di Gioacchino Toni
Ivan Carozzi, Fine lavoro mai. Sulla (in)sostenibilità cognitiva del lavoro nell’epoca digitale, Eris, Torino, 2022, pp. 64, €6.00
Nell’allarmismo con cu i media danno conto dell’aumento di casi di rifiuto di proposte lavorative o di abbandono volontario di un impiego, è ravvisabile la percezione dello scricchiolare di dogmi fondanti il sistema di sviluppo vigente e la consapevolezza che è difficile cavarsela ricorrendo a qualche vecchio luogo comune. Ad essere messe in discussione parrebbero essere la logica dei “sacrifici necessari” e la retorica “smart” con cui lo story telling dominante ha ammantanto tanti “nuovi lavori” digitali. Inizia ad essere difficile nascondere come questi ultimi, nei fatti, risultino “smart” esclusivamente per chi ne trae profitto mentre chi si trova ad eseguirli ne percepisce sempre più distintamente il livello di sfruttamento intensificato e dilatato.
Dietro alla retorica del lavoro “smart”, che può essere svolto “tranquillamente da casa”, si cela un universo di sfruttamento comportante una dilatazione dei tempi di lavoro ed un incremento della solitudine e della frustrazione che finiscono per intaccare l’intera esistenza. Tale situazione di malessere emerge chiaramente dalle esperienze delle persone intervistate da Ivan Carozzi, nel suo recente libro, Fine lavoro mai, edito da Eris.
“Ma a parte il lavoro, il resto come ti va?” chiedo a un amico incontrato per caso dalle parti della Stazione Centrale. “È un sacco di tempo che non ci vediamo”. “Come va? La verità è che sto lavorando troppo” risponde, “non riesco più a fare quello che voglio. Sono sempre stanco. Faccio fatica a staccare”. “Vale anche per me” dico, “mi sembra un problema che riguarda un po’ tutti. È una questione che salta sempre fuori quando chiedi a qualcuno come sta. Facci caso” (pp. 53-54).
Tra le storie raccontate vi è quella di chi, lavorando per qualche piattaforma internet, a cui aveva guardato come ad una sorta di parco giochi, si è trovato di fronte a un sistema di sfruttamento, manipolazione e competizione coordinato da personaggi grotteschi e deliranti senza scrupoli persino nei confronti di se stessi. Oppure quella di un giovane progettista di siti aziendali che racconta dell’estenuante permanenza in call dal primo mattino alla sera senza nemmeno trovare il tempo per un panino, con il lavoro che si protrae anche dopo cena con ricadute sulla qualità del sonno in un loop senza fine.
Ognuno poi scarica la pressione sull’altro, ma io, nel mio ruolo, devo essere bravo a non far surriscaldare il clima e a non stressare troppo il team di sviluppatori. In call bisogna provare a tenere la calma, e poi, finita la call, magari si prende a pugni la scrivania. Perciò tutta la tensione accumulata resta con te, dentro di te e non puoi condividerla con nessuno. Questa impossibilità di condividere lo stress, l’ansia, è stata amplificata dal lavoro in remoto, perché non si è più gomito a gomito nella stessa stanza e non è più possibile condividere i momenti di difficoltà. Sei da solo, lavori tanto e non riesci a sfogarti. La situazione diventa esplosiva (p. 33).
C’è chi racconta come, svegliatosi all’alba in anticipo rispetto al previsto, mette automaticamente mano allo smartphone e, dopo aver passato in rassegna le novità sui social ed aver visionato sommariamente i quotidiani online, finisce per dare un occhio anche alle mail di lavoro spedite magari da qualche collega o cliente dall’altra parte del mondo.
Potrei evitare di aprire le email alle 6 del mattino e invece no, le apro. Ecco la complicità di cui ti dicevo! Leggo e scopro che l’email contiene un’informazione di lavoro. Rimetto il telefono sul comodino e provo a riprendere sonno, ma l’informazione ormai è in viaggio, lavora, lavora e forza la mente a seguire un percorso, la costringe a svegliarsi, a dire di “Sì”, a dire di “No”, a decidere, a considerare le variabili, a porre domande, a individuare soluzioni, a cestinare, a scegliere, fino a quando, prima o poi, non ritorna il sonno e allora, con la luce dell’abat-jour accesa, finalmente mi riaddormento (p. 55).
Nel volume viene riportata anche la storia di un giovane poeta cinese trasferitosi in un grande centro urbano per fare l’operaio. «Quando non è impegnato alla catena di montaggio, vive all’interno di un dormitorio in uno spazio di dieci metri quadri. Nel dormitorio riposa, mangia, caga, scrive e pensa» (p. 47). Salvo poi decidere di farla finita con l’esistenza buttandosi dal diciassettesimo piano di un palazzo.
Carozzi ricorda come Time abbia scelto come Man of the Year 1982 il personal computer affidando la cover all’artista George Segal che, alla sua maniera, ha deciso di posizionare al cospetto del computer uno dei suoi consueti esseri umani di gesso monocromo bianco.
Nella foto di Time l’uomo di gesso è intimidito, come se si trovasse al cospetto di un nuovo datore di lavoro. Il datore di lavoro è imperscrutabile. Il colloquio di lavoro è diverso da ogni altro precedente colloquio di lavoro. L’uomo di gesso non conosce ancora la sequenza dei gesti che schermo e tastiera sembrano invitarlo a eseguire. Il dialogo tra l’uomo di gesso e il computer è silenzioso. Segal mette in scena il principio di un rapporto. Sono le prime luci sulla scena di un nuovo ordine domestico. Il computer entra nelle case. L’uomo di gesso si mantiene a distanza, non per rifiuto o disinteresse, ma per una sorta di riverenza che lo spinge a indugiare. Eppure è attratto dallo schermo. Anche se ormai è un uomo anziano, di fronte a questo utensile che non conosce, apparso sul tavolo di casa, si sente come un bambino. L’uomo di gesso è ogni uomo. Ciascuno di noi è stato l’uomo di gesso. Le mani restano posate sulle ginocchia, anche perché l’uomo di gesso non ha idea di dove guidarle lungo la tastiera e non sa se schiacciare o meno i pulsanti. «Che succede se premo quel pulsante?» si chiede l’uomo di gesso. Non è che magari, per sbaglio, la macchina poi si spegne? E in quel caso, com’è che poi si riaccende? E se la macchina si rompe o esplode? Non sono le schermaglie tra un uomo e un cagnolino che s’incontrano per la prima volta. C’è qualcosa di più profondo in gioco. L’uomo di gesso fiuta la potenza dell’oggetto che gli si para di fronte, muto e scatolare, solo in apparenza simile al televisore (pp. 20-21).
A distanza di alcuni decenni da quella cover, è come se quell’essere umano, dismesso il suo involucro di gesso, dopo aver passato così tanto tempo davanti a quel nuovo datore di lavoro dotato di schermo, si fosse improvvisamente deciso ad alzarsi e andarsene, compiendo così un suo gesto “smart”. Non importa dove, intanto se ne è andato lasciando solo l’apparecchio e qualche grattacapo alla macchina dello sfruttamento che, ci si può scommettere, farà di tutto per riprenderselo.