Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Immaginari ed eredità

di Gioacchino Toni

Dopo aver preso in considerazione [su Carmilla] le radici e il contesto del fenomeno Joy Division protrattosi nel tempo ben oltre la breve apparizione della band a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta, continuando a far riferimento al volume curato da Alfonso Amendola e Linda Barone, Our Vision Touched the Sky. Fenomenologia dei Joy Division (Rogas, 2021), vale la pena soffermarsi tanto sugli immaginari che hanno plasmato la produzione dei Joy Division quanto sull’incidenza da loro esercitata sulla scena coeva e sulle generazioni dei decenni successivi.

Nell’analizzare l’immagine grafica dei Joy Division, Alfredo De Sia evidenzia come questa si esprima soprattutto attraverso le cover dei dischi capaci di condensare la tematica della band rivelando tanto la matrice ermetica e dolente quanto la cultura poetico-letteraria di Ian Curtis.

Il primo elemento che contraddistingue l’immagine grafica del gruppo viene indicato dallo studioso nella copertina dell’EP, nella sua prima edizione autoprodotta, An ideal for living (1978) in cui campeggia un giovane tamburino nazi-style in bianco e nero su di una cover bianca che – in modalità do-it-yourself – “si espande” in alcune pagine con immagini, compresa una foto del gruppo. Il nuovo nome della band, che sostituisce il precedente Warsaw, in tale circostanza scritto con caratteri goticheggianti, richiama le “divisioni della gioa” (Freudenabteilungen) istituite dai nazisti e composte da prigioniere obbligate al soddisfacimento sessuale maschile. I riferimenti all’universo nazista non hanno mancato di suscitare perplessità all’epoca, tanto che con il passaggio della band alla Factory l’EP viene ristampato adottando una nuova copertina recante l’immagine di un fitto ponteggio edile con il nome del gruppo in sovrastampa sviluppato in maniera cruciforme.

Il secondo elemento grafico, destinato a restare nella storia, riguarda la cover del primo LP Unknown pleasures (1979) realizzata da Peter Saville con la celebre sequenza grafica di segnali pulsar su sfondo nero che, sostiene De Sia, è divenuta «il vessillo di coloro che, negli anni Ottanta, rifiutavano l’omologazione edonistica legata ai brand commerciali ma si identificavano in una cultura che, pur avendo perso la rabbia del punk, era immersa in una romantica ed ermetica disperazione» (p. 76).

Il terzo elemento riguarda ancora una volta una copertina, quella di Closer (1980), LP uscito pochi mesi dopo il suicidio di Curtis, recante un’immagine che Peter Saville deriva da uno scatto fotografico realizzato da Bernard Pierre Wolffa alla tomba della famiglia Appiani nel cimitero genovese di Staglieno. Il titolo dell’album è scritto con l’elegante font classicheggiante – il Palatino disegnato da Hermann Zapf nel 1948 –, mentre non compare il nome della band. Tale copertina – color avorio nell’edizione originale inglese, bianca nella versione diffusa negli altri paesi – si rivela del tutto in linea con la dolenza emanata dalla musica del gruppo in un album che può, secondo De Sia, essere considerato un epitaffio sulla parabola dei Joy Division.

Incentrando il suo contributo sulla “danza esistenziale” di Ian Curtis, scrive Manolo Farci:

Il post-punk fu un genere musicale che contribuì notevolmente ad accelerare quel processo di decostruzione dell’ideale virile maschile che era stato già profondamente eroso a partire dal secondo dopoguerra. Lo fece, anzitutto, a livello stilistico, preferendo alla mitologia del guitar hero la preminenza della linea ritmica basso-batteria, mettendo in primo piano l’uso dei sintetizzatori, che permettevano l’identificazione simbolica dello strumento come oggetto sessualmente ambiguo o, ancora, prediligendo uno stile di canto più elegante e raffinato rispetto alla rudezza del punk […]. Ma lo fece, soprattutto, sostituendo all’immaginario machista del cock-rock americano dei decenni precedenti, con l’ostentazione di una sessualità attiva, esplicita e spesso aggressiva […], una rappresentazione della mascolinità differente, intellettualmente complicata, apertamente vulnerabile, languidamente passiva o sessualmente inetta. Prima ancora che le innovazioni del post-punk colonizzassero i consumi di massa di milioni di adolescenti degli anni Ottanta, […] fu la breve e intensa parabola dei Joy Division a mettere in scena gli sforzi di una mascolinità che tentava di ripensare se stessa. In un momento storico in cui un intero mondo (socialdemocratico, fordista, industriale) manifestava la sua obsolescenza, e i contorni di una nuova realtà sociale (neoliberale, consumista, informatica) cominciavano a diventare visibili […], la loro musica offrì una delle più lucide testimonianze dello smarrimento di una intera generazione di giovani maschi (pp. 79-80).

Sebbene Curtis rappresenti un’anomalia rispetto ai frontman delle band di area punk dell’epoca, allo stesso tempo, sottolinea Farci, non è poi così diverso da tanti altri suoi coetanei.

Come la maggior parte dei giovani delle white working class travolti dalla spirale discendente dei vertiginosi Settanta, Ian Curtis sapeva bene che le certezze ingenue della civiltà postbellica erano crollate. L’ideologia patriarcale del capofamiglia non era più credibile, l’automatizzazione andava sostituendo il lavoro dipendente dalla forza muscolare, e l’aumento della disoccupazione creava sentimenti di impotenza in una intera generazione di uomini. I ragazzi sentivano di non poter più contare su quella idea di mascolinità tradizionale che i loro padri avevano contribuito ad affermare (p. 81).

Nei Joy Division tale angoscia risulta palpabile, così come nella danza di Curtis è ravvisabile il tentativo di confrontarsi con l’alterità femminile o nera mettendo in scena «la sofferta estraneità di una intera generazione maschile rispetto a un mondo in cui altre identità iniziavano a reclamare il proprio spazio» (p. 83).

La danza di Ian Curtis rappresentò anzitutto un modo attraverso cui la mascolinità bianca reagiva alla forte ondata di immigrazione post-bellica che stava vivendo l’Inghilterra in quel periodo e alla conseguente diffusione di nuove sonorità provenienti, in particolar modo, dalla Giamaica e dalla cultura caraibica. Nonostante la sua importanza sia stata innegabile, la black culture è stata spesso mal rappresentata nella musica rock. Il pubblico bianco ha storicamente richiesto che i musicisti neri si conformassero alle loro aspettative di esotismo e primitivismo e che incarnassero sensualità, spontaneità e grinta (p. 83).

Il mito del “selvaggio” non “addomesticabile” alle relazioni sociali della società moderna ha fortemente permeato l’immaginario rock che non di rado ha riprodotto lo sguardo colonialista che vuole “l’uomo nero” in balia dalla propria libido del corpo. Il fastidio provato dalla mascolinità rockettara bianca nei confronti della disco music è secondo lo studioso in parte riconducibile al suo mettere in scena una sessualità alternativa, lontana dal machismo tradizionale.

Il post-punk ha saputo rompere con tale immaginario e, nonostante sia stato un fenomeno in buona parte di matrice bianca, ha saputo rapportarsi con “la musica da ballo” in maniera meno oppositiva pur evitando, come ne caso dei Joy Division, di desumerne fisicità e ritmicità gioiose. Nel caso di Curtis il richiamo è piuttosto all’immaginario del disagio psichico e fisico desunto dall’iconografia del genio romantico in cui la malattia diventa un dono di sensibilità accresciuta.

Lo Sturm und Drung emotivo di Ian Curtis raccontava, così, il fallimento e la frustrazione della corporeità bianca rispetto alla ritmicità erotizzata della black culture. Alla virilità dell’Altro razziale sostituiva l’ideale del genio portatore di un dolore sofisticato espresso in un corpo fragile: una immagine iconica per una generazione di giovani uomini che cercava di rimarcare la propria differenza rispetto alla musica di derivazione nera e ritrovare, così, una qualche forma di legittimazione sociale (p. 86).

La “danza esistenziale” del frontman dei Joy Division consente, inoltre, ai giovani bianchi di rapportarsi con l’alterità femminile in linea con l’allontanamento dal machismo di matrice punk intrapreso da gruppi come Siouxsie and the Banshees, Bauhaus, Southern Death Cult e Sex Gang Children. Si può pertanto affermare, sostiene Farci, che la danza esistenziale di Curtis mette in scena la tematica della depressione in netto anticipo rispetto al suo divenire una preoccupazione sociale diffusa. Inoltre, continua lo studioso, il funereo nichilismo dei Joy Division si rivela non dissimile dall’immagine freudiana del malinconico «che mette in scena la perdita stessa come centro del suo affetto, facendo dell’assenza l’oggetto del proprio desiderio» (p. 88).

La malinconia e l’autocommiserazione da un lato, il masochismo e la debolezza dall’altro diventarono così alcuni tra i tratti più caratteristici attraverso cui la mascolinità post-punk si riappropriava dell’alterità femminile per tentare di riaffermare la propria differenza identitaria, la propria specificità maschile in un periodo in cui, disconosciuto l’ideale virile del passato, molti uomini erano alla ricerca di una rotta nuova su cui avventurarsi (p. 90).

Se quello tratteggiato sin qua riguarda l’immaginario Joy Division tra fine anni Settanta e inizio degli Ottanta, l’intervento di Paolo Bertetti e Domenico Morreale si sposta invece sul lascito del gruppo alle generazioni successive soffermandosi sul progetto “Unknown Pleasures Reimagined” organizzato dalla Warner Music in occasione del quarantesimo anniversario dall’uscita di Unknown pleasures nel 1979. Coordinata da Warren Jackson della Warner e da Orian Williams, che aveva già collaborato al film Control, (2007) diretto da Anton Corbijn sulla figura di Ian Curtis, l’iniziativa prevede di affidare a registi di diversa provenienza la produzione di dieci audiovisivi low budget, incentrati su altrettanti brani contenuti nell’album. La distanza di tempo che separa la produzione degli audiovisivi dall’opera del gruppo è tale per cui l’allontanamento dall’estetica dei Joy Division è risultato quasi inevitabile.

L’idea dei produttori è dunque quella di reimmaginare un immaginario e non di rielaborare quello esistente e consolidato attraverso i prodotti mediali e le pratiche fan. Inevitabilmente, tuttavia, gli autori coinvolti si sono, più o meno consapevolmente, confrontati con quel repertorio di immagini sedimentato nella memoria collettiva e che ha plasmato, negli anni, l’identità della band (p. 94).

Al fine di comprendere a fondo i nuclei tematici estetico/narrativi propri dell’immaginario dei Joy Division occorre, secondo i due studiosi, considerare attentamente il rapporto tra le rappresentazioni mediali della band e della Factory Records e il sistema mediale che ne ha consentito la circolazione nei decenni successivi. Si possono pertanto individuare tre fasi di circolazione delle rappresentazioni mediali che contribuiscono a edificare l’immaginario della band lungo i quattro decenni che separano il progetto dall’uscita del loro primo LP.

Una prima fase viene individuata nel periodo a cavallo tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, in cui la circolazione mediatica del gruppo avviene attraverso la distribuzione discografica e radiofonica, oltre che sulle pagine delle riviste musicali. L’immagine dei Joy Division è in tale periodo delegata alla grafica delle cover e ai servizi sui magazine in cui spiccano il celebre scatto del 1979 di Kevin Cummins che ritrae il gruppo su Princess Parkway a Manchester e quello di Anton Corbjin che mostra la band di spalle nella stazione metropolitana londinese di Lancaster Gate con il solo Curtis che, attardandosi dagli altri, si gira verso il fotografo. «Queste rappresentazioni individuano alcune costanti estetiche che ricorreranno negli anni: il bianco e nero delle fotografie, la dimensione urbana del sound che rispecchia il soundscape di una Manchester postindustriale, l’incomunicabilità e l’isolamento […], la normalità antidivistica dei membri della band, la “serietà”» (p. 96).

La seconda fase individuata da Bertetti e Morreale riguarda il lasso di tempo compreso tra gli anni Ottanta e l’inizio del nuovo millennio e in questo caso si aggiungono il medium televisivo, soprattutto i canali videomusicali, l’home-video e il compact disc su cui vengono rimasterizzati i vecchi brani. Alla dimensione urbana e all’antidivismo si aggiunge poi la danza particolare di Curtis con inevitabili riferimenti all’epilessia che diviene, insieme al suicidio, centrale nelle narrazioni mediali relative al frontman della band. Tra le produzioni più celebri del periodo occorre citare il video musicale Atmosphere (1988) realizzato da Anton Corbjin per promuovere la compilation Substance (1988) fatta uscire dalla Factory Records.

Infine, una terza fase si apre con la diffusione del web e dei social network che permettono nuove forme di riappropriazione e rielaborazione dell’immaginario gravitante attorno ai Joy Division.

Bertetti e Morreale si soffermano sul legame tra l’estetica della band e gli scenari (post)industriali e i sobborghi proletari di Manchester. «La musica dei Joy Division trasforma il paesaggio industriale degradato della provincia inglese in un paesaggio interiore, nel quale lo straniamento materiale diventa straniamento esistenziale, in un “no future” più intimo e adulto – e per certi versi anche più intellettuale – di quello punk, un’alienità urbana giocata su lacerti burroughsiani e ballardiane atrocità in mostra» (p. 100).

Se l’estetica originaria del gruppo si lega al contesto storico-sociale della Manchester dell’epoca, sostengo i due studiosi, le reinvenzioni tendono invece a svicolare la musica dei Joy Division dal contesto in cui è stata prodotta riproponendola «in chiave più universale e internazionale (più facilmente commercializzabile?), caricandola di temi, figure, immaginari e persino valori ideologici diversi, legati a una dimensione più attuale e globale, in grado di connetterla a generazioni e vissuti anche assai distanti da essa» (pp. 100-101).

L’immagine lo-fi dei Joy Division è invece al centro dell’analisi di Jennifer Malvezzi che ragiona, appunto, su come buona parte delle immagini riguardanti la band siano “poor images”, immagini a bassa risoluzione, sgranate, derivate da quella logica artigianale del do-it-yourself introdotta del punk, quasi a enfatizzare a livello tecnologico il divario sociale tra i “figli della Manchester in disgregazione” e il nascente yuppismo dall’immagine patinata nel passaggio dai Settanta agli Ottanta. D’altra parte, però, sottolinea Malvezzi, in netto anticipo sui tempi, «le immagini mediali e i prodotti audiovisivi dei Joy Division hanno saputo incarnare molte delle derive esistenziali divenute sempre più comuni con l’avvento massivo del digitale: l’alienazione, la solitudine, il rapporto di disparità crescente tra i nostri corpi e l’ambiente urbano» (p. 112).

Lo scritto di Fabio La Rocca evidenzia come i Joy Division rappresentino perfettamente una particolare cultura incarnata nel quotidiano propria del periodo in cui nasce ma capace di parlare all’attualità funzionando da

eco di un tempo culturale che persiste nell’immaginario della memoria collettiva e risuona grazie alle immagini che rappresentano altresì una modalità narratologica […] L’effervescenza collettiva generata dal suono di Joy Division e dalle caratteristiche simboliche che ne derivano rappresenta una potenza societale in cui il residuo emozionale attiva un campo di forza che permette […] quel processo di proiezione/identificazione in atto nella relazione che l’essere umano intraprende nei processi culturali e nelle susseguenti forme di adorazioni collettive e passioni comuni. Ciò genera una certa “affettologia” sociale da intendere come una sensibilità che alimenta e struttura l’immaginario culturale creando forme di adorazioni e condivisione emozionali (pp. 134 e 137).

Non è nei successivi New Order che secondo lo studioso è possibile rintracciare il persistere del mito della band, bensì «in quella sorgente di memoria collettiva del suono autentico dei Joy Division e dei movimenti rapidi e nervosi sulla scena di Ian Curtis che contribuiscono all’edificazione della storia culturale-musicale e a quelle immagini che ne alimentano il mito» (p. 139).

Giuseppe Allegri situa l’epopea del gruppo tra due polarità coincidenti da un lato con l’impresa comune generazionale post-punk della Menchester di fine anni Settanta e dall’altro con la «vocazione isolazionista, introspettiva e solitaria di questo manipolo di dropout ventenni del nord-ovest inglese, riuniti intorno a un ragazzo carismatico, dolce e al contempo iroso come Ian Curtis» (p. 186).

Francesca Ferrara evidenzia come l’immaginario incarnato dal gruppo – le cui canzoni ruotano attorno a concetti quali freddezza, pressione, oscurità, crisi, fallimento, cedimento, perdita di controllo – sia associabile a una poetica della distanza che si palesa innanzitutto nei confronti dei propri fan, evidenziata dal ricorso a una sorta di strategia “anti-immagine” pubblica contraddistinta da un modo di presentarsi old-fashioned in contrasto con la tradizione rock e punk. Il gruppo pare persino disinteressato all’interpretazione che viene data ai loro testi. I Joy Division anziché enfatizzare rabbia ed energia, trasmettono emozione ed espressività aprendo la strada ad un versante di sound malinconico poi diffusosi negli anni Ottanta. Ribaltando un certo atteggiamento ribellistico rock di matrice politico-sociale, la band incarna piuttosto una tendenza introspettiva, desolata, claustrofobica, disperata.

Ma quella distanza e quella freddezza percepite dal pubblico erano in primo luogo enfatizzate dalla figura del frontman del gruppo. Quella di Ian Curtis era una «presenza assente» […], la cui indifferenza al mondo circostante era talmente evidente da emergere in modo chiaro financo dalle fotografie che gli venivano scattate […] Con quei movimenti convulsi e scoordinati, quindi, le esibizioni di Ian sembravano manifestare ancora più direttamente, attraverso una mescolanza di finzione e autenticità, di artisticità e malessere, la distanza del cantante dall’attualità della situazione presente: Ian Curtis era in primo luogo assente a se stesso, la distanza tra lui e il resto del mondo era in primo luogo distanza tra sé e sé (pp. 213-214).

Lo stesso sound, caratterizzato dell’eco e del riverbero nel mixaggio degli strumenti, enfatizza ulteriormente, secondo Ferrara, «una percezione sonora di distanza e lontananza, sottolineando la stretta connessione tra spazio acustico ed effetto emotivo nell’ascoltatore» (p. 215). Passando in rassegna anche i testi delle canzoni, la studiosa conclude che, in generale, «Dimensione pubblica, dimensione psichica e dimensione artistico-compositiva sembrano […] rimandarsi, lasciando emergere una dialettica tra presenza ed assenza, tra elementi che si intrecciano, toccandosi a distanza» (p. 217).

Il volume Our Vision Touched the Sky. Fenomenologia dei Joy Division, tratteggiato nei due scritti che gli sono qua stati dedicati prendendo in esame, per motivi di spazio, soltanto alcuni tra i tanti contributi che lo compongono, si rivela un’analisi preziosa dell’esperienza Joy Division. Oltre alla prefazione di Roberta Paltrinieri, nel libro sono presenti contributi di: Alfonso Amendola e Linda Barone, Alfonso Amendola e Novella Troianiello, Daniele De Luca, Eugenio Capozzi, Donato Guarino, Alfredo De Sia, Manolo Farci, Paolo Bertetti e Domenico Morreale, Jennifer Malvezzi, Andrea Rabbito, Fabio La Rocca, Alessandro Gnocchi, Vincenzo Romania, Linda Barone, Massimo Villani, Giuseppe Allegri, Fortunato M. Cacciatore, Francesca Ferrara, Caterina Tomeo, Emiliano Ilardi, Raffaele Federici, Giada Iovane e Giovanni Maria Riccio, Michelle Grillo.

Joy Division: Shadowplay, She’s Lost Control & Transmission (Live 1978)


Estetiche inquiete serie completa su Carmilla

Condividi questo contenuto...

Lascia un commento