Una recensione di Elias Köenig dell’ultimo libro di Andreas Malm How to Blow Up a Pipeline. Learning to Fight in a World on Fire, uscito per i tipi di Verso lo scorso 5 gennaio. Malm è professore associato di “human ecology” all’università di Lund, in Svezia, ed è tra gli studiosi che maggiormente stanno animando il dibattito internazionale sull’ecologia-mondo. Traduzione italiana per Pressenza di Federica Frisiero. Revisione di Raffaella Forzati.
Walter Benjamin descrisse egregiamente la rivoluzione come il tentativo dell’umanità di “tirare il freno d’emergenza” alla locomotiva della storia. Le sue parole, scritte in mezzo al tumulto della Seconda Guerra Mondiale, risuonano ancora vere in tempi di crisi climatica e improvvisi disastri ecologici.
Il nuovo libro di Andreas Malm trae conclusioni esplosive sulla lotta per la giustizia climatica.
Il treno della storia ha accelerato più che mai, raggiungendo a grande velocità molteplici limiti del pianeta. Come fare allora per tirare il freno?
L’ultimo libro di Andreas Malm, dal titolo provocatorio How to Blow Up a Pipeline (Come far esplodere un oleodotto), ha sollevato un dibattito di cui si sentiva il bisogno sulla strategia migliore per fermare questo treno. Malm è insegnate di ecologia politica all’Università di Lund (Svezia) ed è molto noto per essere l’autore di Fossil Capital e The Progress of this Storm.
Petrolio
Malm scrive questo saggio con il suo consueto stile lucido e impetuoso, criticando appassionatamente chi crede che il tempo sia già terminato e che la scelta migliore per l’umanità sia semplicemente iniziare a prepararsi per l’imminente apocalisse. Secondo Malm questo fatalismo climatico, rappresentato ampiamente da autori come Roy Scranton (“Learning to Die In the Anthropocene”), è una sorta di privilegiata autocommiserazione che si possono permettere solo i passeggeri di prima classe del Nord del mondo.
Non si può contare neppure sulle grandi corporazioni affinché agiscano in maniera decisiva sul cambiamento climatico. Da parte loro l’interesse che il treno continui la sua corsa è troppo grande, anche a costo dell’esistenza altrui. Come descrive il libro, c’è poco incentivo ad abbandonare il settore petrolifero e altre forme di infrastrutture fossili (che spesso sono associate in primo luogo a grandi investimenti) in un sistema economico che valorizza principalmente il profitto.
Molte delle grandi compagnie petrolifere (sia private sia statali) pianificano di aumentare in maniera significativa le proprie capacità produttive negli anni a venire, nonostante il fatto che lo sfruttamento delle risorse petrolifere esistenti catapulterebbe il riscaldamento climatico mondiale più su di due gradi.
La miglior possibilità dei passeggeri, allora, è un movimento popolare che spinga gli Stati ad agire responsabilmente e a stabilire dei limiti rigidi agli eccessi del capitalismo dei combustibili fossili: il movimento per la giustizia climatica. Il saggio tratteggia le tre curve lungo cui questo giovane movimento si è già mosso: dal primissimo inizio negli anni ‘90, passando per le mobilitazioni in concomitanza con il summit sul clima a Copenhagen nel 2009, fino alle più recenti e diffuse proteste e gli scioperi per il clima guidati da movimenti come Fridays for Future e Extinction Rebellion.
Le ondate di attivismo che si sono susseguite sono riuscite in molti modi a sensibilizzare l’opinione pubblica sugli effetti negativi del cambiamento climatico. Hanno anche contribuito a creare una certa pressione sulle negoziazioni internazionali per il clima, che ha probabilmente portato all’adozione degli accordi di Parigi nel 2015, così come a successivi impegni da parte di governi nazionali e regionali.
Proteste
Eppure anche gli scioperi per il clima più partecipati hanno avuto scarso impatto sulle emissioni globali di gas serra, che continuano a crescere vertiginosamente. In altre parole adesso i passeggeri sul treno sono meglio informati e concordano nel dover agire in qualche modo ma il treno accelera, nonostante tutto.
Il movimento per il clima non è riuscito a fermare il motore del treno, il business quotidiano della distruzione del pianeta in nome del profitto privato. Anche in giorni di corposi scioperi per il clima, i grandi inquinatori portano avanti i loro affari indisturbati.
Sarebbe possibile, allora, per il movimento per la giustizia climatica intervenire direttamente nella stanza di controllo del capitalismo? Un movimento di gente comune potrebbe diventare un “rischio di investimento” così serio da spingere i grandi inquinatori ad intraprendere azioni drastiche? Di certo sarebbe necessario rivedere alcune questioni fondamentali strategiche e morali.
Il libro di Malm riporta la storia di due attiviste del movimento operaio cattolico, Jessica Reznicek e Ruby Montoya, che sono state condannate a 110 anni di prigione per aver incendiato piccoli punti nell’oleodotto Dakota Access, bloccando la costruzione di questo controverso progetto per molti mesi.
Reznicek e Montoya, come molti all’interno del movimento per il clima, hanno fatto campagna per diversi mesi contro il progetto infinito e pericoloso dell’oleodotto. Centinaia di petizioni, ricorsi, proteste e anche l’ampia resistenza guidata dagli indigeni attorno alla riserva di Standing Rock non sono servite, dato che l’oleodotto è stato approvato da Donald Trump nel 2017.
Azioni
Di fronte a un progetto così distruttivo come l’oleodotto, il sabotaggio era l’unica scelta rimasta. Le azioni di Reznicek e Montoya non erano dannose per gli uomini ma i loro metodi avevano perso ogni legame con l’idea che certi limiti, come il rispetto della proprietà privata, debbano essere preservati per mantenere il sostegno popolare.
Malm denomina questa posizione “non violenza strategica”. Nel suo libro offre una lettura dettagliata della storia dei movimenti sociali, dimostrando che Reznicek e Montoya non sono le sole ad avere oltrepassato i confini della non violenza nella lotta per la giustizia climatica.
Infatti molti movimenti di massa che hanno ottenuto cambiamenti sociali significativi nei secoli scorsi avevano alzato l’asticella attuando strategie più estreme. Come sostiene Malm, accadde certamente così al movimento delle suffragette in Gran Bretagna, a quello contro l’apartheid in Sud Africa o quello per i diritti civili negli Stati Uniti.
In questo caso il libro va inteso in particolare come una risposta ai fondatori di Extinction Rebellion, che hanno usato esattamente queste parole per portare avanti la loro idea di pacifismo strategico. Allo stesso tempo avverte i lettori che abbracciare la teoria della parte più estrema non significa tollerare l’azionismo fine a se stesso. Il libro non risparmia infatti critiche ai più famosi gruppi ambientalisti come Fronte di Liberazione per la Terra (FLT) e Fronte di Liberazione Animale (FLA), che agiscono in maniera ampiamente individualista e mancano di sufficiente aggregazione in un movimento di massa.
Come sostiene il testo la situazione è diversa per il movimento di giustizia climatica dei nostri giorni, che ha mostrato grande pazienza nel sostenere la propria causa e che ha già portato milioni di persone nelle strade. Malm afferma che si può trovare l’origine dell’imminente rivoluzione per la giustizia climatica nei climate camp che hanno spinto l’opinione pubblica a sperimentare forme di azione più radicale, come l’occupazione annuale delle miniere di carbone da parte della Ende Gelaende coalition in Germania.
Lotta
Sfortunatamente però il libro accenna solo brevemente al fatto che le lotte socio- ecologiche nel Sud del Mondo abbiano sviluppato un sofisticato repertorio di strategie estreme per colpire le infrastrutture per il combustibile fossile.
Situate in una congiunzione tra colonialismo, capitalismo e ecologia, queste proteste discendono da una stirpe di movimenti molto diversa, dall’apartheid in Sud Africa alla cintura del carbone in India, dall’Egitto al Delta del Niger in Nigeria.
Malm non è certo il primo scrittore ad attestare la sconfitta delle politiche rivoluzionarie nel Sud del Mondo. Ma alcuni eventi, come la chiusura delle pompe e delle autostrade da parte di contadini Indiani in recenti episodi e il susseguirsi di proteste degli Indigeni contro l’oleodotto e per i diritti di proprietà della terra in tutto il mondo, sono promemoria importanti per ricordarci che dobbiamo imparare ancora molto dagli episodi mondiali di protesta.
In conclusione questo promemoria mira proprio a riprendere la provocazione principale del libro che perseguiterà probabilmente molti di noi nei prossimi dieci anni: dopo anni di negoziazioni senza esito, quando arriverà finalmente il momento di impadronirsi della sala di comando?