«Exist, resist, decolonize and indigenize», è questo il grido di Michelin, attivista indonesiana del Coordinamento giovanile delle comunità territoriali contro il cambiamento climatico; uno slogan che in quattro semplici concetti riassume perfettamente il portato del lungo dibattito internazionalista che si è tenuto durante la prima giornata del Social Climate Camp di Torino.
«Esistere, resistere, decolonizzare e “indigenizzare”» le pratiche quotidiane e le lotte, è l’invito che arriva come una ventata di aria fresca in una torrida mattinata estiva a chi ha ascoltato per quattro ore serrate gli interventi e il racconto di diverse esperienze di lotta in giro per il mondo.
Alla stanchezza e alla desolazione, immediata e silenziosa conseguenza di due anni di pandemia, si è contrapposto quel continuo fiorire di resistenze e rivoluzioni: ovunque ci sono corpi ed esperienze che non solo si oppongono al neoliberismo e alle sue politiche di morte, ma costruiscono saperi, modi di vita e di organizzazione radicalmente anticapitalisti.
In un’Europa segnata da crisi multiple e simultanee, la capacità dei movimenti sociali di avere un impatto è messa sempre più spesso a dura prova. Come si struttura una collettività/comunità all’interno di un processo rivoluzionario? Cosa la rende un modo radicalmente trasformato di organizzazione sociale?
Un modo per cercare di evidenziare i punti di contatto, le convergenze e le similitudini rispetto alle rivoluzioni in atto in tutto il mondo, interrogandosi su quali aspetti insistono e come possono rappresentare gli snodi principali degli immaginari di nuova vita collettiva.
A dieci anni dall’inizio della rivoluzione in Kurdistan, e con una nuova minaccia di invasione turca alle porte, che non è solo una guerra con le armi ma contro la natura con la distruzione di fonti di acqua, uso di armi chimiche, ci ritroviamo davanti all’ennesimo esempio di colonialismo che si esemplifica immediatamente in privazione e distruzione della vita.
Paul, un heval del Kurdistan Democratic Modernity Academy – un progetto internazionalista e federalista che fonda la sua elaborazione teorica dall’esperienza del Kurdistan – delinea come il Kurdistan abbia subito negli anni diversi livelli di colonizzazione da parte di vari stati nel corso della sua storia: ora la Turchia, prima ancora l’Iran, l’Iraq e la Siria. A questo fa da contraltare lo spirito del confederalismo democratico, che mette in evidenza come il socialismo non possa essere raggiunto da uno stato nazione; se è vero che il problema è partito dalla colonizzazione delle donne, dei territori e dei popoli che li abitano questo non può che essere risolto con la riscoperta di nuove forme di gestione e convivenza che riflettono pratiche, in realtà, ben più solide e precedenti alla formazione dello stato nazione.
L’idea del confederalismo democratico – in sostanza – si riassume nella capacità di molte diverse realtà religiose, sociali ed economiche di convivere in un contesto politico in cui le differenze non sono ignorate.
Dall’altra parte del globo, in Messico, sono circa 68 le popolazioni originarie che ancora abitano il Paese e vi resistono.
Parliamo di un contesto – quello messicano – che si posiziona al secondo posto – anticipato solo dall’Afghanistan – per l’assassino di giornalisti e al primo posto per attiviste e persone trans assassinate. Ogni giorno vengono uccise undici donne. Novanta gli assassinii al giorno, la maggior parte per la guerra al narcotraffico che ha ucciso trecentomila persone e fatte sparire altre centomila. La guerra al narcotraffico è legata alla crisi per le risorse, non è una vera guerra al narcotraffico ma un’operazione di matrice estrattivista promosso da USA, Canada ed Europa in collaborazione con il governo messicano. Con il pretesto della protezione del territorio si militarizzano intere aree, cacciando chi le abita.
Per fare un parallelismo, Migùel Angel, attivista climatico di Città del Messico, racconta come anche vivere nella capitale implichi subire discriminazioni. Una città enorme con più di venti milioni di persone, formata da quartieri ben distinti, alcuni molto occidentalizzati, altri dove precarietà e marginalizzazione regnano sovrane.
Allo stesso tempo però è fondamentale stare attenti a non replicare il sistema colonizzatore da chi in città guarda alle campagne; un problema che non è tanto distante però nemmeno dalle realtà ecologiste nate da contesto europei, che secondo Migùel hanno fatto più danni che altro, operando manovre di razzismo e feticizzazione dei popoli indigeni, invece che agire per ricordare la storia e costruire alleanze. Questo succede quando i movimenti sono controllati da grandi organizzazioni che si appropriano anche della comunicazione e non parlano di lotte territoriali.
A questo sentimento di decrescita e comunalizzazione contro stato e sistema capitalista, fa eco Nancedalia Ramìrez Domingo – Movimento Juventud Mexico, in Guerrero, che durante il suo intervento sbugiarda il sistema colonialista – il quale prevederebbe la separazione tra uomo e natura e espropria territori alle persone per questo scopo – ricordando invece che ci devono essere persone che conservano la natura, dal momento che il futuro dell’umanità richiede un governo locale del territorio affidato alle popolazioni indigene ed originarie.
Spostandosi più a Sud, arrivando al Sahara Occidentale – che è l’ultima colonia in Africa che è attualmente sotto il controllo del Marocco – arriva la voce di due attivisti della “Gioventù rifugiati Sarawi”, una minoranza nel Maghreb che invitano a essere megafono della loro lotta, aiutandoli a potersi esprimere al di fuori della di quel contesto di repressione che invece la popolazione saharawi vive.
Come decolonizzare – quindi – nella pratica le forme di solidarietà internazionalista? A questa domanda prova a rispondere Lorenzo Faccini, dell’Associazione Ya Basta! Êdî Bese! che ricorda che quando la solidarietà non fine a sé stessa (reiterando quindi logiche di dominazione), ma subordinata alla creazione di reti e legami tra coloro che portano avanti nei propri territori la resistenza al modello, allora può creare rapporti di collaborazione virtuosi.
Il punto principale è riconoscersi simili di fronte al nemico comune (Hydra capitalista) e costruire nelle proprie geografie contropotere, erodendo legittimità alle istituzioni e se come ci insegnano anche i popoli che abitano in Kurdistan lo “stato nazione” vive in una fase di totale deriva neoliberista, allora bisogna avere la capacità di avviare una nuova fase storica che richieda una rinnovata elaborazione di pensiero che superi la categoria stato/nazione, rifiutando la reclusione in una unità etnica, linguistica e culturale.
Sovradeterminazione o dominazione culturale sono dei tranelli dietro l’angolo, che possono venire facilmente elusi solo se si ha la costante attenzione e cura di evitare di interpretare e sovrapporre parole e contenuti che arrivano dall’esterno, plasmandoli a servizio dell’Occidente.
** Pic Credit: Giacomo Longo