Fawwaz Fouad al-Samman aveva ventisei anni. Il pomeriggio di lunedì 27 Aprile, stava manifestando a Tripoli, sua città natale nel Nord del Libano, per protestare contro l’ulteriore inasprimento della crisi economica che da mesi attanaglia il paese. La mobilitazione era partita in mattinata da Piazza al-Nour, dove centinaia di cittadini e cittadine si erano radunati nonostante lo spettro del Covid-19 e le rigide misure di distanziamento sociale imposte anche in Libano dall’avanzata globale della pandemia. Nel pomeriggio, i manifestanti si spostano in corteo verso la residenza del deputato Faisal Karameh, ultimo discendente di una delle dinastie politiche più longeve e influenti del Nord del Libano, ed epitome di quella classe dirigente predatoria e corrotta contro cui da quasi sette mesi i Libanesi si stanno mobilitando senza tregua. Lungo il tragitto, la tensione sale. Come ormai da giorni in tutto il territorio nazionale, alcuni ATM e istituti bancari vengono assaliti e dati alle fiamme. Nei duri scontri che ne conseguono, l’esercito spara. Fawwaz viene colpito. Dopo poche ore, nonostante i soccorsi, muore. Nel frattempo, gli scontri si estendono a macchia d’olio in tutto il paese, inaugurando una lunga notte di tensione.
Nel corso delle ultime due settimane, l’ondata di proteste contro la crisi economica e la classe dirigente che investe il Libano ormai dal 17 ottobre scorso, ha conosciuto una nuova escalation. A ridare fuoco alle polveri è stata l’ulteriore svalutazione subita dalla moneta locale all’inizio del Ramadan, in concomitanza con l’implementazione delle misure di lockdown per contenere l’avanzata del Covid-19. Ad essere messe in ginocchio e a mobilitarsi sono state soprattutto le regioni del Libano periferico, dove le blande misure-tampone messe in campo dallo Stato e dai partiti confessionali, hanno potuto ben poco contro gli effetti devastanti dell’aumento incontrollato dei prezzi e dell’impossibilità di andare a lavorare sugli alti tassi di povertà, disoccupazione e di lavoro informale della popolazione locale. La rabbia si è catalizzata in particolare contro gli istituti bancari, che ormai da una settimana vengono quasi quotidianamente investiti da piogge di molotov su tutto il territorio nazionale.
Dalla scorsa estate, il sistema economico Libanese è messo sotto forte pressione da una crisi valutaria e debitoria senza precedenti. Nella giornata di lunedì 27 Aprile, il tasso di cambio al mercato nero della Lira Libanese (LBP) col dollaro americano ha superato quota 4000 LBP, a fronte di un cambio ufficiale fissato a 1500 LBP, su cui sono calibrati gli stipendi e i prezzi delle importazioni. Già dallo scorso autunno, per cercare di tamponare l’emorragia di valuta statunitense necessaria a tenere in piedi il fragile sistema finanziario nazionale, gli istituti di credito avevano iniziato a imporre forti restrizioni sui prelievi in dollari dei correntisti, fissati a seconda dei casi tra i 100 e i 200 a settimana. Le restrizioni si sono ulteriormente inasprite negli ultimi mesi, spesso in maniera arbitraria, impedendo così ai cittadini di poter attingere al già fortemente eroso risparmio privato per fronteggiare inflazione, disoccupazione e, infine, il costo economico e sociale di quasi un mese di lockdown. Così, tra la paura del contagio e quella della fame, è stata la seconda a prevalere, re-innescando manifestazioni su larga scala.
Nel corso di questi sette lunghi mesi di mobilitazione, le istituzioni economiche e finanziare nazionali erano già state uno dei target privilegiati delle proteste. Come analizzato nei contributi precedenti, infatti, buona parte della crisi economica e debitoria in corso affonda le radici nell’avventurismo speculativo che ha accompagnato le politiche di ricostruzione successive alla Guerra Civile, rese possibili dal legame intrinseco tra classe politica e borghesia finanziaria costitutivo del sistema di potere del Libano della Seconda Repubblica, e dalle politiche attive della Banca Centrale, dal 1993 sotto la salda giuda dell’haririsita Riad Salameh. Le istituzioni bancarie e i loro organismi rappresentativi hanno giocato un ruolo di primo piano anche nell’ostracizzare i timidi tentativi di riforma del sistema fiscale in senso progressivo tentati negli ultimi anni per ridare fiato ai bilanci statali in affanno, inclusa la proposta di prelievo forzoso sui grandi patrimoni avanzata nei mesi scorsi per tamponare i contraccolpi del default tecnico in cui il paese è entrato ufficialmente dal 9 Marzo. La protezione dei grandi capitali è passata anche dalla scarsa trasparenza con cui le banche, nonostante i proclami ufficiali, hanno dato conto dei fiumi di denaro emigrati all’estero dall’inizio della rivolta, stimati a circa due miliardi di dollari nei soli mesi di Ottobre e Novembre. Tuttavia, il tasso di radicalità toccato in questi giorni, non era stato finora mai raggiunto.
Allo stesso modo, se nei mesi scorsi ad animare le proteste e le azioni contri le istituzioni bancarie erano stati soprattutto i gruppi e i collettivi radicali di stanza a Beirut, la “Rivoluzione della Fame” innescata dal Covid-19 ha spostato il fulcro della lotta alle regioni periferiche e alle classi popolari. Un ulteriore saggio di questo clima si è avuto nella giornata di martedì quando, in concomitanza ai funerali di Fawwaz, nuove, violente proteste sono esplose in tutto il paese. Anche in questo caso, il bersaglio privilegiato sono state le banche, messe a ferro e fuoco da Tripoli a Nabatiyyeh, da Sidone a Hermel, dal centro alla periferia di Beirut. L’assassinio di Fawwaz sembra anche aver rotto l’idillio tra esercito e una larga fetta di manifestanti che aveva tenuto banco dall’inizio delle proteste. Sin dalla primissima ora, infatti, la gestione dell’ordine pubblico da parte delle autorità Libanesi si era basata su divisione molto precisa del lavoro repressivo, con un esercito utilizzato in funzione principalmente contenitiva, e l’esercizio della repressione diretta delegato invece alle sole forze di polizia. Questo aveva contribuito a rafforzare l’immagine dell’esercito come ultimo (se non unico) baluardo di unità e coesione nazionale, in un paese confessionalmente diviso.
Dopo il caos dei giorni precedenti, la giornata di mercoledì si è svolta senza disordini maggiori. L’atmosfera, tuttavia, resta tesa. Martedì, l’Associazione delle Banche Libanesi ha emanato una circolare decretante la chiusura sine die di tutti gli istituti di credito del Nord. Nel frattempo, se la condanna delle violenze è arrivata pronta e unanime da tutte le maggiori forze politiche, le nuove misure di emergenza e la manovra economica a cui il governo presieduto da Hassan Diab sta lavorando sono fermi al palo. Alla base dello stallo, ci sono le difficoltà a trovare coperture, e il gioco di rimbalzi di interessi e responsabilità ingaggiato dalle forze politiche di maggioranza e opposizione dall’inizio della crisi. Ad offuscare ulteriormente l’orizzonte è arrivato mercoledì il monito del delegato USA agli Affari per i Medio Oriente, David Shanker, che ha rimarcato come l’accesso ai finanziamenti internazionali richiesti dal Libano per fronteggiare la crisi debitoria non possa esimersi da un impegno vigoroso sulla strada dei tagli e delle “riforme difficili” – insomma, un futuro di austerity su un Ramadan senza pace.
** Pic Credit: EPA