Proponiamo la traduzione a cura di Camilla Camilli e Non Una Di Meno Venezia dell’articolo “Deuda, vivienda, y trabajo: una agenda feminista para la pospandemia” di Luci Cavallero e Verónica Gago, originariamente pubblicato su Revista Anfibia. Verónica Gago è economista, ricercatrice in scienze sociali, giornalista di Pagina 12 e attivista del collettivo Ni Una menos. Luci Cavallero è una sociologa, femminista e ricercatrice presso l’Università di Buenos Aires. Le sue opere affrontano il legame tra debito, capitale illegale e violenza. Sono co-autrici del libro “Una lectura feminista de la deuda. ¡Vivas, libres y desendeudadas nos queremos!”, Fundación Rosa Luxemburg, Buenos Aires 2019 (trad. it. Una lettura femminista del debito, Ombre corte, Verona 2020).
In tutto il pianeta il virus ha accelerato la comprensione del neoliberalismo nei suoi meccanismi mortali esercitati sui corpi concreti. Chi riesce a immaginare come sarebbe questa pandemia senza le precedenti analisi che il femminismo e altre forme di militanza hanno prodotto in merito alla politicizzazione della cura, ai lavori essenziali invisibilizzati, al debito pubblico, all’estrattivismo e alla violenza machista? Il campo di battaglia del capitale contro la vita non è astratto. È composto da ogni lotta contro la precarietà che sta attraversando la crisi in questo stesso momento.
Non è possibile banalizzare le immagini di dolore che circolano da settimane. Il virus ha accelerato, simultaneamente e in tutto il pianeta, il processo di comprensione del neoliberalismo come meccanismo di morte che agisce su corpi concreti. Potremmo dire che questa non è una novità. Il neoliberalismo ha mostrato che riesce a convivere perfettamente con le macchine di produzione di morte, come quelle che avvengono lungo le frontiere e nei campi di rifugiat*, per nominare le più brutali. Ma ora il virus, che non fa discriminazioni riguardo alla classe e non seleziona nessuno in base al passaporto, ha portato in scena una prova generale della vita neoliberale come di uno spettacolo che vediamo accadere online, con tanto di conteggio necropolitico in tempo reale. A partire da questo, ci sono due enunciazioni che non ci risultano efficaci. Una rapida dipartita del capitalismo (che ritroviamo in un editoriale del Washington Post e in alcuni scritti di teorici consacrati) o, in contrasto, l’insistenza su come la pandemia confermi il controllo capitalista e totalitario sulla vita.
A partire dalle nostre pratiche, all’interno del movimento femminista, desideriamo chiederci quali siano le lotte che hanno portato alla crisi di legittimità del neoliberalismo attuale e, nella crisi, individuare i campi di conflitto aperti e ciò che è in gioco come possibili vie d’uscita. Vogliamo, per fare questo, utilizzare una chiave di lettura femminista che ci permetta di comprendere il futuro che si sta realizzando proprio ora. Qualcuno riesce a immaginare cosa sarebbe questa pandemia senza la precedente politicizzazione della cura, senza la militanza per il riconoscimento del lavoro di riproduzione e la valorizzazione delle infrastrutture dei lavori invisibilizzati, senza la denuncia dell’indebitamento pubblico e privato, senza l’incisività delle lotte anti-estrattiviste per difendere i territori dal saccheggio delle multinazionali?
Non vengono dal nulla quel vocabolario e quelle pratiche che oggi utilizziamo per denunciare gli effetti della dismissione della sanità pubblica, dell’estremo sfruttamento del lavoro precario e migrante e dell’aumento della violenza domestica nell’isolamento. A livello mondiale i movimenti sociali stanno in allerta perché c’è il rischio che, alla fine della pandemia, ci si ritrovi più indebitati sia per affitti accumulati e le spese da pagare, sia per il prezzo degli alimenti che non smette di aumentare, sia per un aumento del debito pubblico di quegli stati che decideranno di salvare le banche. Ogni giorno si denunciano le derive securitarie, militariste e razziste della crisi. È necessario esplicitare, quindi, le lotte che si stanno dando in questo momento, in questa crisi, e rendere visibili le rivendicazioni dei femminismi e dei movimenti contro la precarietà in generale. E, infine, insistere sul fatto che se il mondo sta cambiando, come si legge su alcuni muri, è perché la cosiddetta normalità era e continua ad essere il problema.
Vogliamo quindi affrontare una serie di punti che attualizzano un’agenda aperta, collettiva, che esisteva prima della pandemia e che ci serve, come risorsa comune, per respirare e immaginare vie d’uscita.
Estendere la quarantena alle finanze
A mano a mano che avanzavano i numeri degli infettati dal virus, le borse di tutto il mondo crollavano. Ancora una volta, il mondo della finanza ha mostrato la sua dipendenza dalla forza lavoro al momento di estrarre valore. I governi pro-austerità d’Europa hanno sterzato e diretto le proprie politiche verso un aumento della spesa sociale di emergenza ma, allo stesso tempo, hanno rinforzando il carattere nazionalista e securitario. In Argentina l’emergenza ha modificato la rinegoziazione del debito con il FMI, mentre proprio il FMI – insieme alla Banca Mondiale – ha chiesto il condono del debito per alcuni paesi in modo da alleviare gli effetti della pandemia.
Tuttavia, questo non cancella il problema dell’indebitamento pubblico e privato. Piuttosto, ci interroga sull’esigenza di estendere la quarantena finanziaria oltre la fine della pandemia. Una settimana prima che si venisse a conoscenza del primo caso di coronavirus in Argentina, le femministe avevano marciato con una bandiera che diceva “Siete in debito con noi” e “Vive, libere e sdebitate ci vogliamo”, fornendo immagini concrete di quell’analisi che oggi è diventata senso comune: il capitale sfrutta le nostre vite precarizzate sia in presenza che in assenza di un salario.
Sappiamo che una delle possibilità che si sta prendendo in considerazione, in questa crisi a livello globale, è il rilancio del debito privato come maniera di integrare gli introiti altrimenti insufficienti a pagare gli affitti che si accumuleranno, a comprare alimenti sempre più cari e a pagare i servizi pubblici. Un nuovo ciclo di indebitamento è quello che è stato proposto in Europa e negli Stati Uniti come “soluzione” per rilanciare i consumi dopo la crisi del 2008. C’è la possibilità che, questa volta, questo tipo di via d’uscita non sia un’opzione?
A partire dalle richieste specifiche dei movimenti sociali, alcuni governi hanno rinviato i pagamenti dei mutui personali e ipotecari, hanno sospeso gli sfratti e hanno concesso redditi straordinari per la quarantena. La domanda è: cosa succederà quando queste misure si allenteranno e, soprattutto, quando non riusciranno a evitare l’indebitamento personale per superare la crisi? È evidente la disputa sulla destinazione e sull’ammontare delle spese sociali. Legittimata come straordinaria dall’emergenza sanitaria, non può rimanere una misura d’eccezione isolata, ma deve diventare la punta di diamante di una riorganizzazione necessaria e urgente rispetto alla destinazione dei fondi pubblici e ad un nuovo orientamento del sistema tributario.
Sappiamo che i sussidi sociali, che sembrano semplici trasferimenti monetari, sono carichi di valori morali che legittimano o meno forme di vita. Dal tormentone secondo il quale i sussidi retribuiscono la pigrizia (una discussione che deriva dal secolo XVIII), fino ai ruoli di genere che si intrecciano con i tagli alla spesa sociale, possiamo vedere in ogni momento quale parte della popolazione viene individuata per assumersi le privazioni e i castighi. Ora, di fronte alla sospensione globale dell’austerità come misura emergenziale, la disputa è come si determina politicamente a chi vanno gli aiuti e come cessano di avere carattere transitorio.
La battaglia per il pubblico non è altro che la battaglia per la ridistribuzione della ricchezza. Il collasso lo stanno contenendo i lavorator* della sanità e le reti di organizzazione popolare che producono dalle mascherine fino alla distribuzione di alimenti. Oggi più che mai è possibile mettere in discussione la segmentazione classista nell’accesso alla sanità.
Qui si gioca anche una concezione riguardante il lavoro, riguardante coloro che producono valore e riguardo a quali modi di vita meritano assistenza, cura e reddito. In questo senso si inseriscono le richieste per un reddito di base, universale, per un reddito di cura e quello che, in generale, potrebbe essere pensato come un “salario femminista”. Tutte misure che sono indissolubili, affinché siano efficaci, da un ampliamento dei servizi pubblici.
Lo spazio domestico come laboratorio del capitale
Il ritardo di alcuni governi nel dichiarare la quarantena e la presa in giro di altri sulla gravità della pandemia, hanno portato a scenari politici ben diversi. Ci sono presidenti che, nel bel mezzo di una performance di virilità decadente, hanno scommesso su un malthusianismo sociale con conseguenze catastrofiche, come vediamo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna e come si prospetta in Brasile e India. Si potrebbe vedere ognuna di queste risposte come una particolare congiunzione tra un neoliberalismo che non muore e delle forme fasciste che accorrono per salvarlo. Ci sono altri presidenti che hanno minimizzato le misure di sicurezza per i lavoratori, come in Cile e in Ecuador e, fino ad un certo punto, in Italia. In Argentina, al contrario, il governo ha giocato d’anticipo emanando misure sanitarie ed economiche per il contenimento degli effetti della pandemia. La quarantena come misura pubblica si sta mostrando efficace nel ridurre la quantità dei contagi giornalieri, in un paese con un sistema sanitario devastato da anni di politiche neoliberali.
Dall’altra parte, come si insiste specialmente dalla prospettiva femminista, sappiamo che ci sono molteplici forme di quarantena – segmentate per genere, classe e razza -, che non tutti i corpi hanno la possibilità di starsene in casa e che gli isolamenti implicano abusi e violenze machiste per molt*. In questo panorama emerge la complessità, percepita dal basso, di ciò che implicano le misure sanitarie globali e generali. Per questo vediamo come le lotte per il diritto alla casa si intrecciano e si complicano in relazione alle denunce per l’aumento della violenza machista. Il record di femminicidi in tempo di quarantena mostra qualcosa che si stava già diagnosticando: l’implosione delle famiglie, veri campi di guerra per molte donne, lesbiche, travestit* e trans che provano tattiche di fuga e che ora, grazie al virus, passano 24 ore su 24 con i loro aggressori. La mobilitazione del ruizado feminista di lunedì scorso in Argentina (30 marzo n.d.t.) ha dato voce a questa violenza sorda. Si è svolto il cacerolazo nelle vie della città, sui balconi e nei cortili, inventando forme di protesta per evidenziare che la quarantena non è un sinonimo di isolamento. Perché la casa non può essere un luogo di speculazione immobiliare né di violenza machista e quando questa pandemia passerà rimarrà un orizzonte di relazione tra la lotta per l’accesso alla casa e una domanda più profonda: dove, come e con chi vogliamo vivere? Cosa significa produrre uno spazio femminista che nel momento in cui problematizza il #quedateencasa (#stareacasa) proposto dai governi, non contrapponga solo la costruzione di rifugi come alternativa alla violenza machista? Anche qui la domanda che si ripropone è perché casa sia sinonimo di famiglia nucleare eterosessuale: è in queste famiglie che si sono verificati dodici femminicidi nei primi dieci giorni di quarantena. Queste diagnosi abbondano grazie a una politicizzazione femminista che le ha poste in rilievo sin dal primo momento e che ha de-idealizzato la nozione stessa di spazio domestico come luogo sicuro.
Vogliamo fare un passo avanti e chiederci come il capitale sfrutterà questa misura di isolamento per riconfigurare le sue forme di lavoro, i modi di consumo, i parametri di ingresso e le relazioni di sesso e genere. Ma più concretamente: siamo di fronte ad una ristrutturazione dei rapporti di classe che prende come principale l’ambito della riproduzione?
La politicizzazione dello spazio domestico è una bandiera femminista. Abbiamo detto che lì si produce valore, che il lavoro di cura è storicamente invisibilizzato e indispensabile, che l’isolamento dentro quattro mura si inscrive in un ordine politico di gerarchie patriarcali. Possiamo leggerlo come una traduzione del capitale che cerca di approfittare di questa crisi ipersfruttando lo spazio domestico? Sarà che l’imperativo del tele-lavoro, della scuola in casa, dell’home-office sta portando al massimo l’esigenza di produttività di questa casa-fabbrica che funziona a porte chiuse e tutti i giorni della settimana senza limiti di orario? Chi può assicurare che, una volta passata l’emergenza sanitaria, questi sviluppi nella flessibilizzazione lavorativa che atomizza e precarizza ulteriormente le lavoratrici e i lavoratori cominceranno a retrocedere?
Torniamo, quindi, a chiederci: di che tipo di casa stiamo parlando? Ridotte negli spazi, saturate di oneri familiari, che ora devono anche trasformarsi in luoghi produttivi per lavori che fino a poco tempo fa si svolgevano negli uffici, nelle fabbriche, negli uffici, nei negozi, nelle scuole e nelle università. C’è un’esigenza di iperattività mentre ci muoviamo sempre meno. Il capitale minimizza i suoi costi: chi lavora paga l’affitto e le spese del “proprio” luogo di lavoro; la nostra riproduzione sociale se non “abbiamo bisogno” di trasporto per andare a lavorare è anche a buon mercato; mentre servizi a domicilio a pagamento assicurano logistiche precarie di distribuzione.
Anche lo spazio domestico supera le case: è formato da quartieri e spazi comunitari, già sfruttati prima della crisi, che inventano reti con scarse risorse e che da tempo già parlano di una situazione di emergenza.
La lettura femminista del lavoro come chiave anti-neoliberale generale
La quarantena amplifica la scena della riproduzione sociale, ovvero, l’evidenza dell’infrastruttura che sostiene la vita collettiva e della precarietà di cui si fa carico. Chi sostiene la quarantena? Tutte le forme di cura, le attività di pulizia e manutenzione, i molteplici lavori del sistema sanitario e dell’agricoltura oggi sono l’infrastruttura di cui non possiamo fare a meno. Quali sono i criteri per dichiararli come tali? Essi esprimono il limite del capitale: ciò di cui la vita sociale non può fare a meno per continuare ad andare avanti. C’è anche un’intera area della logistica e del capitalismo delle piattaforme online che, pur confidando nella metafisica degli algoritmi e del GPS, si alimenta con corpi concreti. Questi corpi, in genere migranti, sono quelli che attraversano la città deserta, coloro che permettono – con la loro esposizione – di mantenere e rifornire il rifugio di molti.
Si tratta di aree di lavoro caratterizzate dal lavoro femminilizzato e precario. Le mansioni storicamente svalutate, sotto pagate, non riconosciute o direttamente dichiarate come non-lavoro si rivelano come le uniche infrastrutture insostituibili. Una sorta di inversione della frittata del riconoscimento. Qui il lavoro comunitario ha un ruolo fondamentale: dai centri di salute alla raccolta della spazzatura, dalle mense agli asili, hanno sostituito ciò che è stato successivamente privatizzato, espropriato e mal finanziato. Questi lavori sono così insostituibili che in alcuni quartieri è stato impossibile pensare a una quarantena che implicasse un confinamento in casa, lanciando così il motto “stai nel tuo quartiere”.
Queste infrastrutture collettive sono le vere trame di interdipedenza, nelle quali si delega la riproduzione mentre continuano a essere disprezzate. Se questo era chiaro nei paesi del terzo mondo, ora l’evidenza è senza dubbio globale.
È riguardo a questi ruoli che il movimento femminista ha portato avanti un lavoro pedagogico e di riconoscimento negli ultimi anni, organizzando scioperi internazionali e approfondendo analisi che hanno evidenziato la precarietà come un’economia specifica della violenza. Oggi questa diagnosi è sulla copertina di tutti i giornali del mondo. Da questa constatazione è necessario pensare a una riorganizzazione globale dei lavori – i riconoscimenti, i salari e le gerarchie – durante e dopo la pandemia. O detto in un altro modo: la pandemia potrebbe anche rivelarsi come una prova generale per una diversa organizzazione del lavoro. Non possiamo essere ingenue a riguardo. I rapporti di forza non ci permettono di dare per scontato nessun trionfo. La crisi di legittimità del neoliberalismo cercherà di risolversi con più fascismo: più paura, più minacce per chi è viene indicato come “il nemico” e tutto ciò che porta ad un’elaborazione paranoica dell’incertezza condivisa.
Lo sciopero come contesa o chi ha il potere di “scioperare”
Potremmo dire che il freno a mano al mondo che la pandemia ha attivato sembra un simulacro dello “sciopero”. Dopo l’enorme sciopero femminista internazionale in America Latina (anche se in Italia non è stato possibile a causa del coronavirus, mentre in Spagna le femministe sono state messe sotto accusa per averlo fatto), non smette di essere impressionante questo “capovolgimento” del significato di fermarsi, della reclusione a livello globale. Ma anche così la pandemia non smette di riempirsi, al suo interno, di chiamate allo sciopero: degli affitti, dei lavorator* di Amazon, dei metalmeccanici in Italia, dei lavorator* della sanità, degli studenti.
Come hanno dichiarato le femministe del Coordinadora 8M en Chile, è necessario uno sciopero dai lavori che non siano quelli essenziali per la riproduzione della vita. Senza dubbio, lo sciopero ai tempi del coronavirus è elemento di controversia. Da un lato, come abbiamo già detto, in questo “fermarsi” del mondo i lavori femminilizzati – quelli che abbiamo reso visibili con lo sciopero femminista – si dimostrano come gli unici che non si possono fermare. E oggi questo è più chiaro che mai. Dall’altro lato, c’è un’esigenza di scioperi sul piano del reddito: affitti, ipoteche, servizi base, interessi sui debiti. Di fronte ai compiti essenziali, la rendita finanziaria e immobiliare è quella che deve smettere di estrarre valore e di mantenersi grazie alle promesse di austerità future.
Il campo di battaglia del capitale contro la vita si gioca oggi su quei lavori dichiarati essenziali e su come remunerarli in base a tale criterio, implicando una riorganizzazione globale del lavoro. Il campo di battaglia del capitale contro la vita si gioca oggi nella capacità collettiva che abbiamo di sospendere l’estrazione di reddito (finanziario, immobiliare, delle multinazionali agroalimentari che sono responsabili del collasso ecologico) e di modificare le strutture fiscali. Questo campo di battaglia non è astratto. È composto da tutte le lotte nella crisi, in ogni iniziativa concreta. La sfida sta nel collegare le rivendicazioni che sorgono da territori diversi e trasformarle in un orizzonte futuro, qui e ora.
** Ph. Credit – Serigrafia di @victoria.infinita