Il settimo articolo della call for contribution: uno spazio per sé (per inviarci il tuo contributo scrivi a: redazione@globalproject.info).
Ho quasi 31 anni e questo lockdown non ha fatto altro che acuire il mio stato di esistenza precaria.
Dal 7 all’8 marzo mi sono vista privare di tutto il mio mondo, la socialità (per cui a quanto pare ho una spontanea attitudine innata), i miei spazi, la mia relazione a distanza di 450 km, la mia routine, apparentemente il movimento, la voglia di fare e il lavoro, già precario e senza tutele, che si è letteralmente disintegrato sotto le mie mani impotenti.
Ho visto crollare moltissime persone accanto a me e come in tempi di normale routine ho cercato di essere un supporto, silenzioso, senza volere niente in cambio, fino a quando una notte tutto è crollato, ho iniziato a soffocare io. Razionalmente, sapevo benissimo che era panico ma non riuscivo a reagire, mi sono incazzata con me stessa: io con la mia corazza, in prima linea, sempre in corsa, mai ferma, lamentosa ma sempre in movimento, ero caduta per qualche ora e non avevo controllo, non avevo equilibrio, ero sospesa in un mare di ansia e di incertezza che da sempre mi terrorizzano.
Non è semplice per me mettere tutto questo nero su bianco, tendenzialmente faccio fatica, tanta fatica, a raccontare i miei momenti di down, ma credo che superare i propri limiti personali a volte possa aiutare a mettere in comune esperienze per cercare di fare rete, sentirsi meno sol* e cambiare il sistema tutt* insieme.
Ho scelto una vita al limite delle aspettative sociali introiettate, ho scelto una vita contro le ingiustizie e le oppressioni per la libertà di scelta e di accesso ai diritti di tutti i corpi. Questo ha fatto sì che mi sia scontrata continuamente con la pressione sociale delle persone che avevo intorno, in primis la famiglia, che non comprendeva e certo non supportava le mie scelte; ho scelto una comunità combattente fatta di pirati e soggettività libere e questa quarantena sembrava, apparentemente, privarmene.
Forse è stato questo a colpirmi di più, il terrore di perdere il percorso di vita che mi sto costruendo e per il quale cerco sempre di dare il tutto per tutto, perché è quello in cui credo e quello che mi fa stare bene.
Ho studiato psicologia e se c’è qualcosa che questa facoltà mi ha lasciato sono sicuramente il concetto di benessere a cui ogni persona dovrebbe aspirare, il concetto di rete e comunità, e l’ascolto per l’altr*; e così, ad un certo punto, irrazionalmente mi sono vista incastrata tra le mie ansie e paure e l’esigenza di placare il malessere delle persone che ho scelto di avere intorno e che amo.
Poi in un pomeriggio di marzo, ho visto la fiammella in fondo al tunnel, in maniera sicuramente diversa, telematica oserei dire, in qualche forma la mia rabbia, la mia voglia di cambiare questo sistema infame poteva continuare, parlando come sempre non del mio orticello, ma del bene comune, dell’uscire da questa orrenda fase che stiamo attraversando tutt* insieme con una spinta in più per cambiare tutto quello che ci sta attorno e che ha portato il pianeta e le nostre vite a collassare.
Nella lotta ho trovato il modo di non paralizzarmi, anche se mi sono fermata, volente o nolente, per guardarmi dentro e capire cosa fare. Ragionando anche più a fondo sul concetto di tempo, elemento fondamentale per riappropriarci di quello che ci è stato tolto.
La sola cosa che potevo fare per non lasciarmi andare al panico e all’incertezza era continuare a trovare insieme alla mia comunità nuove forme di lotta, proprio ora che la nostra precarietà diventava ancora più pesante, proprio ora che le nostre rivendicazioni non potevano restare silenti ma dovevano urlare ancora più forte, aspettando le piazze, certo, ma evitando di farci fermare da tutto il delirio che ci stava accadendo intorno.
C’era e c’è ancora tanto da fare, dal rivendicare un redditto di autodeterminazione, al diritto alla salute intesa nella sua interezza, fisica e psicologica, all’incentivare investimenti sulla casa delle donne, al chiedere un serio cambio di sistema che smetta di devastare il pianeta e di sfruttare la riproduzione sociale e il lavoro di cura.
Dal panico alla resistenza, appunto. Siamo la generazione che più, forse, sta pagando la crisi del 2008, e la rabbia che ho dentro non posso metterla a tacere; allora, preferisco metterla in gioco e fare tutto ciò che posso, usare tutta la voce che ho per gridare, per sperare e per cercare di mettere in pratica il migliore dei mondi possibili.