Essere brace sotto la cenere

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di Vittorio Agnoletto (medico, presentatore per l’Italia della petizione europea “Diritto alla cura, nessun profitto sulla pandemia”)

Nel 2001 ero il presidente della LILA (Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids); ci battevamo per il diritto alla cura, all’accesso alle terapie, per un’assistenza sanitaria universale, fornivamo supporto psicologico alle persone sieropositive e alle loro famiglie.

Da quattro anni coordinavo anche la campagna europea per l’accesso ai farmaci al fianco del Sudafrica, un Paese con il 30 per cento della popolazione femminile, tra i 14 e i 40 anni, sieropositiva all’HIV; il presidente Mandela di fronte ai prezzi proibitivi degli antiretrovirali e all’impossibilità di trovare un accordo con le multinazionali del farmaco, autorizzò le aziende sudafricane a produrli. L’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC-WTO), accogliendo le proteste di Big Pharma, che difendeva i propri brevetti, obbligò il Sudafrica a fare marcia indietro.

Sono passati vent’anni e sto coordinando la campagna europea “Diritto alla cura. Nessun profitto sulla pandemia” www.noprofitonpandemic.eu/it per l’accesso universale ai vaccini e, come allora, da un lato ci sono un pugno di aziende, l’OMC e la logica del profitto, dall’altra parte 7,8 miliardi di persone e l’idea della salute come bene comune.

Sono molte le tematiche sollevate 20 anni fa ancora attualissime: proprietà intellettuale, libera circolazione dei migranti, militarismo, diseguaglianze, violenze di genere, crisi climatiche, diritti umani, erano state approfondite e strutturate in campagne che oggi sono ancora all’ordine del giorno.

Le associazioni della cooperazione internazionale confliggevano con il Fondo Monetario Internazionale, che, attraverso i piani di aggiustamento strutturale, condizionava i prestiti ai Paesi del sud del mondo alla realizzazione di pesanti tagli alla sanità pubblica e all’istruzione. Nello stesso tempo la Banca Mondiale interveniva in ambito sanitario, con l’obiettivo di sviluppare la sanità privata.

Tantissime realtà attive nel settore agricolo costruivano progetti concreti che, attraverso una “filiera corta”, fossero in grado di attivare un rapporto stretto tra produzione e consumo, in contrapposizione con le multinazionali che utilizzavano gli Ogm e privilegiavano le monoculture. Anche qui lo scontro era ed è con l’OMC che, mentre permette all’UE di finanziare le grandi aziende europee del settore, impedisce ai Paesi africani di proteggere, attraverso i dazi, le loro colture.

Associazioni che agivano in campi molto diversi uno dall’altro e lavoravano su temi specifici, compresero che, per ottenere risultati, dovevano imparare a lavorare insieme ad altri: avevamo gli stessi avversari, ci scontravamo con i medesimi interessi economici e con la medesima logica di dominio: nacque una convergenza e una piattaforma comune. Individuammo nei “G8”, i rappresentanti delle nazioni più potenti, il luogo politico da contestare. Così nasce il GSF, Genoa Social Forum, dove le decisioni vengono assunte per consenso e dove 1300 realtà di tutto il mondo, delle quali quasi mille italiane, imparano a lavorare insieme facendo confluire i mille rivoli delle loro differenti storie. “Voi G8 noi 6.000.000.000”

Altro che “No global”! Eravamo il primo movimento globale della Storia. Genova vuol dire anche Seattle, Porto Alegre, Forum Sociale Mondiale. Un movimento fortemente propositivo che contestava “questa” globalizzazione in nome di un’alternativa altermondialista.

I potenti della terra impauriti dell’impetuosa crescita di un movimento che da Seattle, novembre 1999, si diffonde in tutto il pianeta, organizzano la repressione. Praga  settembre 2000,  Napoli marzo 2001, e infine quel luglio di Genova: migliaia di persone pacifiche picchiate, Carlo Giuliani ucciso,  “macelleria messicana” alla scuola Diaz, torture a Bolzaneto, menzogne sottoscritte nei verbali da alti dirigenti di polizia, prove false costruite ad arte come le molotov collocate nella scuola Diaz….

Successivamente i tribunali ricostruiranno l’accaduto, verrà riconosciuta la tortura (reato allora non previsto in Italia); saranno condannati vari dirigenti di polizia, anche ai massimi livelli, ma nessuno di loro farà un solo giorno di carcere. Molti reati di piazza non saranno mai discussi davanti ad un giudice, non ci sarà alcun processo per l’uccisione di Carlo Giuliani.

Il Genoa Social Forum dura fino al 15 febbraio 2003 quando -nonostante le immense manifestazioni di massa- scoppia la guerra dell’Iraq. È il segnale che l’esperienza era finita. Con l’inizio del conflitto il movimento perde la sua unità, il suo bene più prezioso, il suo punto di forza; la repressione di piazza è stata accompagnata da una non meno forte delegittimazione mediatica alla quale ha partecipato la quasi totalità dei media mainstream.

Il movimento non è scomparso, si è inabissato, è brace sotto la cenere; rimane carsico per dieci anni, ma riemerge nel 2011 coi referendum per l’acqua pubblica e contro il nucleare, che rilanciano i “beni comuni”, concetto elaborato nel 2001 dal movimento dei movimenti.

In Occupy Wall Street ritroviamo la critica alla finanza che divora e sostituisce l’economia reale. Le tematiche ambientaliste anticipate a Genova da Walden Bello, sociologo fondatore di Focus on the Global South (“La crisi è relativa al capitalismo e alla sua tendenza a trasformare ogni risorsa in un prodotto da vendere, un sistema antitetico all’interesse della biosfera. La crisi dei cambiamenti climatici si è acuita drasticamente e la contrapposizione tra economia capitalista ed ecologia è evidente ..”), vengono riprese e approfondite da Fridays for Future.

Black Lives Matter attualizza le tematiche del corteo in solidarietà dei migranti del 19 luglio 2001.

I protagonisti della lotta per la casa a Barcellona, del movimento degli Indignados, di Podemos e SYRIZA hanno attraversato le giornate di Genova 2001.

Mai come oggi c’è un gran bisogno di costruire momenti di convergenza. La pandemia è una cartina tornasole: è il prodotto di un modello di sviluppo, che ha travolto tutto e non ha lasciato fuori nessuno.

La pandemia di Covid-19 è stata imprevista, ma non era imprevedibile. Altri virus, nel recente passato, erano transitati dagli animali selvatici agli esseri umani provocando epidemie limitate ad alcune regioni del pianeta.

Virus, abituati a convivere da secoli con i loro ospiti, entrano in contatto con altri animali, con uomini e donne: equilibri ancestrali si spezzano; fra disboscamenti, allevamenti, urbanizzazioni incontrollate schizzano fuori agenti patogeni incontrollabili.

Il mondo come mercato globale appare sempre più come uno spazio segnato da profonde ingiustizie, da spazi di libertà sempre più ridotti e da un tragico e incipiente destino.

Il capitalismo digitale ha accentuato la polarizzazione oligarchica in atto da decenni.

Il capitalismo dei Big Data ha esteso la mercificazione della vita digitale approfittando della diffusa ignoranza su questo mondo e sulle sue sfuggenti logiche. I dati personali, i percorsi di navigazione in rete, le ricerche compiute, i contatti stabiliti e i consumi sono una nuova materia prima, che viene estratta, accumulata e trasformata in profitti enormi (venduti per campagne di manipolazione personalizzate) in cambio di modesti servizi in apparenza gratuiti: app, casella di posta elettronica, sito, social network.

I GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) e le piattaforme proprietarie vendono gratis le nostre abitudini per organizzare campagne commerciali e politiche personalizzate.

Questa è la vera novità rispetto a venti anni fa: commercio e finanza etica devono evolversi anche verso un uso non mercificato delle reti sociali, rivendicando la trasparenza degli algoritmi che decidono sulle nostre vite e una sorta di proprietà comune dei Big Data.

I cambiamenti veri e duraturi viaggiano necessariamente su due gambe: da una parte le scelte collettive, compiute per via democratica, in grado di incidere sui grandi numeri dei consumi e delle produzioni; dall’altra parte le condotte individuali, in coerenza con gli obiettivi generali e come forma di cittadinanza attiva, indispensabile per ottenere risultati concreti.

Un altro mondo è possibile dicevamo allora.

Oggi chiunque guardi con occhi onesti il mondo che ci circonda, non può che unire la sua voce alle nostre: “Un altro mondo è (urgentemente) necessario.”

Photo credits: feltrinelli.it

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 47 di luglio-agosto 2021:  “20 anni di lotta e di speranza

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