DDL Sicurezza: aumenti di pene, reato di rivolta, norma anti ong, SIM per i migranti

Questo è il quarto articolo del ciclo di approfondimento dedicato al DDL Sicurezza, ad oggi approvato solo alla Camera (qui l’invio al Senato). Per il contesto e la nascita del DDL, si rimanda al primo articolo, per la parte dedicata alla Sicurezza Urbana (Capo II), si rimanda al secondo articolo, per la parte dedicata al contrasto del terrorismo e ai controlli di polizia, si rimanda al terzo articolo.

Il DDL Sicurezza si compone di 38 articoli, suddivisi in sei Capi, che affrontano materie legate alla sicurezza pubblica, alla tutela del personale in servizio, alla protezione delle vittime dell’usura e all’ordinamento penitenziario

In questa sede ci si dedicherà al Capo III che si concentra sulle modifiche in materia di tutela del personale delle forze di polizia, forze armate e vigili del fuoco.

Il DDL 1236 (ex 1660 alla Camera), e in particolare il Capo III, si inserisce in un quadro normativo sempre più caratterizzato da una logica punitiva e repressiva, che criminalizza il dissenso e rafforza le pene in modo sproporzionato. Le disposizioni che regolano la rivolta carceraria e il dissenso sociale sollevano serie preoccupazioni dal punto di vista della giustizia sostanziale e della tutela dei diritti fondamentali, richiamando a una necessaria mobilitazione garantista in difesa di chi, oggi più che mai, rischia di essere etichettato come “nemico” dello Stato.

Venendo all’inizio del Capo. 

All’articolo 19 si effettuano delle modifiche agli articoli 336, 337 e 339 c.p., aumentando le pene di un terzo per violenza o minaccia e resistenza contro pubblici ufficiali, con aggravanti specifiche se tali atti sono rivolti agli agenti di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza. Ma non solo, per entrambi i reati, si prevede che le circostanze attenuanti ove concorrenti con tali aggravanti, non possono essere ritenute prevalenti dal giudice, indebolendo ancor di più il principio della personalizzazione della pena.

Di estrema problematicità è l’inserimento di un nuovo comma all’art. 339, scritto esattamente per i casi di opposizione alle grandi opere inutili:

«Se la violenza o la minaccia è commessa al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica, la pena è aumentata.»

In un quadro dove le funzioni degli agenti sono già ampiamente protette, questo inasprimento risulta sicuramente ridondante e ingiustificato, questa disposizione deve essere letta come un tentativo di prevenire il dissenso sociale e le proteste, soprattutto in contesti di tensione tra manifestanti e forze dell’ordine, rafforzando un impianto repressivo contro chi si oppone.

Articolo 20: Modifiche all’art. 583- quater, c.p., in materia di lesioni a Pubblici Ufficiali ai danni di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio

L’articolo 583-quater del codice penale, come modificato, prevede pene fino a sedici anni di reclusione per lesioni personali gravissime causate a pubblici ufficiali durante il servizio.

L’aumento dei massimali di pena appare sproporzionato, soprattutto se paragonato alle pene per reati di simile gravità, non legati a pubblici ufficiali. Tale squilibrio giuridico solleva dubbi su un’applicazione bilanciata della giustizia e ripropone una riflessione critica sul diritto penale del nemico che si manifesta qui con la creazione di un soggetto “altro”, il contestatore o il dissidente, cui viene applicata una disciplina punitiva di carattere eccezionale. Questo va a svuotare il principio dell’eguaglianza dinanzi alla legge e rafforza una distinzione tra cittadini “degni” di protezione e chiunque possa mettere in crisi lo status quo.

Articolo 21: Dotazione di videocamere al Personale di Polizia

«1. Il personale delle Forze di polizia impiegato nei servizi di mantenimento dell’ordine pubblico, di controllo del territorio e di vigilanza di siti sensibili nonché in ambito ferroviario e a bordo dei treni può essere dotato di dispositivi di videosorveglianza indossabili, idonei a registrare l’attività operativa e il suo svolgimento.

2. Nei luoghi e negli ambienti in cui sono trattenute persone sottoposte a restrizione della libertà personale possono essere utilizzati dispositivi di videosorveglianza.

L’introduzione delle videocamere indossabili per gli agenti di polizia, impiegati in operazioni di ordine pubblico e vigilanza, mira a garantire trasparenza. Tuttavia, senza un identificativo personale visibile sulle divise, questa misura appare incompleta. È fondamentale regolare attentamente l’estrazione e l’uso delle immagini registrate, per evitare che diventino uno strumento di narrazione unilaterale a favore delle forze dell’ordine, piuttosto che un mezzo di controllo imparziale.

Articoli 22-23: Disposizioni in materia di tutela legale per il personale delle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e delle forze armate

Tali articoli sono pensati per sostenere economicamente, nella tutela legale, tutte le forze dell’ordine (se viventi) o coniuge, convivente, figli superstiti (nel caso di morte della fdo).

L’introduzione della copertura delle spese legali per gli agenti indagati (o anche nei procedimenti civili e amministrativi) per fatti di servizio appare come una tutela sproporzionata, soprattutto quando si considera il limite massimo di 10.000 euro per ogni fase del processo. L’unico caso in cui vengono “restituiti” i soldi è previsto per l’accertata responsabilità per grave negligenza.

Questa misura sembra creare un regime di impunità protetta per i membri delle forze dell’ordine, sostenendo economicamente la loro difesa in procedimenti legali, magari anche in presenza di violazioni evidenti dei diritti umani o eccessi nell’uso della forza.

Articolo 24: Modifiche all’articolo 639 del codice penale per la tutela dei beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche.

Tale articolo modifica l’art. 639 del c.p. (deturpamento ed imbrattamento), inserendo tale periodo:

«Se il fatto è commesso su beni mobili o immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche, con la finalità di ledere l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione cui il bene appartiene, si applicano la reclusione da sei mesi a un anno e sei mesi e la multa da 1.000 a 3.000 euro.»

L’aggiunta della pena per chi deturpa o imbratta beni pubblici con l’intento di offendere l’istituzione appare un tentativo eccessivo di tutelare l’immagine delle istituzioni. Il ricorso alla reclusione per atti minori come l’imbrattamento sembra eccessivo e sproporzionato rispetto alla gravità del reato. 

All’articolo 25, vengono introdotte nuove modifiche al codice della strada in materia di inosservanza delle prescrizioni impartite dal personale che svolge servizi di polizia stradale, prevedendo, in caso di violazioni dell’obbligo di fermarsi, di esibire documenti, di fornire informazioni etc., aumenti delle sanzioni amministrative, oltre che, nel caso di non fermo all’alt, la sospensione della patente di guida. 

Articolo 26 e 27: Rivolta nelle Carceri e nei CPR

Uno degli aspetti più controversi del DDL è l’introduzione del reato di rivolta.

Ma prima di esso, bisognerà soffermarsi sul fatto che viene introdotto un nuovo comma al reato di Istigazione a disobbedire alle leggi (l’attuale pena è da sei mesi a 5 anni), prevedendo un’aggravante se tale istigazione avvenga a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute oppure all’interno di un istituto penitenziario.

Venendo al reato di rivolta, il legislatore punisce, con pene da uno a cinque anni chi partecipa a una rivolta con atti di resistenza, nei casi molto gravi (con morti) le pene possono arrivare fino a 20 anni.

Ma il legislatore non si è fermato lì: si amplia la definizione di resistenza fino a comprendere quella passiva. Questo crea una situazione estremamente problematica: la resistenza passiva è una forma di dissenso non violento, spesso utilizzata come ultima risorsa dai detenuti per rivendicare condizioni di vita dignitose.

Anche la Corte di Cassazione, a più riprese, si è trovata a discutere del senso della resistenza passiva, ribadendo che tale è intesa come mero rifiuto di obbedire o una forma di disobbedienza civile che non comporta azioni violente o minacciose, ed in quanto tale non può essere considerata reato.

La resistenza passiva si manifesta tipicamente in forme di protesta silenziosa o di non collaborazione fisica (come ad esempio rifiutarsi di alzarsi o di lasciare una posizione occupata), che sono espressioni di un dissenso civile, ma non di una condotta criminale.

L’inclusione di questo tipo di comportamento nel reato di rivolta carceraria (o dei Centri Per il Rimpatrio) è, pertanto, gravemente problematico. Si tratta di una criminalizzazione del dissenso pacifico, che potrebbe essere utilizzata per soffocare qualsiasi tentativo di ribellione morale e civile all’interno delle strutture carcerarie e dei CPR, dove chi è dentro si trova privato dei più basilari diritti umani.

Includere la resistenza passiva tra i comportamenti punibili equivale a criminalizzare ulteriormente chi protesta contro la propria oppressione, spesso in contesti di abuso e degrado come quelli delle carceri italiane o ancora di più nei CPR, luoghi di tortura in cui potenzialmente chi ci approda nemmeno ha commesso un reato.

In questo modo, oltre a rappresentare un pericolosissimo precedente di drafting legislativo, si legittima una repressione totale del dissenso, sia attivo che passivo, privando i detenuti di ogni strumento di resistenza, anche di fronte a ingiustizie gravi.

Per comprendere le gravi conseguenze di una tale criminalizzazione, basta osservare ciò che è accaduto nel 2020 presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere. In piena pandemia, i detenuti di questa struttura, come in molte altre carceri italiane, avevano dato vita a proteste per le condizioni igienico-sanitarie insostenibili e per l’impossibilità di proteggersi adeguatamente dal Covid-19. In risposta a queste proteste, la gestione carceraria ha messo in atto una repressione brutale, culminata in quello che i media e gli atti giudiziari hanno descritto come “la mattanza” di Santa Maria Capua Vetere.

Le immagini delle videocamere di sorveglianza e le testimonianze raccolte hanno rivelato un quadro agghiacciante: torture, percosse e abusi sistematici perpetrati dalle forze dell’ordine su decine di detenuti. Uomini incatenati, privati delle cure mediche e picchiati senza pietà, in un clima di impunità che ha suscitato l’indignazione dell’opinione pubblica e di numerose organizzazioni per i diritti umani. Questa vicenda rappresenta uno dei capitoli più bui nella recente storia delle carceri italiane e ha messo in luce le enormi carenze nel sistema di giustizia penitenziaria del Paese.

In sostanza, l’impianto punitivo associato alla rivolta carceraria appare in netto contrasto con i principi di proporzionalità della pena e con i dettami costituzionali che richiedono che le pene tendano alla rieducazione del condannato. Questo approccio panpenalistico è istigatore di odio sociale, che mira a frammentare ulteriormente le dinamiche già delicate all’interno delle carceri e delle comunità migranti.

A corredo di un piano già aggravato, l’art. 34 del medesimo DDL dispone che si ricomprende l’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi e il delitto di rivolta all’interno di un istituto penitenziario nel catalogo dei reati per i quali la concessione di benefici penitenziari è subordinata alla mancanza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. 

Art. 28 Disposizioni in materia di licenza, porto e detenzione di armi per gli agenti di pubblica sicurezza.

«Gli agenti di pubblica sicurezza sono autorizzati a portare senza licenza le armi previste dall’articolo 42 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza quando non sono in servizio.»

L’articolo autorizza gli agenti di pubblica sicurezza a portare armi anche fuori servizio, senza licenza. Questa misura, priva di adeguati controlli, solleva serie preoccupazioni per la sicurezza pubblica, potendo aumentare i rischi di abusi o incidenti. 

Art. 29 Disposizioni per la tutela delle funzioni istituzionali del Corpo della guardia di finanza svolte in mare e modifiche agli articoli 1099 e 1100 del codice della navigazione.

In sostanza questa è la cd. norma ‘anti-ONG’, volta ad estendere l’applicabilità delle pene previste dagli articoli 1099 e 1100 del codice della navigazione per i capitani delle navi, italiane o straniere, che non obbediscano all’intimazione di fermo di unità del naviglio della Guardia di finanza o che commettano atti di resistenza contro di esse, al naviglio della Guardia di Finanza impiegato in attività istituzionali. Prevede inoltre la reclusione fino a 2 anni per il comandante della nave straniera che non obbedisca all’ordine di una nave da guerra nazionale nei casi consentiti dalle norme internazionali di visita e a ispezione delle carte e dei documenti di bordo e la reclusione da tre a dieci anni per il comandante o l’ufficiale della nave straniera per gli atti compiuti contro una nave da guerra nazionale.

La misura appare eccessiva e sembra mirata a ostacolare le operazioni di soccorso delle ONG nel Mediterraneo, rafforzando una politica di criminalizzazione della solidarietà. Aumentare le sanzioni per chi compie atti di resistenza in mare, finalizzati al salvataggio di vite umane, mette in discussione i principi fondamentali del diritto internazionale marittimo e del soccorso in mare, che impongono di assistere chiunque si trovi in pericolo. 

Dopo l’art. 30 finalizzato alla tutela delle Forze armate impegnate in missioni internazionali e l’art. 31 volto al potenziamento dell’attività dei servizi di informazione per la sicurezza, si arriva alla chiusura del Capo, con:

Articolo 32: Modifiche al codice di cui al decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259, in materia di obblighi di identificazione degli utenti dei servizi di telefonia mobile e relative sanzioni.

L’articolo in oggetto prevede la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni per i casi nei quali le imprese autorizzate a vendere schede SIM non osservino gli obblighi di identificazione dei clienti. In secondo luogo, con riferimento alla conclusione di contratti per la telefonia mobile, viene previsto per il cliente cittadino di Paese fuori dall’Unione europea, che sia richiesto anche il documento che attesti il regolare soggiorno in Italia.

L’accesso ad una SIM telefonica è oggi fondamentale per la partecipazione alla vita sociale ed economica, e imporre barriere così elevate rischia di escludere una parte vulnerabile della popolazione da servizi essenziali, aggravando la loro marginalizzazione. Questa misura potrebbe infatti alimentare ulteriormente la discriminazione nei confronti dei migranti, che si troverebbero ad affrontare un ostacolo in più per esercitare diritti basilari come la comunicazione, la ricerca di lavoro, l’accesso a servizi digitali e bancari. In un contesto di crescente digitalizzazione, limitare l’accesso alla telefonia mobile potrebbe avere un impatto devastante sull’integrazione sociale e lavorativa di queste persone.

Inoltre, dal punto di vista operativo, l’obbligo di controllare il regolare soggiorno introduce complessità amministrative per i rivenditori, questo potrebbe condurre a situazioni di disapplicazione delle norme o, peggio ancora, a casi di rifiuto arbitrario nell’erogazione del servizio, esacerbando le disuguaglianze già esistenti.

Infine, l’inasprimento delle sanzioni per i rivenditori che non rispettano gli obblighi di identificazione rischia di essere sproporzionato. L’interdizione dell’attività commerciale per periodi che possono arrivare fino a 30 giorni potrebbe avere conseguenze economiche gravissime per i piccoli imprenditori e le attività locali.

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