenza di fantasmi maschilisti e militaristi comporti in molti paesi l’attacco al diritto d’aborto o la militarizzazione delle università: è un progetto complessivo, multilivello, come tutti i progetti di governance. 

Si parla di governance per indicare la crisi degli assetti statuali e la proliferazione di dispositivi di amministrazione e di governo che variano su molti livelli e campi di intervento paralleli. Questo progetto di governance, che in questa fase si stringe attorno ai regimi di guerra, coinvolge interessi capitalistici, militari, della finanza globale che non vedono e non possono vedere una transizione egemonica per il semplice fatto che sono interessi non più allocabili a un soggetto, a uno stato o a una persona. 

Un altro aspetto dei regimi di guerra è la rievocazione degli spettri identitari, del ‘noi contro loro’: la riattivazione di uno schema amico-nemico che viene riattivato anche contro le donne, contro i migranti, che si alimenta di ‘discorsività zombi’.

Un effetto clamoroso del regime di guerra è stato il blocco identitario che ci ha impedito di prendere parola per i primi due anni della guerra in Ucraina, perché eravamo interpellati come se si dovesse essere filo-putiniani o filo-ucraini, quando invece è proprio questo dispositivo di blocco che va smantellato. 

Per fare questo, che cosa possiamo fare?

Sul piano dell’analisi, per quanto contraddittorio, si deve afferrare la novità del regime di guerra e il fatto che marca il presente che abbiamo sotto i nostri piedi; che questo, e non altro, diventa il problema della lotta di classe nel XXI secolo. Ebbene, se questo possiamo approfondirlo, discuterlo, se possiamo fare dei casi di studio sul modificarsi delle catene logistiche della distribuzione, sulla lotta di classe interna alle dimensioni logistiche, sui cambiamenti delle mappe della migrazione contemporanea; molto più difficile diventa, però, trovare le parole per prendere posizione in questa situazione. 

Dobbiamo prendere sul serio, come nostro compito, quello di forzare i blocchi identitari di chi ci obbliga a schierarci o di qui o di là con una discorsività di tipo militare, perché non vale più la logica ‘il nemico del mio nemico è un mio amico’. Ad esempio, leggo giornali dall’Argentina, paese di Non Una Di Meno, in cui si sostiene moltissimo Hamas, dimenticandosi che Hamas è finanziato dall’Iran, dove i diritti delle donne non sono particolarmente tutelati. 

Scardinare la logica dei blocchi significa prendere parola per un nuovo internazionalismo.

Un internazionalismo che deve essere nuovo perché l’internazionalismo proletario classico, perlomeno fino agli anni Ottanta, era sostenuto da relazioni tra gruppi sovversivi che intendevano farsi stato all’interno del loro paese, con l’idea di una presa di potere che, a mio avviso, va disattivata perché è un altro pezzo della ‘discorsività zombi’ che sta ricominciando a circolare. 

Se il nostro nemico non è più uno Stato e non è più sopranazionale, dobbiamo inventarci un internazionalismo altrettanto capace di essere indipendente dal riferimento alla nazione, alle lotte semplicemente locali e alla pretesa statualista. Un internazionalismo del quale ci sono esperimenti interessanti: Non Una Di Meno è nato in Argentina ma si è diffuso in maniera globale con parole d’ordine simili che venivano di tanto in tanto adattate alle circostanze; ci sono movimenti indios di lotta ecologista sulla Cordillera Andina che sono altrettanto trasversali fra i paesi dove le comunità indigene sono radicate.

Un internazionalismo dal basso, di movimento, capace di coniugare pratiche e di tradurre continuamente le istanze le une nelle altre. 

Il regime di guerra tocca tutti, si tratti di migranti, di donne, di precari, di universitari manganellati davanti alla propria università. Allora dobbiamo inventarci delle parole nuove, delle parole capaci di articolare questo internazionalismo dal basso e di produrre un comune conflittuale dentro la cui pratica diventino attive costantemente pratiche di traduzione. Non basta più la sola convergenza: forzare i blocchi identitari vuol dire inventarsi dispositivi di traduzione delle lotte degli studenti nelle lotte delle donne, delle lotte degli ecologisti nelle lotte dei migranti, delle lotte dei lavoratori della logistica in quelle degli universitari.

Anche il capitalismo è un meccanismo di traduzione, ma è un meccanismo di traduzione omolinguistica, sussume tutto alla logica e al linguaggio del valore. Noi dobbiamo inventare dispositivi capaci di traduzione eterolinguistica, cioè capaci di mantenere la differenza delle agende e contemporaneamente di inventarsi una neolingua della sovversione.

Immagine di copertina: foto di Lucrezia Granzetti (Vicenza 20 gennaio 2024, Manifestazione contro la Fiera dell’Oro).

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