di Franco Pezzini
Massimiliano Kornmüller, L’oracolo di Alessandro Magno. Il metodo divinatorio del mago Astrampsico, pp. 155, € 12, Hermes, Roma 2020.
Mariano Tomatis, Mesmer. Lezioni di mentalismo. Vol. 2: La zona del Crepuscolo, 1784-1819, Prefazione di Filo Sottile, pp. 383, stampato in proprio, Torino 2020.
“La divinazione ha per dominio tutto ciò che lo spirito umano non può conoscere tramite le sue sole forze, in primo luogo l’avvenire – quando sfugge a una previsione razionale – in secondo luogo il presente e il passato, in quello che hanno di inaccessibile all’investigazione ordinaria”. Con queste parole Massimiliano Kornmüller, avvocato cassazionista specializzato in penale, penale minorile e penale militare, attivissimo nella “tutela giuridica per artisti, scrittori, pittori, scultori ed arti drammatiche” (così il sito iustlab.org) ma insieme raffinato artista a sua volta, studioso dell’esoterismo antico e letterato scherzoso da arcadicherie di età barocca, avvia la curatela del Libro delle sorti del mago Astrampsico, testo greco precedentemente inedito in Italia.
Dove due paiono gli aspetti degni di nota, al di là di quello tecnicamente divinatorio che può interessarci limitatamente (se la vita, come sostiene Zeno Cosini, non è né bella né brutta ma originale, perderne l’originalità a colpi di spoiler sembra imperdonabile). E cioè da un lato lo straordinario fascino della compilazione e del mondo che evoca: il contesto è quello ellenistico (riferimenti a “vescovi” e “chierici” fanno ipotizzare titoli corrispondenti delle amministrazioni pagane, assieme forse a ricorsi più tardi in tempi cristiani a una forma divinatoria utilizzata con adattamenti), e si spalancano sullo sfondo gli orienti favolosi dei meticciati tra greci ed ex-sudditi achemenidi in terre dai nomi evocativi (Battriana, Sogdiana, Carmania, Margiana, Aracosia, eccetera). Un mondo che sincretizzava arti e culti, e dove la misura greca classica si confrontava con diverse morbidezze lungo le vie carovaniere: ovvio immaginare che vi transitassero anche dottrine ermetiche, magiche e divinatorie. Le strofe a forma di colombe dei bibliotecari di Alessandria ricordate da Borges, i prodigi della tecnica ellenistica – fino a giochetti come l’accensione del fuoco su un altare che fa aprire illusionisticamente le porte di un sacello – incontrano su quegli sfondi altri sogni, culture e urgenze, tra elefanti e cammelli e bestie feroci dei serragli: un mondo all’ombra della memoria dell’Alessandro Magno trasfigurato in mille tradizioni locali, insieme eroe sempre giovane, cadavere ingioiellato in qualche tomba segreta e icona di storie fantastiche degli orienti.
Ma tutto questo resta implicito nell’asciuttezza del libro dedicato al suo mago. Sfogliandolo, troviamo anzitutto un’introduzione sulla divinazione cleromantica, cioè tramite sorti (dadi, listarelle eccetera); si passa poi alla vita del misterioso Astrampsico – mago persiano per Diogene Laerzio – e alle sue opere, tra le quali un Lapidarium nauticum per garantirsi buone navigazioni con pietre talismaniche, un Oneirocriticon di interpretazione dei sogni (con responsi politicamente scorrettissimi come “Se la tua pelle [in sogno] è diventata nera, questo non fa del bene a nessuno” e altri lapalissiani come “Seduti in una fossa: non è di buon auspicio”), una Formula magica […] per attrazione amorosa e buona riuscita negli affari che interpella direttamente il dio Ermete e appunto il Libro delle sorti presuntamente usato con profitto da Alessandro. Con istruzioni in una lettera (più tarda?) del mago a re Tolomeo, un elenco di novantatré domande (alcune curiose: “Erediterò da mia moglie?”, “Verrò venduto?”, “Sarò ambasciatore?”, “Sono stato avvelenato?”), una tavola di corrispondenze numeriche e centotré decadi di risposte (che meritano qualche assaggio: “Non avrai sorte di diventare vescovo, non lo sperare”, “Otterrai la moglie che desideri, ma avrai dei sospetti”, “Se entri nell’esercito te lo ricorderai”, “Sarai curiale, ma ladro”, “Non sei stato avvelenato: perché sei così apprensivo?” eccetera).
Per la consultazione occorre un decaedro, dado a dieci facce, che il lettore mancante in casa di oggetto tanto necessario può ritagliare da p. 155 e costruirsi in autonomia. Tanto più che pratiche di tipo divinatorio non appartengono solo al passato e alle scelte di sovrani assoluti, ma sembrano trovare interesse ancor oggi nella politica e persino (come peraltro l’astrologia, mi risulta da fonti private) nei quadri di alcune aziende. Che la divinazione impatti cioè con effetti surrealmente concreti nel mondo reale – magari in forma di profezie che si autoavverano – non dovrebbe stupire.
Un secondo elemento d’interesse riguarda però il curatore. Dal profilo estremamente eclettico, come già accennato (un ritratto qui: il suo Magica incantamenta pare venga effettivamente utilizzato in circoli di maghi neopagani). Se nel caso del volume in esame le sue abilità di artista sono documentate dall’apparato grafico, con immagini a china di sorti e sculture, si tratta di poca cosa a fronte dei superbi encausti e acqueforti – alcuni proprio su sfondi ideali ellenistici – presentati in più mostre in giro per il Mediterraneo e anche altrove (per qualche assaggio rinvio al suo sito). Dove un sottotesto sornione di vaga ironia resiste sotto il velo del rigore documentale: e a testimonianza di questa sua vena a tratti esilarante è atteso per i tipi Bertoni di Perugia un suo Scherzi in rima.
Divinare, come spiegato, non riguarda però solo la conoscenza del futuro, aprendo anche a ciò che non è noto del presente e del passato. A partire in fondo da quelle dimensioni di mistero fitto che non riguardano gli arcana imperii ma le nostre profondità interiori e la gestione della relativa libertà. Per cui non sembra una forzatura accostare al volume su Astrampsico il nuovo testo di un altro tipo di mago, il mentalista – anzi, “iniettore di meraviglia” – Mariano Tomatis, cioè il secondo volume della sua monumentale opera Mesmer. Lezioni di mentalismo (sul primo volume, il senso dell’opera e il profilo militante dell’autore, cfr. qui). Un libro bellissimo, anche come oggetto editoriale di straordinaria eleganza, tutto da gustare per la forza affabulatoria della narrazione e la ricchezza vertiginosa di dati: in oggetto stavolta è quella che Tomatis – omaggiando Rod Serling – chiama zona del Crepuscolo, relativa agli anni 1784-1819, in cui tra gabinetti scientifici e palcoscenici “si sprigionarono visioni e potenzialità che sembravano paranormali”. Un “libro di rivoluzioni”, osserva Filo Sottile nell’ottima Prefazione,
lungo un trentennio […] luogo di scontro e di incontro fra scienza e teatro, incubi e premonizioni, poteri ESP e giochi di prestigio. […] Il crepuscolo – come la rivoluzione – non è un luogo circoscritto, puntiforme, ma quel lasso di tempo in cui il giorno trascolora nella notte, per sua stessa definizione sfumato, compresenza ibrida, terra di nessuno, landa bizzarramente abitata. In questa zona, che è in effetti un’ampia soglia, Mariano ci propone cinque percorsi liminali, in cui i nostri passi abitano il confine più che oltrepassarlo, i nostri sensi sono messi all’erta e il muscolo dello stupore continuamente sollecitato.
Spinto da un amore profondo e dichiarato per il proprio lavoro, proprio per esplorarlo in profondità Tomatis si propone di mirare ai relativi difetti, richiamando la frase di Leonard Cohen, “C’è una crepa in ogni cosa. È da lì che entra la luce” (ed è in fondo questo lo stesso spirito di chi scrive, in riferimento all’oggetto divinazione). A partire da un episodio personale di intuizione – un mattino di fine estate a metà tra sonno e veglia, con risoluzione di un enigma matematico – del tipo che nel Settecento, Tartini docet, veniva attribuito nientemeno che al Maligno.
Di qui l’esplorazione di cinque “cinque soglie cruciali” per la storia del mentalismo – e in fondo più in generale per lo studio del cervello umano – aperte nell’arco di tempo considerato. Anzitutto quella tra il sonno e la veglia, con gli esperimenti e le teorie del marchese di Puységur – a partire dallo strano caso (1784) del contadino ventitreenne Victor Race che, magnetizzato, prende a parlare nel sonno in modo curiosamente forbito e intelligente – e l’attenzione al sonnambulismo spontaneo e a quello degli spettacoli: un magma di fenomeni che ispirerà il nascere dell’ipnosi medica da un lato, del mentalismo dall’altro.
La seconda soglia è quella tra la vita e la morte, e riguarda la “terra d’incubo della fantasmagoria”, le lanterne magiche dall’illusionista Philidor in avanti (ma ci sono anche pittoreschi precedenti), dove i fantasmi inconsci evocati non si limitano a speculare ad ampissimo campo sui misteri dell’esistenza. Le apparizioni del re da poco ghigliottinato o – a un livello più privato – di parenti scomparsi finiscono infatti col recare implicazioni politiche e conturbanti mozioni affettive (“vampirismo della nostalgia o rituale psicomagico?”, sintetizza felicemente Filo Sottile). Straordinario del resto lo spettacolo che un epigono di Philidor, Étienne-Gaspard Robertson inscena proiettando l’ombra di Marat e altre, tra le quali quelle dei giacobini morti per mano dei controrivoluzionari: uno spettacolo che meriterebbe richiamare oggi, a fronte del sostanziale oblio del Terrore bianco e di un sempre più diffuso – almeno in Italia, in una vulgata da Primula rossa – derubricare l’intera epopea libertaria della rivoluzione a semplice, feroce mattanza da parte giacobina contro il buon sovrano e i suoi fedeli.
Terza soglia, tra il visibile e l’invisibile: qui il discorso si fa, se possibile, ancor più surreale con la saga (1800) delle donne invisibili; mentre la quarta, tra realtà e simulazione, affronta il caso dell’abate Faria (quello vero, José Custodio Faria di Goa in India, 1756-1819, non il personaggio di Dumas a lui ispirato, e di cui pure Tomatis parla), “il primo a spettacolarizzare in modo esplicito il sonnambulismo”. Ma più terribile della prigionia al castello d’If è quella evocata a proposito della quarta soglia, tra lucidità e follia, con il caso di Ersilia Rouy (1814-1881), figlia a sua volta di un impresario di fantasmagorie, finita al manicomio di Charenton per opera di un losco fratello. “Usando la scrittura come un piccone, la donna farà di tutto per abbattere le mura che la tengono rinchiusa”, oltre a una serie di trovate da illusionista con cui si ribella al sistema manicomiale. L’incontro con un medico diverso dagli ottusi persecutori incrociati per anni, Edouard Le Normand des Varannes, permetterà venga liberata e prenda a narrare per scritto la storia della sua ingiustificata detenzione, perché casi del genere non si ripetano. La storia è affascinante ed è prezioso che venga riproposta anche nel clima di oggi, a manicomi chiusi – anche se “L’aspetto più struggente delle Mémoires [di lei] sta nell’impossibilità, da parte dell’autrice, di dimostrarsi sana di mente una volta per tutte; il libro la colloca testardamente sulla tragica zona del crepuscolo che separa lucidità e pazzia, ostacolando ogni tentativo di assegnarla all’uomo o all’altro versante”.
A concludere la parte di trattazione, un esame del caso della “bella addormentata” del Museo Tussauds di Londra, il pezzo più antico della collezione, la cui contemplazione conduce alla fine l’autore a una riflessione bellissima sul senso del suo lavoro. Segue una bibliografia e le vere e proprie Lezioni di mentalismo, centoquaranta pagine di tecniche irrorate di storie e Storia, richiami letterari e riflessioni. Un’opera insomma straordinaria, che a ogni volume amplia un panorama su una divinazione certo molto diversa da quella di Astrampsico, ma non meno sorprendente o esistenzialmente ricca. Anche dove – e forse soprattutto dove – non si appiglia a ineffabili dimensioni esoteriche ma rivela una buona tecnica tutta umana per schiudere gli occhi alla meraviglia e il cervello a macchine per pensare. Lavorare sull’immaginario calatoci addosso ed elaborare – con la benedizione di Ersilia Rouy – immaginario di resistenza significa anche questo.