di Emilio Quadrelli
Tutto ciò ha degli effetti non secondari e in tale scenario, per gli esclusi, non sembrano offrirsi molte soluzioni. Chi, nel grande gioco del capitalismo globale, si ritrova tra le mani una scala bucata può solo, se la sorte glielo consente, provare a cambiare tavolo di gioco e confidare in un colpo di fortuna mai ipotizzare la fuoriuscita dalla sua condizione in maniera collettiva. L’unica strategia sensatamente realistica diventa l’arte di arrangiarsi. Per restare nel panorama italiano ciò si riduce, tanto per fare qualche esempio, a un invito al Grande fratello, entrare nell’entourage di Palazzo Grazioli o, magari dopo essere scampati alla morte in fabbrica, diventare parte dello show parlamentare. In tale contesto, entrare a far parte del grande spettacolo della politica, rappresenta una fortuna non diversa da una corposa vincita alla lotteria, un’occasione che, nella migliore delle ipotesi, nella vita può capitare una volta soltanto.
Queste le uniche e concrete strade perseguibili per i socialmente esclusi. Dentro le strettoie di questo passaggio altre vie non ve ne sono. Fuori dalla prospettiva della Storia sono Ruby e non Zohra1, Fedez e non Ali la Ponte2 a dettare i tempi e i modi dell’emancipazione. Ma che cosa caratterizza tutto ciò? Sostanzialmente una cosa: la dimensione puramente individuale, e quindi del tutto contingente, dell’esistenza. Fuori da un corpo e un “destino” storico e collettivo non vi sono alternative. Ora, al di là di tutte le retoriche che si possono utilizzare per indicare un destino collettivo, un solo passaggio rende realmente storico e collettivo un progetto: la conquista del potere politico e il farsi classe dominante3. Tutte le altre forme di esistenza collettiva, per loro natura, non possono che risultare effimere e prive di ricadute sostanziali.
È possibile essere catturati collettivamente dal pathos per la propria squadra del cuore, cadere in estasi collettivamente sotto le note di una sinfonia particolarmente cara o di un sound accattivante, si può praticare il “patriottismo di quartiere” o legarsi allo stile di vita di una gang condividendone oneri e onori ma tutto ciò, alla prova dei fatti, non emancipa di una virgola la condizione di fondo4. Solo il farsi classe storica consente di squarciare il velo alla prosaicità del presente. Solo il farsi classe dominante consente di guardare negli occhi il mondo senza perdersi nelle anguste, per l’intera vita, prospettive condominiali. Un intera arcata storica, nel bene e nel male, è stata informata da tale scenario.
I proletari, gli operai, i subalterni delle epoche che ci hanno precedute non percepivano se stessi come esclusi, marginali, socialmente delegittimati e via discorrendo ma parti di un tutto che, alla scala della storia, rivendicava una legittimità storica e politica oggettivamente determinata. Il comunismo e il potere operaio come tendenza storica non negoziabile era qualcosa che stava dentro la realtà delle cose. Contro questo, il potere imperialista, poteva solo, a ben vedere, giocare di rimessa conscio in qualche modo che, offensive tattiche a parte, sul piano strategico la sua non poteva che essere una posizione di ripiego e difesa. Il detto del vecchio Keynes: “Sui tempi lunghi siamo tutti morti”, rendeva in qualche modo esplicita la convinzione della borghesia di stare combattendo una battaglia di retroguardia, il cui fine non era altro che trascinare il più a lungo possibile lo stato di agonia.
In tale ottica l’affermazione: “L’imperialismo è una tigre di carta” era qualcosa di ben più che un modo per rincuorare gli effettivi di un Esercito rosso in via di ricostituzione bensì l’affermazione di una “certezza storica” che poggiava su fatti difficilmente contestabili. Se guardiamo all’intera storia del Novecento, e in particolare ai decenni Sessanta e Settanta, il senso di tale affermazione appare persino banale. Ma dietro a tutto ciò che cosa c’era? Un inguaribile ottimismo?, Un eccesso di alcool?, Una malcelata volontà di potenza?, oppure, più realisticamente, tutto ciò poggiava su un’idea – forza, quella della lotta per il comunismo, che aveva plasmato intere generazioni operaie e proletarie e che, con la vittoria dell’Ottobre, aveva posto, non più teoricamente ma praticamente, all’ordine del giorno la dimensione storica del proletariato?
Di ciò, non stupidamente, ne erano ampiamente consapevoli i quadri migliori delle varie borghesie imperialiste. La lotta contro lo spettro rosso del potere operaio e proletario diventa l’alfa e l’omega del comando capitalistico internazionale. Sotto questo aspetto, tanto per fare degli esempi concreti, la Guerra del Vietnam5 e la Guerra d’Algeria6 ne sono state la migliore cartina tornasole. Sotto la bandiera dell’anticomunismo tutte le forze imperialiste, pur se a diversi gradi, si sono ritrovate unite su quel campo di battaglia7.
Verrà da domandarsi che cosa, tutto ciò, abbia a che vedere con la presente questione dell’esclusione sociale. Perché questi continui richiami a una storia della quale, obiettivamente, si fa persino fatica a ritrovarne traccia tanto che, il solo parlarne, sembra accomunarci a quella massoneria dell’erudizione inutile della quale, la storia europea, vanta una corposa tradizione8? In realtà, nel contesto, ci troviamo di fronte a qualcosa di ben poco massonico, erudito e ancor meno inutile. In palio, infatti, vi è la questione del marxismo e del suo essere idea – forza. Che cosa occorre, andando al dunque, alle masse dei dannati delle metropoli contemporanee? Attraverso quali passaggi diventa possibile, sensato e realistico modificare i rapporti di forza attuali tra le classi? Partiamo, intanto, con il riconoscere che tutte le illusioni e gli abbagli coltivati, in primis dall’intellighenzia modernista della sinistra, hanno fatto repentinamente bancarotta e che, non per caso, si assiste a un ritorno a Marx. Allo stesso tempo la questione dell’organizzazione, non nelle sue derive effimere e plastificate, torna a essere oggetto di interesse e ragionamento politico. In qualche modo persino Lenin riprende ad albeggiare tra gli orizzonti dei movimenti antagonisti9.
“I fatti hanno la testa dura” e alla fine diventa difficile eluderli come se nulla fosse. Proprio dentro questa possibile renaissance occorre però non farsi prendere dagli eventi o dagli entusiasmi e usare sino in fondo le armi della critica evitando facili scorciatoie insieme alle inevitabili semplificazioni che queste si portano appresso. Occorre, questo il compito di chiunque si pensi come avanguardia, mettere il marxismo alla prova dei tempi evitando in tal modo di ridurlo a dogma e a vuoto esercizio accademico.
Detto ciò, torniamo al nostro tema. Una facile, ovvia e certamente sensata risposta alla condizione di classe contemporanea è quella che porta a identificare nella ri-costruzione dell’organizzazione di classe nella forma partito e nel “restauro” del marxismo le necessità primaria degli attuali dannati delle metropoli.. La risposta è corretta ma, per non cadere in un facile quanto inconcludente “organizzativismo” e dottrinarismo senza costrutto, occorre riempire di carne e sangue questo passaggio al fine di non trasformare la prima in semplice questione “tecnica”, la seconda in mera operazione “scolastica”. La carne e il sangue di ogni organizzazione proletaria è data solo e unicamente dalla prospettiva politica che è in grado di far vivere dentro le lotte. Ogni lotta parziale, ogni lotta settoriale, ogni piccolo conflitto metropolitano, ha senso se inserito in una prospettiva se ogni lotta, ricordando Lenin, è una “scuola di guerra”. Una guerra non indifferenziata e indistinta ma una guerra che, grazie alla sintesi del “politico” o, per essere maggiormente chiari, dell’elemento soggettivo è in grado di sedimentare organizzazione e, con questa, forza politica autonoma della classe10.
In assenza di una prospettiva storico – politica ossia di una dimensione che ponga, in via definitiva, la questione del potere politico e la sua conquista è impensabile che l’orizzonte delle masse possa forzare l’ordine dello stato di cose presenti. Una volta compiuto tale passaggio, almeno in apparenza, tutto sembrerebbe diventare persino banale e in virtù di ciò il semplice “restauro”del marxismo esserne, al contempo, corollario e premessa. Ma per condurre con efficienza ed efficacia un tale compito è necessario, per prima cosa, capire dentro quale scenario si sta agendo11.
Certo una ripresa di una certa “didattica di classe”, a fronte dello scempio teorico conosciuto negli ultimi venti, trenta anni è un’impresa di per sé meritoria ma sarebbe altrettanto ingenuo pensare che un tale passaggio, di per sé, possa presentarsi risolutivo. Si tratterebbe, in qualche modo, di ricadere in un’operazione “culturalista”12, magari tramite la riscoperta del non troppo felice intellettuale organico di gramsciana memoria13, attraverso la quale riuscire nuovamente a far quadrare il cerchio.
Una tentazione che oggi, in seguito ai reiterati fallimenti e disastri a cui è pervenuta l’insieme della sinistra, conosce una certa diffusione. Si tratta di un’operazione che, per quanto comprensibile, ha ben poco di marxista. Non è certo attraverso l’artifizio del mito che la teoria comunista, in quanto unità dialettica di teoria e prassi, può realisticamente assolvere ai compiti del presente. Non è guardando indietro, andando alla ricerca di una, per altro improbabile, età dell’oro che si rende un qualche servizio utile alla classe. Da sempre, e in ciò il “metodo leniniano” è in grado di raccontare ancora molto, lo scopo e la funzione del marxismo consiste nel porre l’organizzazione della classe, escludendo ogni volo pindarico dentro la “concretezza” del presente14.
Allora, per tornare al filo conduttore del nostro discorso, la questione dell’esclusione sociale può e deve essere compresa dentro lo scenario del presente avendo a mente i passaggi che hanno caratterizzato l’attuale fase imperialista. Se, come ormai anche gli ipovedenti sono in grado di osservare, per l’organizzazione statuale imperialista il problema di fondo consiste nell’escludere le masse ben poco sensato appare il riproporre modelli politici e organizzativi di un’epoca in cui, con tutte le contraddizioni che pure si portava appresso, il tema dell’inclusione politica e sociale dei subalterni rimaneva un obiettivo di non secondaria importanza per le stesse classi dominanti.
La vera sfida che oggi la teoria marxista deve affrontare è la formulazione di una soggettività in grado di misurarsi con gli scenari del presente. Affermare che la Storia non è finita e che le contraddizioni del modo di produzione capitalistico non si sono esaurite anzi sono sempre più macroscopiche e devastanti è un passaggio importante ma ancora insufficiente. Tutto ciò può portare a riaffermare, e non si tratta ovviamene di cosa da poco, dell’esistenza del partito storico del proletariato15 ma questa, se è la condizione al contempo preliminare e indispensabile per ogni possibilità di ragionamento su organizzazione e partito, è altresì lontana dal risolvere il problema poiché non è attraverso la semplice restaurazione di un corpo teorico classico che diventa possibile venire a capo delle sfide del presente. L’esergo, in realtà l’incipit, posto a fronte del testo ha ben poco di casuale e ancor meno di “rituale” o ossequioso. Il richiamo a quel fondamentale passaggio del Manifesto è posto perché obbliga a guardare avanti e ad avere il coraggio di leggere, per potere conseguentemente agire, le rotture alle quali, nel suo divenire, il modo di produzione capitalista impone.
(fine terza parte – continua)
Zohra Drif, militante del FLN algerino, fece parte dei primi commando operativi femminili entrati in azione nel corso della “Battaglia d’Algeri”. Fu lei a compiere, il 30 settembre del 1956, l’attentato contro il Milk – Bar di place Bugeaud di Algeri uno dei più noti ritrovi della gioventù pieds – noirs. Fu catturata il 24 agosto 1957 insieme al responsabile del FLN di Algeri Yacef. Cfr. A. Horne, La Guerra d’Algeria, Rizzoli, Milano 2007 ↩
Ali – la – Pointe, militante del FLN algerino. Cresciuto tra i mondi dei marginali della casba di Algeri in carcere, a Barberousse, a stretto contatto con i militanti effellenisti imprigionati si politicizzò. Evaso nel corso di un trasferimento a un’altra prigione, tornò nella casba non più come marginale ma quadro politico – militare del FLN. La mattina del 28 dicembre 1956 portò a termine la sua prima missione militarmente rilevante uccidendo il sindaco di Algeri Amédée Froger. Cadde l’8 ottobre 1957 nella fase finale della “Battaglia d’Algeri” insieme a Hassiba Ben Bouali e al dodicenne “Petit Omar”. L’abitazione che serviva loro da rifugio e base operativa del FLN venne fatta saltare per aria dai paracadutisti del 1 R. E. P.. Con loro trovarono la morte altri 17 algerini le cui case, situate nelle immediate vicinanze del rifugio di Ali – la – Pointe, saltarono in aria insieme a questa. Cfr. A. Horne, La Guerra d’Algeria, cit. ↩
Su questo aspetto decisivo della teoria marxista si veda V. I. Lenin, “Stato e rivoluzione”, in Id., Opere, Vol. 25, Editori Riuniti, Roma 1967. ↩
Significativo, al proposito, sono l’insieme di retoriche sorte intorno alle subculture metropolitane e agli “stili di vita” a queste annesse come unico e legittimo orizzonte delle classi sociali subalterne. Per una discussione su questi temi, cfr. E. Quadrelli, “Il nodo di Gordio. Per una lettura politica della “questione stadi”.”, in AA. VV., Stadio Italia, cit. ↩
Tra i molti testi che ricostruiscono questa vicenda si vedano, S. Karnow, Storia della guerra del Vietnam, Rizzoli, Milano 1989; M. B. Young, Le guerre del Vietnam, Mondadori, Milano 2007. ↩
Oltre al ricordato lavoro di Horne si può vedere, molto sintetico ma molto esplicativo, B. Stora, La guerra d’Algeria, Il Mulino, Bologna 2009. ↩
Cfr. C. Schmitt, Teoria del partigiano, Adelphi, Milano 2005 ↩
Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit. ↩
Si veda ad esempio, G. Roggero, La misteriosa curva della retta di Lenin. Per una critica dello sviluppo del capitalismo oltre i beni comuni, La Casa Usher, Firenze 2011 ↩
Per una discussione su questi temi si veda, E. Quadrelli (a cura di), Lenin. Il pensiero strategico. Il partito, il combattimento, la rivoluzione, La Casa Usher, Firenze 2011. ↩
Ciò che va sempre tenuto ben a mente è il contesto all’interno del quale si opera, Sotto tale aspetto il testo di V. I. Lenin, “Lo sviluppo del capitalismo in Russia”, Opere, Vol. 3, Editori Riuniti, Roma 1956 rimane una delle migliori esemplificazioni della metodologia marxista. È sulla base di questo lavoro analitico, che rompe il quadro concettuale del presente che lo circonda, che Lenin mette a punto le coordinate per la costruzione del partito operaio. Lenin può costruire il partito perché coglie esattamente il divenire storico e non si sclerotizza su un passato che, per quanto quantitativamente ancora consistente, appartiene già alla storia di ieri. ↩
In poche parole non è pensabile di risolvere l’insieme dei problemi politici contemporanei facendo ricorso a dei semplici “corsi di formazione”. I “corsi di formazione”, di per sé, possono risultare esaustivi per i maestri ma non per i rivoluzionari di professione, ciò che va costantemente tenuto a mente è il rapporto dialettico tra teoria e prassi. Su questo aspetto rimane importante G. Lukács, “Che cos’è il marxismo ortodosso?”, in Id., Storia e coscienza di classe, cit. ↩
Proprio intorno alla figura e alla funzione dell’intellettuale sembra delinearsi al meglio la distanza tra Gramsci, dove le reminescenze idealistiche hegeliane, per di più rimasticate da Croce, fuoriescono in continuazione e Lenin per il quale ogni figura sociale, quindi anche l’intellettuale, è centralizzato e diretto dall’agire di partito. Lenin, che non a caso, applicando appieno alla dimensione politica lo sviluppo del pensiero militare, modella il partito come “Quartiere generale” non concede agli intellettuali alcun status particolare. Riconosce, ma questo è vero e valido per ogni ambito sociale, le peculiarità e le particolarità che necessariamente questo si porta appresso ma, in quanto tale, tali peculiarità non diventano foriere di uno status particolare. Certo, il partito, in quanto organismo professionale, metterà a frutto al meglio le competenze di ciascuno e, in virtù di ciò, è assai probabile che l’intellettuale si occupi, per il partito, di alcune cose piuttosto che di altre ma tutto ciò, questo è il punto decisivo in Lenin, sempre subordinando tali attività alle necessità strategiche del partito. In Gramsci, al contrario, l’intellettuale, in quanto tale, è rivestito di un ruolo, e quindi di una autonomia rispetto al partito, che ricorda non poco le argomentazioni proprie della frazione menscevica. Per una critica serrata di queste ipotesi si veda, V. I. Lenin, “Che fare?”, in Id. Opere, Vol. 5, Editori Riuniti, Roma 1958 ↩
Cfr. E Quadrelli, (a cura di), Lenin, cit. ↩
Con partito storico Marx, ad esempio negli scritti sulla Comune, K. Marx, “La guerra civile in Francia”, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti 1969, indica la formazione del proletariato in quanto classe storico-politica. Una sorta di “articolazione pratica” di quanto, sul piano concettuale, era stato cesellato nel lungo travaglio che porta Marx dall’idealismo hegeliano, passando per l’umanesimo di Feuerbach, alla messa a punto del materialismo storico e dialettico i cui presupposti sono ampiamente delineati in F. Engels, K. Marx, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1971. Si tratta, cioè, dell’individuazione del proletariato come classe che, per la prima volta, nel divenire storico è in grado di far coincidere il suo interesse particolare con l’interesse generale. L’emancipazione del proletariato, quindi, coincide con l’emancipazione dell’umanità. Affermare il persistere del partito storico significa riconoscere che il senso della storia non è compiuto, atto importante ma che è ben lungi dall’offrire soluzioni alle questioni dei tempi le quali non possono che essere affrontate attraverso la messa in forma del partito formale. Glissare sulla questione del partito formale, confidando nell’esistenza del partito storico e della sua “oggettiva” potenza, significa ricadere nel più gretto movimentismo e spontaneismo. Con ogni probabilità, la teoria delle moltitudini, cfr. M. Hardt, A Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano 2004, rappresenta la più sofisticata ed elaborata teoria contemporanea alla cui origine vi è la scissione radicale tra partito storico e partito formale. Riaffermare, nel presente, la necessità del partito formale, combattendo le diversificate posizioni liquidazioniste non è un vezzo di ortodossia ma uno dei compiti politici essenziali del movimento comunista. ↩