Il capitalismo depreda il nostro tempo? Sembrerebbe quasi una teoria complottista, se non fosse il capitale stesso ad ammetterlo candidamente:
«Quando guardi uno spettacolo di Netflix e ne diventi dipendente, rimani sveglio fino a tarda notte. Alla fine siamo in competizione con il sonno ed è una grande quantità di tempo».
Volendo sviluppare le parole pronunciate nel 2017 da Reed Hastings, CEO di Netflix, potremmo affermare infatti che il vero, nuovo campo di conquista del capitalismo del XXI secolo sia il tempo.
Se ormai i metodi e le tecniche attraverso le quali il capitale sia in grado di estrarre valore dal nostro lavoro sono abbastanza note e oggetto di studio, è invece un campo di indagine relativamente nuovo (almeno per il discorso politico mainstream) quello che riguarda come esso sia in grado di trarre profitto anche dalle ore extra-lavorative, generalmente dedicate allo svago o al sonno. Se infatti la giornata tipo dovrebbe ipoteticamente essere suddivisa in tre parti della stessa durata (otto ore di lavoro, otto ore di svago e otto ore di sonno), questa suddivisione è invece soggetta ad una lenta erosione, ad una subdola colonizzazione che ha come obiettivo quello di rendere proficuo (per il capitale) un tempo altrimenti privo di redditività, in quanto dedicato all’inattività e quindi non alla produzione né al consumo.
È questa, in breve, la cronofagia del capitale, ovvero la sua capacità di nutrirsi del tempo delle masse.
Questa è la tesi discussa da Davide Mazzocco, giornalista freelance e regista, in Cronofagia – come il capitalismo depreda il nostro tempo, pubblicato da D Editore per la collana Nextopie nel 2019. L’autore prende in prestito un termine coniato nel 2015 da Jean-Paul Galibert, il cui saggio I cronofagi. I 7 principi dell’ipercapitalismo è largamente citato nel testo.
Il carattere divulgativo ricorda il Mark Fisher di Realismo Capitalista, e allo stesso modo Mazzocco ricorre spesso ad esempi tratti dalla cultura pop (film, serie TV) o a riferimenti biografici per illustrare alcuni concetti.
Ma come avviene secondo l’autore questa colonizzazione del tempo? Innanzitutto, come già detto, con l’attacco al tempo del sonno, nicchia di resistenza non ancora mercificata. L’autore si sofferma a osservare come nel corso di un secolo si sia passati dalle dieci ore di sonno a notte (media di inizio ‘900) alle circa sei ore e mezza attuali (media USA). Tale erosione risulta scandita dal progresso tecnologico e da invenzioni pensate per disturbare il sonno e tenerci svegli: dall’illuminazione pubblica, ai PC, fino alla televisione e a Netflix, che sprona l’utente alla compulsività del binge-watching, proponendo in automatico un nuovo episodio al termine del precedente. Interessante è anche il collegamento proposto tra binge–watching e depressione, insonnia e disturbi del sonno.
In secondo luogo, l’autore discute di come tutti i momenti di svago extra-lavorativi siano stati nel tempo mercificati, rendendo l’individuo un consumatore, spesso inconsapevole, in ognuno di quegli ambiti altrimenti improduttivi. Il tempo libero come opportunità per ampliare a dismisura il bacino dei consumatori. In primis, tramite i social network, ciascuno con una propria forma di monetizzazione del tempo; l’esempio più lampante è ovviamente Facebook, azienda da due miliardi di lavoratori, colosso del capitalismo digitale al quale forniamo una servitù volontaria, lavoro gratuito sotto forma di dati, contenuti testuali, fotografici e video. Quindi, tramite strumenti digitali che espellono la noia dalle nostre vite e ci rendono reperibili e potenzialmente attivi 24/7, che ci si trovi alla fermata del bus, in posta o prima di dormire: la pervasività del capitale, sorretto dal progresso tecnologico, porta alla fine dei tempi morti dedicati all’ozio e alla contemplazione, culla della creatività, della fantasia e dell’autocoscienza. E ancora: tramite la burocrazia, sempre più pervasiva nonostante la tanto decantata informatizzazione, e sempre più scaricata sulle spalle dei singoli individui che diventano lavoratori loro malgrado, amministrativi part-time.
Qual è allora il futuro che ci aspetta? Nella parte finale del saggio, l’autore discute del rapporto sempre più conflittuale che l’individuo avrà nei confronti del tempo e alla sempre maggiore disumanizzazione generata dalla cronofagia. Come esempio di questa disumanizzazione, è riportata la vicenda del neonato lasciato morire di inedia dai genitori sudcoreani, inghiottiti dalla realtà parallela di un videogame.
Si arriva a discutere di transumanesimo e crioconservazione, ovvero la conservazione del corpo a temperature molto basse, in modo da poter curare in futuro il defunto per malattie attualmente senza cura; concetti al limite di una puntata di Black Mirror, ma già oggetto di studio e di ricerca in tempi odierni da parte di organizzazioni realmente esistenti (Alcor Life Extension Foundation, in Arizona, dove si trovano già ben 146 individui criopreservati). Un’apparente divagazione rispetto al tema centrale del libro, ma che ha lo scopo di approfondire il rapporto tra individuo, tempo e tecnologia e di ipotizzare le inedite diseguaglianze che esso potrà generare nei decenni a venire, quando il progresso tecnologico, anziché fungere da tramite per l’annullamento delle disparità, ne genererà di nuove. Tali servizi, sostiene l’autore, seguiranno infatti un iter simile a quello dei sistemi sanitari odierni, sempre più privatizzati e i cui servizi, in breve, diventano sempre più il privilegio di una ristretta élite.
Un futuro completamente digitalizzato, iper-connesso, in cui la sfida ai limiti biologici dell’uomo è portata all’estremo, per tenere il passo della costante accelerazione del capitalismo tecnologico: riduzione del sonno, visione accelerata e compulsiva di film e serie tv, multitasking (chi di noi oggi riesce a vedere un intero film senza mai controllare i social?).
Esiste una via d’uscita da tutto questo? Esistono eresie e nuovi paradigmi che permettano di immaginare un futuro alternativo, nel quale la tecnologia non sia semplicemente un altro mezzo di estrazione di valore ma uno strumento di liberazione dell’uomo dal giogo del capitalismo?
Mazzocco elenca alcuni piccoli passi che in varie zone del mondo si stanno muovendo in questa direzione. Le leggi contro l’obsolescenza programmata in Francia sono sicuramente uno di questi passi, ma più in generale, l’autore sostiene la necessità di un dibattito tra connessione e tempo libero, come, ad esempio, sul diritto al non essere reperibili 24/7: sempre in Francia, una legge del 2016 obbliga le aziende con più di cinquanta dipendenti a negoziare il diritto a non rispondere a telefonate e email al di fuori dell’orario di lavoro.
Anche dal basso è possibile smuovere le fondamenta del tecnocapitalismo, seppur tramite soluzioni ed esperimenti che possono apparire talvolta naïf: ne sono esempi le banche del tempo, ovvero luoghi in cui l’unica valuta è il tempo e un’ora di lezione di pittura è ripagata con una di informatica o lingue, indipendentemente dal valore monetario o dalla complessità delle prestazioni offerte; l’economia circolare dei Repair Cafè, rete di locali con libri e strumenti necessari alla riparazione di oggetti malfunzionanti; i diffusissimi movimenti slow (il più noto slow–food, ma anche slow-travel, slow-fashion e così via) promotori del rallentamento in opposizione all’accelerazione delle logiche quantitative del capitalismo: circolarità contro linearità, riciclo contro rifiuto, scambi non mercantili contro scambi commerciali, lentezza contro velocità.
Sicuramente, un obiettivo coraggioso, che mette in discussione forme e abitudini ormai introiettate dalla stragrande maggioranza di noi, tant’è che difficilmente arriviamo a metterle in dubbio, ma:
«Solo riuscendo a stabilire un collegamento tra questo concetto così astratto e insondabile [il valore del tempo] e ciò che c’è di più concreto e comprensibile nelle nostre esistenze si può prendere coscienza di quanta libertà dobbiamo riprenderci. Non domani, oggi. Non gli altri, noi».
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