di Paolo Lago
Andrea Miconi, Epidemie e controllo sociale, manifestolibri, Roma, 2020, pp. 127, € 10,00.
Adesso che – come viene annunciato a gran voce dai media – sta per iniziare un nuovo periodo di lockdown, chiusure e restrizioni, con una estensione della cosiddetta “zona rossa” a tutta l’Italia, è sicuramente interessante riprendere in mano un pamphlet di Andrea Miconi uscito lo scorso novembre per “manifestolibri”, dal titolo Epidemie e controllo sociale. L’analisi offerta dal sociologo dei media, docente all’Università IULM di Milano, si focalizza soprattutto sul periodo di marzo-aprile 2020, il famigerato “primo lockdown” e prende in esame la rappresentazione dell’emergenza epidemica creata dai più svariati media, dalle televisioni ai giornali e a Internet, incentrata su uno specifico dispositivo di controllo sociale, la colpevolizzazione del cittadino. Tale dispositivo serve alla classe dirigente per nascondere le proprie, gravi responsabilità nella gestione dell’emergenza: impreparazione, incapacità organizzativa, mancanza delle infrastrutture sanitarie adeguate e via di seguito. Una tale deresponsabilizzazione della classe dirigente e una tale strategia di colpevolizzazione dell’altro – nota Miconi – non potrebbero funzionare se non nascessero, come una metastasi foucaultiana, all’interno del corpo sociale.
L’analisi dello studioso prende le mosse dal mantra, continuamente ripetuto e dotato di hashtag, “io resto a casa”. Dai media è stata fatta passare l’assurda idea che ci potesse essere qualcosa di bello nel restare reclusi in casa: secondo Miconi, “restare chiusi in casa per mesi non è né bello né brutto: è orribile”. Certo, non tutti possiedono appartamenti ampi e assolati, attici luminosi o enormi ville con giardino come i personaggi famosi che, per mezzo di ogni media, ci invitavano a restare a casa, “per il nostro bene”. E non tutto il tessuto sociale del paese è composto da famiglie felici stile “mulino bianco”: ci sono anche i single, i quali compongono ben un terzo dei nuclei domestici italiani (e alla cui categoria appartiene anche chi scrive questa recensione). Anche a loro “è stato chiesto di restare due mesi senza alcun contatto umano, cosa volete che sia”. Con il divieto di vedere gli amici, che spesso e volentieri sono considerati molto più importanti dei cosiddetti “parenti stretti”, ma con il permesso di vedere dei “congiunti” di cui non si hanno più notizie da anni e di cui magari si ignora anche l’esistenza. Qui si tratta “dell’arroganza totalitaria di uno Stato che (in modo palesemente incostituzionale, qui non c’è dubbio) vuole dirci chi possiamo vedere, anziché darci le regole da rispettare – come in tutta Europa – per incontrare chiunque vogliamo incontrare, e saranno anche affari nostri”. Come nota lo studioso, può darsi che l’isolamento fosse necessario, ma non c’era nessun motivo, da parte dei media, di farlo passare come una cosa bella. Mentre risuonava il mantra “io resto a casa”, numerose categorie di lavoratori erano costretti comunque a recarsi al lavoro, in luoghi dove probabilmente non c’era neanche la garanzia di far rispettare le distanze di sicurezza. Lo Stato si è dimostrato incapace di trattare i cittadini da adulti: tramite i mezzi di comunicazione, i suoi servitori, la classe dirigente ha trattato i cittadini come un mucchio di bambini viziati, chiusi a chiave in una stanza per non permettergli di mangiare la merendina. La necessità di rimanere a casa ha assunto anche risvolti più inquietanti: è stata presentata, cioè, come un dogma calato dall’alto, “senza chiederci il perché, accettando il mistero senza pretendere di capirlo”. Del resto, cosa c’è da stupirsi? Viviamo in un paese in cui Salvini ha pregato in diretta per la fine della pandemia e in cui l’ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, è un dichiarato devoto di Padre Pio. Viviamo veramente nella repubblica di “Assurdistan”, secondo una efficace espressione coniata dal collettivo di scrittori Wu Ming.
Un altro punto toccato da Miconi riguarda le dinamiche del populismo mediatico che vige in Italia. “Come si spiega – si chiede – che proprio il Paese dell’odio conclamato verso la Casta abbia finito per reggere il gioco alla classe dirigente, liberandola di ogni responsabilità, e scatenando la caccia selvaggia all’indisciplinato del piano di sopra?”. Molto probabilmente, da un punto di vista formale, emergono “sostanziali affinità tra la retorica del populismo e la volontà di colpevolizzazione dell’altro”. Una prima affinità risiede sicuramente nella “comune propensione a seguire l’emotività, ben più delle procedure razionali di argomentazione” mentre una seconda affinità può essere intravista nella “comune disposizione a mettere i propri pensieri al servizio dell’uomo al comando”. A ciò si aggiungono due tratti tipici del populismo: la divisione manichea del mondo in ragione e torto, in buoni e cattivi nonché la difficoltà di accettare opinioni divergenti dalla propria. Per uscire dalla crisi – suggerisce Miconi – bisogna smettere di prestar fede al regime spirituale di un sottile e strisciante populismo che vige nel paese. Bisogna, altresì, smettere di pensare all’Italia come a una “comunità”; bisogna invece pensarla come una società, fatta di donne e di uomini liberi.
Certo, la classe dirigente italiana non pensa davvero ai cittadini come una società fatta di donne e di uomini liberi. Con l’emergenza pandemica è infatti emersa la sovrastruttura di un gigantesco Stato di Polizia, il quale si è sostituito allo Stato di Diritto. A interpretare, ogni volta, le farraginose norme dei divieti, di cosa si poteva e non si poteva fare, sono state le singole forze dell’ordine. Di fronte a leggi e norme nebulose e contraddittorie a decidere sono stati, appunto, gli agenti di polizia chiamati a interpretare i motivi segnalati dai cittadini sulle autocertificazioni (e già il fatto che un cittadino sia chiamato a rispondere del perché è uscito di casa è di per sé inconcepibile, degno delle peggiori e più distopiche dittature). Oltre allo Stato di Polizia abbiamo vissuto uno stato di eccezione: la dichiarazione dell’emergenza viene utilizzata come uno strumento per la messa in disciplina del corpo sociale. Ancora una volta, i cittadini, che pretenderebbero solo chiarezza e rispetto, sono stati trattati paternalisticamente come bambini viziati invece che come persone adulte: negli stati europei, ad eccezione di Francia e Spagna (dove è stata usata per un periodo molto più breve), non è stata attivata una procedura simile alla nostra autocertificazione (pratica offensiva e umiliante nei confronti del cittadino). Come ricorda Miconi, il primo ministro portoghese António Costa “ha spiegato tutto questo in poche parole: vi chiediamo di stare il più possibile a casa ma non lo imponiamo per legge, perché sarebbe irrispettoso verso i cittadini. Ecco: la classe dirigente, per quanto mi riguarda, parla così”. Anche la chiusura prolungata delle scuole dimostra che “viviamo in uno Stato rappresentato dalla polizia più che dalla scuola: e sarà pure un caso, ma altri paesi europei ci stanno almeno provando, dimostrando di mettere l’istruzione pubblica davanti al resto”.
L’analisi dello studioso si concentra poi su una figura centrale del discorso mediatico: il virologo, divenuto una vera e propria star, anzi, addirittura una vera e propria nuova divinità. I virologi che sentenziano tutto e il contrario di tutto dai più svariati spalti, dal loro posto di lavoro al salotto televisivo, non hanno niente da invidiare ai “re taumaturghi” analizzati da Marc Bloch che, a partire dal Medioevo, ‘guarivano’ le persone con la sola imposizione delle mani. Anch’essi sono entrati pienamente a far parte della macchina della “società dello spettacolo” – per dirla con Debord – che vige dappertutto. La parola medica si è appropriata di campi di sapere non suoi, spaziando nelle più svariate discipline, nello stesso identico modo in cui agiva lo “sguardo clinico” analizzato da Michel Foucault.
Insieme al virologo, nel periodo dell’emergenza è emersa un’altra divinità, la App Immuni, a sua volta emanazione di un ‘dio’, se possibile, ancora più grande, la Rete. Infatti, è ormai acclarato che viviamo in un’epoca di internet-centrismo, tanto che il presidente del consiglio di amministrazione di Google ha dichiarato che presto Internet scomparirà perché sarà inseparabile dal nostro essere. L’emergenza, in questo senso, ha rappresentato un significativo processo di accelerazione del processo di digitalizzazione dell’esistenza, mediante la didattica a distanza affidata a piattaforme di un gigante dell’economia come Google, appunto, oppure mediante le più diverse pratiche di smart working o di piattaforme digitali, incluse quelle per il divertimento (dai videogiochi fino a Netflix). L’idea che accompagna la “App che salverà il mondo”, come nota Miconi, è quella di applicare anche da noi il modello sud-coreano: cosa del resto irrealizzabile perché “la soluzione coreana non si è basata solo su una App di geo-localizzazione, ma sul suo ruolo all’interno di una strategia complessiva che include la prevenzione del contagio, i tamponi mirati e non sparsi a caso tra la popolazione, l’isolamento immediato dei positivi, e il via libera a tutti gli altri – quanto di più diverso dalle indicazioni dei vari DPCM”. E poi, prepariamoci adesso all’arrivo di una nuova divinità conclamata (scaturita, come Atena dalla testa di Zeus, non dalle lobby del digitale ma da quelle della chimica farmaceutica), il vaccino che, come tutte le divinità, contemporaneamente ama e odia, protegge e distrugge i suoi fedeli adepti.
Insomma – conclude amaramente Miconi – è ormai evidente che “sulle macerie di questa emergenza, nel tempo a venire, potrebbero crescere modelli di controllo a cui non siamo preparati, e per prevenirlo è necessario promuovere la consapevolezza anziché la paura e la superstizione”. Il controllo viene presentato mascherato da paternalismo e da benevolenza e “non c’è immagine distopica più cupa, davvero, di quella di uno Stato che parla a nome della salute dei cittadini”. Tra l’altro, alla macchina statale è sfuggito un dettaglio: che le persone non vivono soltanto per lavorare. Davvero, “rinvio dopo rinvio, DPCM dopo DPCM, si è invece dato per scontato che il problema fosse solo il rientro al lavoro, e non la libertà della persona e il diritto di prendere il sole, salutare gli amici, guardare il tramonto, e mandare i ragazzi a scuola”.
Come accennato all’inizio, leggere adesso il pamphlet di Miconi è doppiamente interessante: innanzitutto, per riflettere su ciò che abbiamo vissuto ma, anche, per guardare in modo lucido a ciò che stiamo ancora vivendo. Se il volumetto è uscito a novembre 2020, adesso ci troviamo a marzo 2021 e la situazione sembra ancora la stessa di un anno fa. E non è colpa dei cittadini irresponsabili, né del virus in sé, ci mancherebbe, ma dell’inettitudine di un’intera classe dirigente. Possibile che non si siano trovati altri mezzi, dopo un anno, per contrastare l’avanzata del virus? Possibile che i mantra siano sempre gli stessi? È colpa dei cittadini, dobbiamo chiuderci in casa (ripetendo all’infinito l’odiosissima parola “lockdown”), dobbiamo chiudere le scuole consegnando un’intera generazione di adolescenti a irrimediabili ansie e depressioni. Ecco, se già ci ponessimo queste domande, avremmo raggiunto un grado di lucidità e di consapevolezza per iniziare ad essere una vera società fatta di donne e di uomini liberi.