di Dario Paccino
[Originariamente pubblicato sulla rivista “vis-à-vis – Quaderni per l’autonomia di classe” n. 2, primavera 1994 –ght]
Anche senz’alcun altro riferimento storico, basterebbe, per una corretta interpretazione del radicale mutamento dell’Italia dopo l’assunzione (1922) di Mussolini al governo da parte di Vittorio Emanuele, confrontare la legislazione attinente capitale e lavoro prima e dopo la “marcia su Roma”.
Non che la democrazia prefascista si sia mai caratterizzata per particolare sensibilità sociale. Ma c’era stata Caporetto, e fu così giocoforza spronare i soldati al fronte con miraggi sociali, quale ad esempio la concessione della terra ai diseredati (almeno il novanta per cento dei contadini, che erano allora , in percentuale demografica, largamente maggioritari) a conclusione vittoriosa del conflitto. E c’era Lenin popolarissimo, tanto che riecheggiando il suo nome esplose (1917) la rivolta armata di Torino. E s’era temuto, finita la guerra, di perdere il controllo delle “masse” nell’infuriare d’una crisi economico-sociale che scuoteva il mondo.
È così che i lavoratori qualcosa, nell’immediato dopoguerra, avevano ottenuto nonostante il terrorismo fascista volto a soffocare cruentemente le loro lotte, distruggendo inoltre le forme organizzative di mutualità che s’erano date nei passati decenni. Conquiste – quelle strappate alla democrazia liberale prefascista – del tutto cancellate dal fascismo con distruzione d’ogni organizzazione partitica e sindacale del movimento operaio.
L’obiettivo prioritario del fascismo
Questo il fascismo mussoliniano in un’ottica sociale: l’espropriazione di quanto i lavoratori avevano saputo prendersi, non infrequentemente a prezzi di sangue e di lunghi anni di carcere, una generazione dopo l’altra; e ciò a vantaggio dei poteri forti dell’economia e della finanza, sostenuti da un’industria di Stato, attraverso la quale, come rilevò Ernesto Rossi, si socializzavano le perdite, privatizzando i profitti.
Il tutto fondato sulla violenza, e giustificato, filosoficamente, dall’identificazione dello Stato fascista come incarnazione dello Stato etico, e, alla luce della teologia economica, dall’accumulazione vista come bene supremo, sia della patria (nel quadro del tradizionale imperialismo straccione italiano), sia per i posti di lavoro che lo sviluppo produttivo avrebbe portato con sé.
Che il fascismo sia stato determinato prevalentemente dalla volontà d’un controllo del lavoro, autoritario e del tutto funzionale all’accumulazione capitalistica, si può cogliere in quanto osserva Primo Levi a proposito del nesso fra il Lager in cui era detenuto e le ragioni della produzione del nazismo in guerra, nazismo con peculiarità proprie rispetto al fascismo nostrano, ma della stessa natura di quest’ultimo alla luce appunto del binomio capitale-lavoro.
Secondo una valutazione di Shirer (Storia del Terzo Reich) i lavoratori coatti in Germania nel 1944, notava Levi (Se questo è un uomo), erano almeno nove milioni. Risulta dalle stesse pagine di questo libro quale intimo rapporto legasse l’industria pesante tedesca con l’amministrazione dei Lager: non era certo un caso che per gli enormi stabilimenti della Buna fosse stata scelta come sede proprio la zona di Auschwitz. Si trattava di un ritorno all’economia faraonica e ad un tempo di una saggia decisione pianificatrice; era palesemente opportuno che le grandi opere e i campi di schiavi si trovassero fianco a fianco.
I campi non erano dunque un fenomeno marginale e accessorio: l’industria bellica tedesca si fondava su di essi; erano una istituzione fondamentale dell’Europa fascistizzata, e da parte delle autorità naziste non si faceva mistero che il sistema sarebbe stato conservato, e anzi esteso e perfezionato, nel caso di una vittoria dell’Asse (l’alleanza militare nazi-fascista, ndr). Si prospettava apertamente un Ordine Nuovo su basi ‘aristocratiche’: da una parte una classe dominante costituita dal Popolo dei Signori (e cioè dai tedeschi stessi), e dall’altra uno sterminato gregge di schiavi, dall’Atlantico agli Urali, a lavorare e obbedire. Sarebbe stata la realizzazione piena del fascismo: la consacrazione del privilegio, l’instaurazione definitiva della non-uguaglianza e della non-libertà.
I due antifascismi
Ma se questo è l’obiettivo primario del fascismo, naturale che non siano pochi i quesiti storico-politici che s’affollano alla mente, visto che (per limitarci al nostro paese): a) l’azzeramento dello stato sociale, in questi ultimi anni, è stato opera non già dei dichiarati eredi di Mussolini, bensì di coloro che si rifanno alla Resistenza come valore ideale fondativo della Prima Repubblica, b) che da parte di costoro si va ora all’attacco dei vincitori del 27-28 marzo in nome proprio di quell’antifascismo che Amato, Ciampi, Occhetto, Trentin hanno socialmente rinnegato, imponendo, con una violenza invisibile (democratica), ciò che il fascismo impose a suo tempo con manifesta, ostentata violenza.
Scontato: niente da obiettare al “Guardian” che scrive che l’Italia il 27-28 marzo “ha eletto separatisti, neofascisti e opportunisti di destra sotto la guida di un avventuriero”. Ineccepibile però anche quanto lo stesso “Guardian” scrive in chiusura, e cioè che “è giusto preoccuparsi (al presente, ndr) non di una possibile rivoluzione fascista, ma di un ulteriore declino delle istituzioni politiche in Italia”.
Indispensabile perciò, per un corretto (quanto meno in prima approssimazione) orientamento interpretativo, riandare a quanto abbiamo rilevato in precedenti testi, e cioè che due sono gli antifascismi che hanno operato fra le due guerre, e poi nella guerra fredda: quello rosso, prevalentemente comunista, con reale obiettivo l’arresto della reazione socio-politica guidata da Mussolini (lo stesso antifascismo rosso impegnato poi in Spagna, nel ’36-’39, volto ad arrestare la fascistizzazione del continente), e poi quello sulle orme di Stalin (costretto nel ’41, volente/nolente, all’alleanza antifascista con Churchill e Roosevelt), antifascismo introdotto in Italia da Togliatti nel ’44 con la “svolta di Salerno”, l’ibrido antifascismo capital- comunista-democristiano, pregiudicato, per il momento, da “tangentopoli”, e che ha al proprio capezzale, per la propria riabilitazione, la più alta autorità (dopo quella del Fondo monetario internazionale e della Nato) dominante in Italia, quella del presidente della Fiat.
L’antifascismo di Toglaitti
Puntuale, su questo antifascismo continuazione democratica del fascismo mussoliniano, Rosario Piccolo, che osserva (“La Comune”, anno 6, numero 14, inverno 1993, pp.25-26):
Togliatti con l’amnistia (ai fascisti, ndr) limitò fortemente l’epurazione delle burocrazie fasciste presenti nello stato. Per vent’anni i capi della polizia proverranno dalla Repubblica Sociale Italiana. Il capo della polizia dal 1953 al 1960, Giovanni Carcaterra, proveniva dalla segreteria personale del ministero degli Interni fascista; Angelo Vicari – dal 1960 al 1973 al posto di Carcaterra – fece parte della segreteria particolare del ‘duce’. In seguito Mario Scelba, sempre con il beneplacito di Togliatti, compì la restaurazione del fascismo nel ceto chiamato a esercitare la repressione statuale. Insomma il dispositivo di polizia per tutti gli anni ’50 è interamente nelle mani di funzionari di provenienza fascista.
Si deve ricordare inoltre, continua Rosario Piccolo,
la funzione avuta dal Codice Rocco nella repressione delle lotte sociali in tutti questi anni. La coincidenza tra fascismo e diritto è dunque la caratteristica anche della Prima Repubblica, anzi c’è stato un palese peggioramento grazie alla legislazione d’emergenza degli anni ’70, anche in questo caso avallata dal Pci contro i Movimenti antagonisti, emergenza che è poi diventata metodo di governo delle contraddizioni sociali, politiche, economiche. Più in generale negli anni ’70 fino a oggi è possibile ricostruire l’intreccio tra vecchio e nuovo, tra continuità e innovazione, tra fascismo e Prima e Seconda Repubblica. (…) La delegittimazione della classe operaia, l’attacco formidabile condotto contro le sue conquiste (…) è la traduzione pratica della rottura avvenuta tra lotte operaie e sviluppo capitalistico. Lo stato si attrezza come macchina di guerra contro le istanze del sociale, riassume in sè fascismo e democrazia rappresentativa per meglio governare processi sociali, economici, politici che necessitano di strumenti più raffinati…
… e quello di Agnelli
Un brutale dir pane al pane la denuncia di Rosario Piccolo, con pieno rispetto però della sostanza del processo storico da allora a oggi, come conferma l’antifascistica (alla Togliatti) presa di posizione di Agnelli del 16 aprile scorso alla riunione confindustriale di Verona sul tema “Uomo, impresa, politica, tre dimensioni per lo sviluppo”. Presa di posizione sormontata il giorno seguente (“Stampa”, 17/4/94) da questo titolo a tutta pagina:”L’Avvocato difende la concertazione e mette in guardia dagli eccessi del liberismo – Agnelli: ha vinto la libera impresa”.
Adesso, si legge nel testo (in parte virgolettato, in parte riferito con discorso indiretto) sottostante il titolo,
è il momento di manifestare fiducia nella ripresa, di assumersi dei rischi, di dispiegare appieno quello spirito d’intrapresa di cui gli industriali italiani hanno già dato così importanti dimostrazioni. Niente stravolgimenti, però. ‘Ci vuole concretezza e senso della misura’ e ‘nè la maggioranza nè l’opposizione devono trincerarsi dietro vecchie ideologie già condannate dalla storia’. Agnelli invita alla cautela in particolare per i rapporti con i sindacati. Esalta l’importanza del patto del luglio scorso ‘sul costo del lavoro, frutto della concertazione fra governo, sindacati e imprenditori’. Quegli accordi vanno ‘salvaguardati’ e le relazioni industriali vanno sviluppate ‘tenendo conto delle specificità storiche di ciascun Paese’. Prudenza viene sollecitata poi per la mobilità del lavoro. Agnelli ricorda che gli ammortizzatori sociali (come la cassa integrazione o i contratti di solidarietà) consentono alle aziende di ristrutturarsi. Niente imposizioni, non si possono “applicare nel nostro continente sistemi bruschi” (fascisti alla vecchia maniera, ndr) che provocherebbero turbative sociali. Anche per la politica economica nessuna rivoluzione: ‘I due ultimi governi di Amato e Ciampi hanno ben operato.’…
Cose, verrebbe fatto di dire, dell’altro mondo: la Fiat, già colonna portante del fascismo mussoliniano, che oggi ammonisce i “nuovi” ad attuare il programma socio-plitico dei progressisti. Cose però, purchè si rifletta un sol momento, del tutto conformi alla temperie di questi nostri giorni, nella quale l’espropriazione di lavoro e risorse deve avvenire democraticamente, con assoluto rigore nella cittadella della Nato, nonché, nei limiti delle possibilità oggettive, nelle periferie del mondo.
Metodologia democratica nel centro…
Per la nostra cittadella, più di un trattato di pedagogia politica, appare istruttivo, in tema di metodologia democratica dell’espropriazione, l’editoriale della “Stampa” del 20 aprile dal titolo “Chi ostacola una nuova sinistra”.
Al suo ingresso in politica Berlusconi, osserva l’articolista, è stato snobbato (dalla pubblicistica progressista, “Stampa” in testa, ndr) in quanto ‘dittatorello sudamericano’, e solo all’ultimo momento se ne è avvertita la prepotente capacità egemonica. Recriminare oggi su questi errori di valutazione è inutile, perché la rivoluzione conservatrice avrebbe vinto comunque.
Importante è quanto Agnelli, che in campagna elettorale sostenne, con la “Stampa”, il progressismo (votato, del resto, in occasione dell’elezione a Torino, lo scorso autunno, del nuovo sindaco), manda ora a dire ai “compagni” di via Botteghe Oscure.
Importante, scrive infatti il giornale,
è riconoscere come tale fenomeno (la vittoria dell’”avventuriero” Berlusconi, ndr) abbia stravolto la stessa conformazione storica della sinistra: una sinistra che conquista il collegio borghese della collina torinese, perdendo invece i collegi operai di Mirafiori, rappresenta uno schiaffo alla memoria di Gramsci; una sinistra che prende più deputati in Basilicata che in Lombardia ha ormai del tutto essicate le sue radici riformiste.
Analiticamente, questa la realtà:
Piuttosto che la sua funzione naturale di rappresentanza del mondo del lavoro, è sopravvissuto, nella percezione del Paese, il vincolo di appartenenza della sinistra all’esperienza (“tangentopolista”, ndr) della Prima Repubblica, nonché la sua continuità di apparati, di linguaggi, di facce (a cominciare da quelle di Occhetto e D’Alema). Questi apparati, questi linguaggi, queste facce non paiono oggi adeguati a misurarsi con le inevitabili contraddizioni che la rivoluzione conservatrice – dopo i primi momenti di euforia – inevitabilmente genererà: la difficoltà della ricetta liberista a misurarsi con i problemi dei grandi apparati industriali di base; le contraddizioni fra i modelli di vita televisivi’ che essa propone e la realtà della vita di tutti i giorni; la necessità di assegnare comunque allo Stato un ruolo nelle politiche sociali.
Le teste – questo chiedeva Agnelli attraverso il proprio giornale – di Occhetto e D’Alema nell’interesse tanto della sinistra partitica e sindacale che della Fiat, dal momento che, con la decapitazione dei due maggiori responsabili della batosta del 27-28 marzo, si salva il partito, spianandogli la strada (con nuovi leader fuori del non ancora del tutto prosciugato guazzo “comunista”) a una credibile prospettiva centrista; e col partito congruamente aggiornato si rinverdisce il più genuino antifascismo togliattiano, l’unico che possa dare fondate speranze di salvaguardia della “pace sociale” (necessaria ad Agnelli come l’aria che respira) in questi tempi di turbativa berlusconiana.
Decapitazione con l’onore delle armi, come si coglie nella conclusione: “Occhetto e D’Alema hanno avuto coraggio, cinque anni fa, nel guidare la svolta post-comunista. Ma la brusca accelerazione della storia, per quanto ciò possa apparire crudele, oggi indica nella loro stessa leadership l’impedimento a che fiorisca qualcosa di nuovo anche a sinistra.”
… e in periferia
Emblematico quanto l’establishment bianco è riuscito a fare, tenendo fede alla metodologia democratica, in periferia nel caso specifico del Sudafrica.
Per un bel po’, sappiamo, quell’establishment s’è comportato contro la maggioranza nera in forme repressive, che neanche Hitler avrebbe potuto fare di più. Ecco però che viene il momento che l’establishment deve prendere atto, sul fondamento della propria peculiare logica costi-ricavi, che l’uso esclusivo della violenza avrebbe finito per essergli svantaggioso. Di qui la decisione di accogliere la rivendicazione nera “una testa, un voto”, che avrebbe fatalmente comportato il passaggio di leadership governativa: dalla bianca alla nera.
Ciò senza perderci, e anzi guadagnandoci, grazie alla vigente fase di mondializzazione, che consente, come appunto è avvenuto in Sudafrica, la consegna all’opposizione di un paese interamente spolpato, essendosi la leadership bianca assicurato il controllo di tutta l’attività economico-finanziaria che le interessa, nello stesso tempo che: a) ha legato le mani ai neri con una costituzione immutabile per cinque anni; b) ha scaricato loro addosso un debito strumentale col Fondo monetario internazionale, destinato a mettere in ginocchio i governanti neri così come ha messo in ginocchio, in questi anni, quelli russi.
“Gioco” particolareggiatamente illustrato da “Le Monde diplomatique” del 20 aprile (fuga di capitali, creazione all’estero di società fittizie, legali truffe bancarie ecc.), che conclude:
Il sistema economico e relativo potere sono stati modificati a tal punto che, quando i responsabili dell’American National Congress si insedieranno a Pretoria (a elezioni avvenute, ndr), scopriranno che le leve del potere sono altrove. (…) Alla fine del mese di aprile sarà l’euforia a prevalere quando il potere passerà nelle mani del popolo sudafricano e dei suoi dirigenti. Ma mentre i neri in questo paese si chiederanno se il potere che hanno ereditato è reale, in tutto il mondo gli ambienti economici tireranno un sospiro di sollievo”
Irreversibile vittoria della reazione?
Se con tanta espropriatrice metodologia democratica è stato possibile operare in Sudafrica (fino a pochi anni fa sinonimo di spietato, totalizzante apartheid), come escludere, così su due piedi, che anche in Italia non sia accaduto qualcosa di analogo, sicché i nuovi governanti non debbano, non solo per innata vocazione capitalistica, ma anche per necessità storica, andare al di là delle loro attuali intenzioni per ritagliarsi la restante polpa, determinando così quelle drammatiche contraddizioni sociali che tanto mostra di temere Agnelli?
D’altronde, come negar verità, se non in toto, quanto meno in parte, al testo introduttivo della citata rivista “La Comune”?
Vien da sorridere, si osserva infatti (p.2) in questo testo, quando si sente parlare di ‘pericoli per la democrazia’ in riferimento agli esiti di questa o quella elezione locale. Non esiste alcuna democrazia. Viviamo, tutto il mondo vive, gli esiti di scelte operate da forze ormai sottratte a ogni controllo, che usano le leve dell’economia come gli dei dell’Olimpo usavano i fulmini.
Insomma, la reazione ha già vinto. Non c’è all’orizzonte alcun pericolo fascista (fascismo inteso come revival mussoliniano, ndr), nè in Italia, nè altrove. La rivalutazione del fascismo (…) è stata semplicemente uno strumento utile per incrinare i capisaldi ideali di vecchi ordinamenti, ormai non più funzionali alle nuove oligarchie. Quel tanto di fascismo che ha potuto approfittare dell’operazione per riscuotere qualche successo in giro per l’Europa, non è che la bava di una vecchia lumaca. Il potere sta altrove, e con esso la minaccia che grava sulle classi subalterne, mai così inermi dalla Rivoluzione d’Ottobre a oggi.
Verità, quest’ultima (“classi subalterne mai così inermi”), confermata in “Le Monde” da Alain Touraine, della stessa razza, in contesto francese, della nostra intellighenzia di “Ragiona Italia”, e perciò del tutto immunizzato dal pericolo di sospettare la responsabilità del capitalismo in ordine all’insanabile piaga dilagante a livello di massa di “invendibili” (coloro che non hanno più possibilità oggettive di trovare acquirenti per la propria forza-lavoro) e di “malvenduti” (la moltitudine del precariato).
Gli Stati Uniti, scrive Alain Touraine, hanno creato decine di milioni di posti di lavoro, ma riducendo i costi salariali e, soprattutto, moltiplicando gli impieghi del terziario non qualificati e mal pagati. La Gran Bretagna ha creato per lo più posti di lavoro a tempo determinato o part-time. Le classi medie italiane reclamano, attraverso la Lega, che ci si sbarazzi di un terzo del territorio e della popolazione per ridare vigore all’economia del Centro e del Nord. La Spagna ha già messo un terzo della sua popolazione potenzialmente attiva fuori del mercato del lavoro. La Francia – dove quelli che potrebbero (in realtà, hanno necessità di, ndr) lavorare, e non ci riescono, sono più vicini alla soglia del 20 che del 12 per cento – scopre che numerosi settori di attività cercano di abbassare fortemente i costi salariali per cercar di sopravvivere.
Questo il dilemma, così stando le cose, per Alain Touraine:
1. “Gettare la zavorra (invendibili e malvenduti, ndr) per cercar di riprendere quota, e accettare quindi che il risanamento non trascini verso l’alto tutta la società francese, ma solo il 70 per cento della popolazione. Il resto sarebbe in parte confortato da misure assistenziali e in parte abbandonato alla violenza della ‘controsocietà’: mafia, droga, tumulti.”
2. “Rafforzare il nostro settore competitivo, il nostro armamentario tecnologico e, grazie alle risorse che questo ci fornisce, creare un nuovo ‘Stato provvidenza’, incaricato di limitare (sempre, dunque, resterebbe ‘zavorra’ da gettare, ndr) quei costi umani ,estremamente elevati, determinati dai rapidi cambiamenti sociali e dalla terziarizzazione accelerata dell’economia.”
Altrimenti detto: o la soluzione di tipo nazista (illustrata, come s’è visto, da Primo Levi, e già per tanta parte reale), o un ritorno a Keynes storicamente impossibile, se non altro per la mondializzazione in atto, sicché, come riconosce lo stesso Alain Touraine, “la frontiera fra sviluppo e sottosviluppo non passa più tra Nord e Sud: attraversa tutti i paesi (la quasi totalità dei quali espropriata della propria sovranità, ndr) e li divide in due parti.”
Il vero dilemma
Diagnosi (quella della “Comune”: la reazione ha vinto ed è in condizioni di operare come, a suo tempo, Giove con i fulmini) che ha un suo contenuto di verità, ma che non per questo par di poterla accreditare come esaustiva dato l’apparente oblio di due punti fondamentali della riflessione marxiana: a) la necessità che i capitalisti si divorino fra loro; b) l’eventualità che il conflitto capitale-lavoro determini la distruzione di entrambi gli antagonisti.
Se è sembrato, nell’immediato post-muro, e poi nella imposizione dell’America – con lo sterminio del Golfo – della propria egemonia planetaria, che la necessità denunciata da Marx non avesse più consistenza in ragione della gerarchia fra i grandi capitali venutasi a determinare, al presente Germania, Russia, Cina, Giappone preannunciano, nei fatti, nuove guerre interimperialistiche quanto meno sul terreno economico-finanziario, guerre che fatalmente determineranno nuove ridistribuzioni di profitti di tale entità, da non potersi escludere a priori il passaggio, più o meno indiretto, alle armi.
Per limitarci alla Germania, si consideri il suo processo storico dal crollo del muro a oggi: a) l’asse Parigi-Bonn è saltato, e mentre la Francia corre il rischio di trovarsi, economicamente, nella non invidiabile posizione dell’altro defunto impero occidentale, la Gran Bretagna, la Germania ha ripristinato il suo tradizionale impero economico nell’Europa centrale e orientale; b) l’annessione dell’ex Repubblica Democratica è stata fatta pagare a tutti gli alleati europei della Germania senza che nessuno abbia potuto farci niente; c) “Nella crisi jugoslava (“Le Monde diplomatiqe” citato) le tesi tedesche sul riconoscimento della Slovenia e della Croazia nel 1991 hanno avuto la meglio sulla prudenza raccomandata dalla Francia con le conseguenze tragiche che conosciamo.” d) si è tornati alla situazione immediatamente precedente la prima guerra mondiale, quando i due più grandi imperi quanto a capacità produttive ed espansionismo economico erano Stati Uniti e Germania, principali protagonisti di quella guerra e della successiva (’39-’45); e) posizione di forza, al presente, che quasi sicuramente consentirà a Bonn di entrare nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Il tutto da collegare con l’esistenza d’una Russia che, cinicamente depredata dall’Occidente (in particolare dall’America), ha ruotato di 180 gradi rispetto alla prima gestione Eltsin, e sta marciando a livelli di interscambio russo-tedesco ch’erano prima esclusivi dell’asse franco-tedesco; e con la presenza in Germania di una massa di disoccupati di quattro milioni, quanti ve n’erano, nota il citato “Le Monde”, alla vigilia dell’ascesa al potere di Hitler, riuscito elettoralmente vincente con un nazionalismo che avrebbe avuto, nel suo paese, gli stessi effetti sociali (in connessione col forte impulso all’industria bellica) del keynesismo adottato fra le due guerre negli Stati Uniti.
Donde la conclusione di “Le Monde”: “Ambizioni da grande potenza all’esterno, malessere sociale grave all’interno, due ragioni, per coloro che non hanno dimenticato una storia troppo recente, per guardare alla nuova Germania con occhio vigile.”
Ora la Germania non vale solo per la citata asserzione marxiana circa il fatale, inesauribile cannibalismo intercapitalistico, ma anche per le potenzialità distruttive dei suoi quattro milioni di disoccupati (ufficiali, e dunque, praticamente, almeno il doppio). Una Germania economicamente altrettanto forte dell’America, e tuttavia incapace di rimediare in qualche modo a una disoccupazione, che già ha concorso a rendere dirompenti razzismo e xenofobia, e che non ci vorrebbe niente per far esplodere nelle forme di violenza di massa che si son viste nel “marzo francese”, tanto che anche là, come qui da noi, i poteri forti dell’economia e della finanza sembrano aver optato, per le prossime elezioni politiche, per la “sinistra”, ritenuta più idonea della destra a puntellare la “pace sociale”.
La realtà è che in Germania, come in Francia, in Inghilterra, in America, ecc., il capitalismo ha dato concretezza alla prospettiva d’una fatale distruzione della civiltà uccidendo, per così dire, la gallina dalle uova d’oro, da esso generata con l’accumulazione originaria: la necessità-possibilità d’uno sfruttamento di massa attraverso il lavoro salariato.
La tecnologia gli permette, al capitale, uno sviluppo che, invece d’accrescere, riduce i posti di lavoro. D’altra parte la tecnocrazia politico-militare gli dà il modo di frammentare, su scala planetaria, le strutture produttive così da poter disporre in abbondanza di lavoro a buon mercato nelle più convenienti periferie del mondo. E poi, perchè investire in attività produttive, quando la rendita finanziaria frutta in un battibaleno – spostando da un capo all’altro del pianeta in pochi minuti masse di miliardi da capogiro – quanto e più dell’imprenditoria in un arco di tempo incomparabilmente più lungo?
Di qui la bomba atomica sociale: la massa crescente di invendibili a malvenduti.
Un’ovvietà che per un non-proprietario lavoro, nella società dello scambio, è sinonimo di autoriproduzione (soddisfazione quanto meno dei bisogni elementari), mancando il quale non resta che finirla con la vita, o entrare nei circuiti malavitosi, possibilmente quelli più redditizi (droga e armi), “consociativi” con i governi su scala mondiale. Il che dà ragione del fatto che nel paese-guida dell’Occidente, l’America, principale problema interno sia la criminalità, contro la quale sono partiti in guerra elevando da 4 a 64 i delitti punibili con pena capitale, e comminando l’ergastolo dopo tre crimini non meritevoli di morte.
Fenomeno, questo della criminalità diffusa al punto da indurre ad adottare contro di essa metodologie sterministe, che ha un precedente nella Francia prerivoluzionaria, dove i “poveri” ricavavano di che sostenersi taglieggiando, con masse d’urto irresistibili, campagna e città. Il rimedio fu trovato, a rivoluzione avvenuta, elevando i “poveri” a “proletari”, ridotti all’impotenza etica dal socialismo democratico. che trasformò, come scrivono i suoi apologeti, le “folle” in “popoli”.
Ma come rimediare oggi rappresentando il capitalismo l’ultima spiaggia, e dovendo considerarsi la guerra scatenata contro la criminalità perduta in partenza, unica alternativa al crimine diffuso non potendo essere altro che il generalizzarsi del modello Los Angeles?
Problema senza possibilità di soluzione (tanto più che senza soluzione appare anche il problema del costante aumento demografico), e che segnerà sicuramente la fine del capitalismo, senza coinvolgere la sua antitesi (il lavoro) solo se sarà riuscita a farsi soggetto rivoluzionario su scala mondiale, coinvolgendo invece essa pure, se la risposta sarà stata l’esclusiva opzione criminale: dilemma chiaramente non ponibile in esclusiva dimensione soggettiva, base di tutto essendo, come sempre, la materialità storica.
Perché vince il capitalismo
Marx, sappiamo, pur non escludendo la prospettiva catastrofica del conflitto capitale-lavoro, sempre ha optato per quella ottimistica, il trionfo del lavoro che, negando se stesso (come lavoro salariato, schiavitù – per i non-proprietari – della libertà in democrazia), avrebbe liberato l’intero genere umano.
Oggi però, ben più di quando le scrisse, appaiono attuali le parole di Brecht sulla pace e la guerra dei capitalisti, guerra “che si sviluppa dalla loro pace, come il figlio dalla madre”, una “guerra che uccide quanto la loro pace ha lasciato in vita”.
Realtà che don Ersilio Tonini, da quel sant’uomo che è, neanche riesce a immaginare, se, nell’articolo di condanna (“Manifesto”, 23/4/94) della citata mostruosità americana di elevare da 4 a 64 i reati punibili con la pena di morte, scrive, scandalizzato, che
quando questo accade, vuol dire che la ragione non serve più da guida, l’aggressività bestiale ne ha preso il posto; sicché si pensa che alla violenza (la violenza, in questo caso, a essere realisti, come adeguamento alla violenza genocida del mercato, ndr) non ci sia altro rimedio che una maggiore violenza. Il che è poi lo stesso ragionamento che conduce alla guerra; la stessa logica. Se questo è, con la sua decisione il governo americano riconosce di non poter più contare su un’adeguata riserva di risorse morali e neppure sul contributo delle forze educative.
A ben vedere, però, quando mai un governo americano ha puntato su “un’adeguata riserva di risorse morali”? Non è in America – notava Marx – che il capitalismo, a differenza di quello europeo, deve considerarsi da sempre genuinamente totalizzante mancanti come sono, alle sue spalle, i regimi precapitalistici del nostro continente? Non consiste, la differenza fra la suprema barbarie dei Lager, e la suprema barbarie di Hiroshima, nel fatto che la prima s’è consumata come sfruttamento del lavoro nel tempo, mentre l’altra, nucleare, ha inaugurato la nuova tecnocrazia dello sfruttamento totale (planetario per un verso, e senza più distinzione fra tempo di lavoro e tempo libero per l’altro) fondato su sterminio istantaneo, come s’è visto da Hiroshima al Golfo, sterminio che, dando luogo a un controllo assoluto su lavoro e risorse, ha finito col creare il vigente dualismo sociale caratterizzato (come Primo Levi pensava di poter attribuire esclusivamente alla barbarie nazista) da un’élite di signori e da una sterminata moltitudine di schiavi?
In particolare per quanto concerne il nostro paese come non vedere che il dualismo signori-servi è arrivato qui da noi al punto da trasformare il conflitto capitale-lavoro in una guerra intercapitalistica, condotta da una parte da capitani di ventura modello Agnelli e De Benedetti, e, dall’altra, modello Berlusconi, i primi illuminati protettori di una sinistra partitica e sindacale funzionale all’accumulazione, mentre il secondo, in difficoltà per il venir meno delle forze politiche su cui poteva contare grazie al leader socialista Craxi, ha dovuto immettersi direttamente in politica per non soccombere, a costo di allearsi – per la conquista democratica del potere statuale – con figuri politicamente e moralmente impresentabili?
Ma lo stesso non ha fatto la sinistra protetta dagli illuminati capitani di ventura, esibendo, nella manifestazione clou del 25 aprile a Milano, quei figuri cui si deve, in conseguenza della cancellazione della scala mobile e dello stato sociale, se un po’ di gente s’è gettata dalla finestra o s’è data fuoco per la perdita del lavoro e/o della casa, mentre altra è tornata al creatore prima del tempo non disponendo della necessaria assistenza sanitaria?
Materialità storica e soggettività, s’è detto, e naturalmente solo nella mente degli dei sarebbe possibile leggere come – con l’operare e interagire di queste componenti – andrà a finire circa le due prospettive marxiane: vittoria del lavoro o finale catastrofico per entrambi i contendenti e lo stesso sistema della vita, visto che esso pure è vittima dell’assolutizzazione del valore di scambio (il genocidio-ecocidio del mercato).
Una cosa comunque appare certa, oggi così come quando Brecht le dette espressione letteraria: non è che, lottando contro il capitalismo, si perda perché esso è spregiudicatamente cattivo, il contrario di noi costituzionalmente buoni, dovendosi in realtà imputare la nostra sconfitta a tutta una serie di fattori materiali e soggettivi, in primo luogo quello dato dalla differenza abissale fra noi e il capitalismo: che mentre quest’ultimo non smette mai di far guerra, riuscendo anche a farla in modo che i suoi apologeti possano spacciarla, medialmente, come pace, per noi, così come per don Ersilio Tonini e il “Manifesto”, vale la granitica persuasione che basti optare per la “cultura di pace” per aver così risolto ogni problema, a incominciare da lavoro, casa, vettovagliamento.
Roma 26 aprile 1994