Essere è difendersi

Di Roberto Pecchioli, ereticamente.net

Essere è difendersi. È la frase simbolo di Ramiro De Maeztu, poeta e scrittore spagnolo della cosiddetta Generazione del 98, fucilato senza processo nel 1936 dalla fazione repubblicana durante la guerra civile. Morendo assassinato disse ai suoi aguzzini: “voi non sapete perché mi uccidete, ma io so perché muoio: perché i vostri figli siano migliori di voi. “Non è andata così: meno violenti materialmente, ma indifferenti, conformisti, flaccidi. Così ci hanno voluto e la missione dei distruttori è perfettamente riuscita. Essere è difendersi nel senso di conservare l’autonomia del pensiero, la fortezza dell’animo, la dignità e la libertà, ma anche l’orgoglio di proteggere se stessi, la propria famiglia, la propria gente, le proprie cose.

Vietato, come tante altre cose che attengono al senso dell’onore, alla dimensione etica, spirituale e verticale della vita. Sono le riflessioni che facciamo dinanzi ai sempre più numerosi episodi in cui chi difende se stesso da criminali ed assassini diventa l’imputato, il cattivo al posto di chi ha attaccato vita, affetti, averi del malcapitato. Accade anche ai poliziotti, sul banco degli imputati per avere fermato – proteggendo la comunità – la violenza armata di mascalzoni multietnici. Difficile, sul tema, non dare ragione a chi parla di mondo al contrario. Il nostro modello – lo diciamo fieramente – è il padre che, con i figli, difende la sua casa e le donne della famiglia – madri, figlie, sorelle, sposa – da viola il suo territorio, che è anche il suo tempio interiore. Nulla a che fare con l’omarino piagnucoloso (dis)educato sin dall’infanzia ad abbozzare, tollerare l’intollerabile – tolleranza, la virtù delle civiltà al tramonto – delegare le sue responsabilità, debole in quanto senza principi.

Sentimenti che riaffiorano leggendo le reazioni isteriche, l’autentico incitamento all’odio dei gazzettieri e dei “riflessivi” progressisti verso Fleximan, il soprannome dato a chi ha messo fuori uso diversi impianti autovelox. C’è un indagato, un quarantenne polesano, e la sua vita, le sue (presunte) idee, le sue (presunte ) letture sono sottoposte ad un’aggressione senza precedenti. Il discorso di odio vale sempre per gli altri. Ma in realtà che cosa scatena il rancore, l’attacco del branco al presunto Fleximan? E’ l’avversione per l’uomo che si difende, che – magari sbagliando – pensa con la sua testa. Fleximan è certo colpevole di danneggiamento, ma non è un assassino, un mafioso, un corruttore, uno stupratore. E’ solo – se il profilo corrisponde alla realtà – un italiano di provincia, maschio, eterosessuale. Un uomo “normale”. Lo odiano perché ha tranciato un simbolo del controllo, della sorveglianza, del potere assoluto di un sistema non certo amico. Gli autovelox non hanno ridotto gli incidenti stradali: sono l’emblema dell’occhio del potere, della mano pesante che si abbatte – da remoto, attraverso una telecamera – su chi va corre troppo in auto. Singolare peccato al tempo della dromocrazia, il potere della velocità, del “tempo reale”, della smania di far presto, delle comunicazioni 5G.

Non intendiamo istigare a follie automobilistiche né giustificare il gesto; ci preme evidenziare il cortocircuito di una mentalità. Ladri, assassini, gruppi di banditi che terrorizzano i cittadini– specialmente donne, anziani, deboli – sono giustificati in ogni modo. A loro vanno attenuanti ed esimenti, in assenza delle quali vige l’alibi delle colpe delle società e delle ingiustizie – vere o presunte – del passato. I “dannati della terra” sono i nuovi eroi, Fleximan è un nemico perché detesta la sorveglianza, la macchina impersonale, implacabile, che, nello specifico, serve soprattutto a rimpinguare i bilanci dei comuni. Il distruttore di autovelox è odiato in quanto nemico di un’equivoca “legalità”, un’altra delle parole passepartout. Legalità significa conformità alla legge. E se la legge non è “giusta” ?

Peggio di lui – comunque responsabile del danneggiamento di beni altrui – se la passa il poliziotto che, nell’inferno della Stazione Centrale di Milano, ha sparato a un immigrato violento e incontrollabile. Dovrà rispondere di avere svolto il suo dovere. Chi glielo farà fare, ai suoi colleghi, di difendere uno straccio di ordine pubblico, se le conseguenze sono queste? Possiamo pensare che se la vittima – il malvivente che se l’è cercata – fosse stata lombarda o calabrese le reazioni scomposte delle anime belle sarebbero diverse? L’odio di sé, il pregiudizio in nome del quale l’altro, lo straniero, ha sempre ragione alimenta un grottesco razzismo rovesciato, uguale e contrario a quello imputato ai nemici ideologici.

Curioso anche aver dimenticato, da parte dei buoni – a prescindere – la lezione di Michel Foucault, uno dei loro, però più intelligente. Non comprendono che l’obiettivo del potere è sorvegliare e punire, dirigere la vita quotidiana, i gesti concreti della gente. Foucault parlava di biopotere, biocrazia, di norme e apparati che divengono dispositivi. È un caso che l’idea di sorveglianza (il Panopticon che tutto osserva senza essere visto) sia la costruzione di un pensatore utilitarista, Jeremy Bentham? Le sue idee si sono avverate per merito – o colpa – della tecnica. Fleximan non è un santo, ma i suoi odiatori assomigliano ai “caporali” del film di Totò: quelli che si schierano, per stupidità, tornaconto, cinismo, dalla parte del potere, se ne fanno complici, spietati delatori, sgherri inflessibili. Padri di famiglia aggrediti in casa propria, commercianti assaliti per rapina, terrorizzati armi in pugno, salgono sul banco degli imputati al posto dei malviventi se osano reagire, ferire o uccidere i carnefici. Legittima – cioè giusta – difesa. Non più: imputati perché si sono opposti a un precetto fondamentale della società morta, svirilizzata, il monopolio della forza legale in capo al potere. Difendersi è vietato.

L’intero impianto legislativo è un ginepraio fatto per aumentare potere e reddito dei periti giuridici, interpreti delle norme e – di fatto – rendere agevole la vita di chi delinque e di chi è ricco. Un castello insormontabile di permessi, moduli, burocrazia, un labirinto di circolari, leggi e leggine contrastanti rendono difficilissima la vita di chiunque. L’uomo comune, non solo Fleximan, si convince di essere una vittima sacrificale; pensa che il dispositivo di sorveglianza e punizione che gli rende difficile la vita sia la trappola tesa proprio a lui. Impressiona il consenso di una parte dell’opinione pubblica al sistema di dominazione sull’individuo. Si diffonde l’odio nei confronti di chi si comporta secondo natura: difendere ciò che ci appartiene, proteggere le persone care, la propria gente, il modo di vivere ereditato e scelto è un fatto naturale. Non può essere negato e diventare reato in nessuna legge “positiva”, cioè imposta dal potere secondo procedura, frutto della convenienza dei dominanti spacciata per spirito dei tempi.

Vale la lezione di Tommaso: se una norma non concorda con la legge naturale, “non erit legem, sed legis corruptio”, non è legge, ma la sua corruzione. Concetti analoghi furono espressi da Aristotele e dal giurista latino Paolo, il primo a distinguere ciò che è “giusto” da ciò che è “utile “, che chiamò diritto civile. Nessuna civiltà aveva mai negato il diritto all’autodifesa, nessuna lavora tanto attivamente a squalificare, disprezzare, tacciare di violenza chi difende se stesso. Bisogna aspettare i titolari della forza legale, sporgere denuncia, domandare ai criminali quali sono le loro intenzioni. Arrendersi. Come può un homunculus siffatto reagire ai soprusi? Disarmato moralmente, impaurito, confuso tra il suo istinto e i precetti ricevuti dalla società, non potrà che diventare conformista, molle, legato al gregge, incapace di pensare, decidere, agire autonomamente. Il carattere innaturale di gran parte dei comportamenti prescritti dalla macchina della cultura, dello spettacolo e della propaganda fa sì che il nemico delle idee dominanti sia l’uomo che agisce e si difende, anche a costo della libertà e della vita, per affermare un diritto naturale.

Fleximan probabilmente non è un fanatico della velocità; è piuttosto qualcuno che detesta la museruola, la sorveglianza, e rivendica gli spazi di privatezza e libertà che vede restringersi. Reagisce – in maniera rozza e discutibile – alla violenza psicologica sottile, invasiva, delle telecamere che scrutano dappertutto, l’occhio onnipotente del Grande Fratello tecnologico che annota e punisce. E che, nel caso di certi strumenti, agisce allo scopo di fare cassa attraverso un meccanismo impersonale con cui non si può interagire. Il mezzo – la macchina, l’apparato artificiale – diventa un fine, un moloch che schiaccia l’uomo, le sue ragioni e persino i suoi torti con una violenza meccanica a cui non si può opporre la forza della ragione, del Logos umano. La macchina – strumento universale del potere – ha deciso, il suo verdetto è inappellabile.

Essere non è più difendersi; la resistenza è legittima ma illegale, nei confronti della minaccia alla vita, al lavoro, alla casa, alla famiglia, alla tranquillità e all’ordine violato. All’essere umano è impedito di essere se stesso, manifestare coraggio, opporsi personalmente – qui e adesso – a ciò che lo minaccia. Deve compilare moduli, rivolgersi al potere, chiedere come favore ciò che dovrebbe avere come diritto. Difendersi significa anche resistere, opporsi a qualcosa di ingiusto. Proibito anche questo: il nuovo imperativo è la resilienza, ossia la sopportazione, l’accettazione dei colpi, l’obbligo di tornare allo stato iniziale dopo l’urto. Questo è il significato tratto dalla fisica: la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi. In psicologia, superare un evento traumatico. Manca il giudizio, tuttavia: quell’evento è giusto o ingiusto? Perché devo rassegnarmi a non contrastarlo?

Il gioielliere, il tabaccaio, il padre di famiglia che si arrendono al rapinatore sono resilienti. Lo è anche chi è contrario, ma non osa opporsi, all’ingiustizia sociale, alla medicalizzazione e digitalizzazione della vita, alla sorveglianza, alla tecnologia padrona, all’invasione di ogni spazio privato, intimo. Deve tornare al punto di partenza, accettare, assorbire il colpo. Perché? Così vuole il potere, che gli nega il diritto di giudicare il bene e il male in ciò che accade. Violenza, precarietà esistenziale, sfruttamento, immigrazione che sfigura la comunità, insicurezza, apparati tecnici che sostituiscono le persone e cancellano i rapporti umani. Tutto obbligatorio, indiscutibile. Vietato giudicare, cioè distinguere, assoggettare al criterio del giusto e dell’ingiusto. Sarebbe “discriminare”, peccato mortale. Come posso giudicare il ladro che entra in casa o in negozio, discernere le sue ragioni dalle mie? Devo tollerare, ossia sopportare, accettare senza eccepire.

Chi non si difende è indifeso. Se accetta che gli venga estirpata la volontà naturale di proteggere ciò che è suo, non difenderà neppure il suo territorio, i suoi costumi, la sua comunità da chi li invade, in quanto non li sentirà “suoi”. Senz’anima e senza identità, è alla mercé di chi ha il monopolio di tutto, non solo della forza. Sconcerta che verità elementari non vengano comprese e masse di disciplinati “resilienti” accettino tutto con indifferenza, addirittura con approvazione. Senza amor proprio, interessati solo all’utile e al futile, fragili, deboli, lamentosi. Indifesi: così vuole il potere.

Di Roberto Pecchioli, ereticamente.net

25.05.2024

Roberto Pecchioli, studioso di geopolitica, economia e storia, svolge un’intensa attività pubblicistica in ambito saggistico. Collabora con riviste e siti web di cultura e informazione indipendente.

Fonte: https://www.ereticamente.net/essere-e-difendersi-roberto-pecchioli-2/

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