Il 2022 è stato inaugurato da una grandissima protesta popolare scoppiata in Kazakistan, la più grande della storia del Paese dell’Asia Centrale, repressa nel sangue dalle forze speciali su ordine del presidente Qasym-Jomart Toqaev. Fonti ufficiali parlano di ventisei morti, ma al momento non è certa la cifra esatta delle vittime. Per addentrarci nei motivi di questa protesta e soprattutto per contestualizzarla sul piano politico e sociale abbiamo intervistato Paolo Sorbello, ricercatore dell’Università Ca’ Foscari di Venezia ed esperto di Kazakistan e Asia Centrale.
GP. Qual è l’origine delle proteste in Kazakistan e il contesto politico e sociale nel quale si inseriscono?
PS. La protesta è iniziata il 2 gennaio nella città di Jañaözen, nell’ovest del Paese, perché i prezzi dei carburanti – e in particolare il GPL, molto usato nella regione del Mangghystau – è raddoppiato dall’oggi al domani. La giustificazione del governo è stata che si è passati da un sistema di sussidi a uno di economia di mercato e questo passaggio ha fatto modificare i prezzi in maniera repentina. Sempre secondo il governo i prezzi diventeranno fluttuanti, e a una modifica verso l’alto potrebbe corrispondere a breve una verso il basso.
Nonostante questa spiegazione, le proteste sono proseguite e hanno attirato l’attenzione sia del governo locale che di una commissione governativa nazionale, arrivata a Jañaözen per tentare di instaurare un dialogo con i dimostranti. In questa fase ci sono state dichiarazioni da parte di esponenti del governo che non hanno certo aiutato a rasserenare gli animi, del tipo “se i carburanti costano troppo prendete l’autobus”. Dichiarazioni che nascondono una profonda ignoranza delle condizioni materiali della regione, nella quale il trasporto pubblico non è per nulla sviluppato.
Vista la confusione delle risposte date dal governo locale e nazionale ai protestanti, le manifestazioni si sono espanse in tutta la regione del Mangghystau, in particolare nel capoluogo Aqtau, e anche nelle regioni limitrofe, Atyrau e Kazakistan Occidentale. In queste tre regioni si concentra la maggior parte della produzione di idrocarburi nel Paese, che ricordiamo essere un grande esportatore di questa tipologia di merci. Il fatto che le proteste siano legate a questioni energetiche ci fa capire che dietro a tutto ciò c’è un’insoddisfazione politica e sociale perché la popolazione di queste regioni sente da sempre il fatto di essere in qualche modo espropriate di una loro ricchezza.
Per questa ragione le assemblee di piazza che vengono fatte nei giorni 2 e 3 gennaio cominciano a elaborare un piano di rivendicazioni più articolato e non legato al solo abbassamento del pezzo dei carburanti: le richieste toccano infatti gli atavici problemi di disuguaglianza, di emarginazione politica e sociale, di rappresentanza. Ad esempio i manifestanti hanno chiesto al governo di riconsiderare la proposta di poter eleggere i propri governatori, visto che in Kazakistan vige un sistema di nomina dei governatori delle regioni da parte del Presidente della Repubblica.
GP. Che cosa succede quando le proteste assumono un piano di rivendicazione più complessivo?
PS. Le manifestazioni iniziano a coinvolgere altre città esterne a queste tre regioni e il 4 gennaio arrivano nei centri più popolati del Kazakistan, in particolare a Nur-Sultan, l’attuale capitale che si trova a Nord, ed Almaty, città più popolosa ed ex capitale che si trova nel sud-est del Paese.
Una cosa importante da capire è che proteste come questa non hanno precedenti su questa scala, anche perché si tratta di un Paese immenso, grande come tutta l’Europa Occidentale, ma con una popolazione di soli 18 milioni di abitanti, in gran parte concentrati nei maggiori centri urbani. Il fatto che la protesta sia stata così capillare rappresenta dunque una novità assoluta, ma ci fa capire come in tutti gli angoli del Pese il sentimento di esclusione – in termini economici, sociali e politici – sia condiviso.
Le manifestazioni cambiano completamente di segno dal 5 gennaio in poi, quando viene imposto lo “stato d’emergenza”. Il passaggio dalle proteste di massa e capillari dei giorni precedenti agli scontri di piazza che si concentrano ad Almaty avviene dopo la violenta repressione della polizia, che ha preceduto di qualche ora l’ormai famoso discorso del presidente Toqaev che ha legittimato politicamente la repressione e le ha dato una veste istituzionale.
In realtà la violenza poliziesca nelle manifestazioni di piazza è una cosa piuttosto comune in Kazakistan, dove la reazione delle forze speciali è sempre smisurata, anche quando si tratta di manifestazioni piccole. Una volta io stesso sono stato testimone di una manifestazione pacifica organizzata da un esponente dell’opposizione alla quale hanno partecipato poche decine di persone che sembrava si svolgesse all’interno di uno scenario di guerra con almeno un migliaio di forze speciali.
Infatti, già a partire dalla notte tra il 4 e 5 gennaio, la polizia ha iniziato a usare gas lacrimogeni, granate stordenti e proiettili di gomma per tentare di disperdere i manifestanti. Quindi questa risposta violenta precede il discorso di Toqaev alla nazione che inaugura lo “stato d’emergenza” e chiude qualsiasi possibilità di dialogo. Bisogna anche considerare che, proprio in quella notte, iniziano a riversarsi ad Almaty gruppi di persone che potremo definire “facinorosi”, la cui composizione è estremamente diversa dai manifestanti che avevamo visto nei giorni precedenti.
È molto difficile decodificare questi gruppi, capirne la provenienza e soprattutto comprendere se facciano riferimenti a organizzazioni di tipo criminale. Sappiamo ad esempio che è intervenuto direttamente un boss locale nella piazza di Almaty, che ha tentato di fare un comitato organizzativo e ha generato una serie di scontri interni ai manifestanti stessi. Inoltre, nelle testimonianze video che ci stanno arrivando da quando internet è stato ripristinato in Kazakistan, si vede bene come molti di questi siano giovani, male o poco armati, male o poco organizzati. Sappiamo infine che molte di queste persone provenivano dalle aree periferiche ed extraurbane, facendo ritornare in auge quell’atavico conflitto tra città e campagna che è una delle costanti del Paese. Ci sono dunque una molteplicità di fattori che hanno contribuito a radicalizzare lo scontro, che raggiunge l’apice con il municipio e la residenza presidenziale che sono stati dati alle fiamme.
GP. Questo cambio di composizione può essere legato a un tentativo di convogliare queste proteste in una forma organizzata di opposizione politica al presidente Toqaev?
PS. Su questo ho molto dubbi, perché se fosse stato così la cosa sarebbe stata dichiarata, proprio per aver maggior risalto sia a livello interno che all’estero, per tentare di polarizzare la popolazione e portare gli “insoddisfatti” a unirsi con gli insorti. Il fatto che questa rivolta sia stata così “acefala”, come molti l’hanno definita, ci dà un quadro molto più confuso, sia nella non organicità alle proteste iniziali, sia nel modo in cui le manifestazioni si sono repentinamente assottigliate il 6 e 7 gennaio, fino quasi a scomparire. Molte delle persone che si erano unite spontaneamente alle azioni di saccheggio si sono dileguate, cosa che denota la loro molto flebile affiliazione a un fantomatico disegno politico.
Come si collocano queste proteste, soprattutto nella loro fase iniziale, nel quadro delle diseguaglianze create dal sistema economico kazako, che è molto basato sull’estrazione di risorse?
L’estrattivismo in Kazakistan, unito a una corruzione capillare diretta dagli apparati statali, ha causato diseguaglianze enormi nel Paese. Questo paradossalmente lo ha detto anche il presidente Toqaev quando ha parlato alla nazione, imputando al predecessore Nazarbaev la causa di un sistema oligarchico, nel quale persone molto ricche si accaparrano l’intera ricchezza prodotta nel Paese senza alcun tipo di redistribuzione. In realtà neppure Toqaev ha mantenuto per ora la promessa di garantire maggiore equità.
Tornando indietro negli anni, la storia del Kazakistan è puntellata da proteste di lavoratori, che è tra l’altro il tema delle mie ricerche nel Paese. Il lavoratori sono sempre stati il motore delle proteste, aventi come tema sia quello delle diseguaglianze sia quello politico. Questo è avvenuto già negli anni ’80, nelle aree minerarie del Paese e nelle fabbriche legate all’estrazione e produzione di carbone.
Negli anni del boom economico in Kazakistan, le proteste dei lavoratori iniziano a concentrarsi nelle regioni petrolifere. In particolare nel 2011, i lavoratori del petrolio hanno scioperato per otto mesi e sono scesi in piazza ogni giorno per chiedere condizioni di lavoro migliori. Questi lavoratori non sono mai stati ascoltati e addirittura il 16 dicembre 2011, giorno del ventesimo anniversario dell’indipendenza, vengono violentemente sgomberati dalla piazza per fare spazio a un palco per la celebrazione del ventennale. Gli animi si sono riscaldati e anche in quell’occasione sono intervenute forze estranee al corpo sociale delle proteste, che hanno fatto degenerare la manifestazione con tanto di reazione violenta da parte delle autorità, che anche allora hanno sparato sulla folla. Si parla di 17 morti ufficiali, ma testimoni oculari parlano di almeno 80 vittime.
Prima del gennaio 20220, quella del 16 dicembre 2011 era la pagina più nera della storia kazaka, anche se sono stati diversi i movimenti di lavoratori che si sono organizzati e hanno inscenato proteste, prima e dopo il 2011. Dopo il 2011, però, lo Stato ha deciso di cambiare la legislazione lavorativa, rendendo il lavoro più precario e limitando di gran lunga l’azione dei sindacati indipendenti dallo Stato. Per questo, dopo il 2011, e in particolare dal 2014 quando viene approvata questa legislazione, le proteste arrivano quasi a scomparire: abbiamo vissuto in un Paese dove le richieste dei lavoratori non solo venivano ignorate, ma non potevano neppure formularsi attraverso piattaforme istituzionalizzate. Il sindacato era diventato solamente un corpo intermedio che funzionava per approvare qualsiasi decisione governativa, come lo erano i partiti, visto che il sistema multipartitico era diventato soltanto di facciata, e allo stesso tempo le opposizioni reali venivano completamente emarginate e rese illegali.
Dal 2019, quando Nazarbaev lascia a Toqaev, questo è stata una miccia per alcuni movimenti per riorganizzarsi e intervenire nella scena pubblica. Uno di questi è un movimento giovanile proveniente dal mondo creativo e del settore terziario, che si chiama “Sveglia Kazakistan!”. Questo movimento, che è rimasto confinato a un certo ceto sociale di Almaty, aveva fatto capire che il popolo necessitava di spazio e Toqaev, nonostante abbia detto nel suo primo discorso alla nazione di voler ascoltare i cittadini, alla fine ha disatteso queste promesse e la voglia di questi movimenti non si è fermata. Infatti, lo scorso dicembre, in occasione del trentesimo anniversario dell’indipendenza, ci sono state alcune manifestazioni che non hanno mai superato il centinaio di persone (io stesso ne sono stato testimone). Per questo mi sembra inverosimile pensare che le proteste di massa avvenute a inizio gennaio possano essere legate a questi movimenti.
GP. Vista l’importanza strategica del Kazakistan nel mercato mondiale dell’energia, quali possono essere le implicazioni geopolitiche di queste proteste e di una eventuale instabilità interna al Paese? Alcuni analisti hanno paragonato la questione kazaca a quella ucraina e bielorussa. Come stanno le cose secondo lei?
PS. Fare comparazioni tra Paesi post-sovietici rischia di essere molto fuorviante. In questo caso la comparazione non funziona perché alla Russia non interessa “conquistare” il Kazakistan perché il Kazakistan è, era e rimarrà in una sfera di influenza condivisa. Al Kazakistan sta bene rimanere nella sfera d’influenza russa, anche perché in Kazakistan si parla il russo. C’è un pezzo importante di storia condivisa, un confine disegnato non da movimenti nazionali, ma da questioni amministrative.
C’è sempre stata una relazione produttiva tra Mosca e Nur-Sultan, una relazione mutuata dalla politica “multivettoriale” che Nazarbaev inaugurò negli anni ’90. Questo tipo di politica indica che il Kazakistan non guarda soltanto alla Russia come partner unico, ma guarda ad altri partner che vogliano coltivare relazioni commerciali e politiche. Uno di questi partner è senza dubbio la Cina, ma altri partner sono i vari Paesi europei e gli USA.
Questi ultimi servono come motore d’investimenti, e hanno assolto a questa funzione soprattutto nei primi 15-20 anni della storia del Kazakistan indipendente, investendo soprattutto nel settore estrattivo. Ad esempio il 3 gennaio hanno scioperato, in solidarietà ai protestanti, i lavoratori del giacimento di Tenzig, il principale giacimento petrolifero kazako e uno dei più grandi al mondo, che per metà appartiene alla statunitense Chevron. Questo ovviamente ha spaventato molto gli investitori americani, che sono stati molto felici quando la situazione si è normalizzata e i lavoratori non hanno più pensato a iniziative che interrompessero la produzione.
Quindi la calma e la pace politica, o quella forzatamente tale, nella società kazaka fa comodo a tutti. Il Kazakistan è un Paese che tutti vogliono pacificato, stabile e unito. La Cina in particolare lo vuole perché c’è un confine di mezzo, ci sono tanti interessi economici e ci sono anche molte difficoltà transfrontaliere, perché il Kazakistan confina con la regione cinese dello Xinjiang, nella quale abitano molte persone di etnia kazaka. Sempre in quella regione, nei “campi di rieducazione” sono rinchiusi tanti kazaki, sia con passaporto cinese che immigrati. Questa cosa non ha mai creato una tensione tra Pechino e Nur-Sultan, proprio perché la salvaguardia di una buona relazione con la Cina per il Kazakistan è più importante della libertà stessa dei suoi cittadini in suolo cinese.