Valeria Graziano inizia con una sua breve presentazione. Faccio parte di una rete che si chiama “Pirate Care” che riunisce ricercatori, militanti e attivisti coinvolti in processi di cura e solidarietà insorgenti, disobbedienti, quindi pratiche di riproduzione sociale autorganizzate e messe in comune e che negli ultimi anni sono sempre più spesso state criminalizzate o represse, come per esempio l’aiutare migranti che attraversano il Mediterraneo e i Balcani oppure le reti in supporto a donne che cercano un’interruzione di gravidanza, per fare due esempi.
L’ipotesi della ricerca è che queste pratiche di “cura pirata” rappresentino una modalità di militanza emergente, pur con tantissimi punti di contatto con lotte del passato, specialmente con i movimenti per il diritto alla salute. Insomma, pensiamo che la Pirate Care possa darci qualche spunto interessante per pensare le forme di militanza specifiche per questi tempi che ci toccano in sorte. Sono circa due anni che portiamo avanti questo processo di ricerca e il nostro strumento principale è un sillabo online, ovvero una piattaforma in free software dove raccogliamo materiali e risorse che poi documentano e comunque provengono da diverse esperienze di Pirate Care. Nel suo piccolo, questo sillabo è anch’esso una pratica pirata in quanto include parecchi testi e libri liberati, appunto piratati, che secondo noi dovrebbero essere di libero accesso.
Sono qui con Tomislav Medak che interverrà dopo di me e volevamo condividere qualche riflessione a partire proprio da questa esperienza di pedagogia politica, per ragionare sulla triplice natura della crisi che impatta simultaneamente ambiente, cura e lavoro. Tomislav si concentrerà di più sul versante lavoro e ambiente e io, invece, vorrei chiacchierare sul nesso “lavoro di cura”-“lavoro e cura”.
La pandemia ha visto una vera e propria esplosione di pratiche di cura dal basso e di iniziative di mutuo aiuto: brigate di solidarietà che vanno a fare la spesa, c’è chi cuce le mascherine, chi dona denaro ai fondi di emergenza per sex workers e migranti, c’è chi si organizza con i condomini per non pagare l’affitto, ci sono i genitori che si mobilitano per far fronte comune alle esigenze dei propri figli e così via.
Un dato a mio avviso interessante è che, sin dall’inizio, tante di queste iniziative sono state prese d’assalto da volontari, in alcuni casi addirittura non si è saputo come far partecipare le persone che volevano dare una mano perché c’erano più volontari che capacità organizzative nei collettivi. Questo ci dice quanto il lavoro di cura, se organizzato in maniera libera e giusta, possa essere un’attività estremamente gratificante e anche una fonte di godimento politico.
Ora che si va verso una seconda fase, in tante ci stiamo chiedendo come poter utilizzare queste esperienze di cura collettiva politicamente, come mantenerle politicizzate in qualche modo. Un rischio che io vedo qui sarebbe quello di concepire una “fase uno” e una “fase due” con un immaginario troppo speculare a quello governativo: ovvero prima ci si è presi cura nell’emergenza e poi si passa alle rivendicazioni su lavoro, reddito, servizi eccetera.
Questo approccio rischierebbe di mancare un punto cruciale che emerge dalle pratiche di cura pirata che storicamente hanno offerto e offrono un’esempio della continuità politica tra il mettere in comune la riproduzione sociale e poi la capacità di portare avanti con forza tattiche più insurrezionaliste diciamo di rivendicazione. Io credo che la potenza politica dei nostri tempi possa passare proprio dal tenere insieme questi aspetti nell’organizzazione delle lotte a venire.
Detto in altro modo non sono naïf, non sono spontaneista e non credo che tutto il mutuo aiuto sia immediatamente politico. Anche se usiamo la parola “solidarietà” spesso in maniera generica per parlare di molte di queste esperienze, io credo che la solidarietà rimanga una forma di generosità in realtà molto specifica, legata ad un lavoro specifico di ridistribuzione del rischio: cioè solidarietà vuol dire accollassi consapevolmente, in maniera partigiana, la vulnerabilità che toccherebbe a qualcun altro sostanzialmente.
Però un fatto nuovo dell’evento Covid-19 e delle iniziative di mutuo aiuto che ha generato è che una quantità senza precedenti di persone sta facendo esperienza simultaneamente della propria interdipendenza di specie sia dell’ambiente sia delle altre persone e sta facendo questa esperienza in una modalità che non è mediata né dallo Stato né dal capitale, mentre di solito l’interdipendenza la incontriamo o sotto forma di servizi da acquistare e consumare oppure come una burocrazia contro la quale spesso ci tocca combattere.
Le iniziative di Pirate Care invece staccano la soddisfazione dei bisogni dalla necessità del salario e quindi permettono un piccolo scarto metabolico rispetto al classico produci-consuma-crepa, ma, oltre a questo, le esperienze di solidarietà disobbediente stanno veramente dimostrando una capacità unica di ridisegnare il servizio o comunque le prestazioni di cura collaborativa con gli utenti. Questo sta portando a trovare soluzioni più intelligenti e sostenibili rispetto al panorama attuale perché non dobbiamo dimenticarci che, mentre bisognerà premere tantissimo sul ritorno agli investimenti pubblici su sanità, scuola, casa, reddito eccetera, tassando i capitali, la pressione sul pubblico non potrà concentrarsi solo sul chiedere più risorse perché sappiamo benissimo che il welfare che abbiamo ereditato è stato ed è fonte di oppressione e discriminazione per moltissime persone.
Ecco io credo che sia lo Stato che i grossi interessi del capitale si siano accorti della potenziale scarsa governabilità delle pratiche di Pirate Care, che tra l’atro stanno anche dimostrando una capacità di scalare notevole oggi.
La rete di solidarietà che avete creato nel nord-est italiano ne è un esempio molto forte. Credo che sarà in atto, se non è già in atto, una rincorsa pazzesca di questi gruppi di potere per capire come governare questa società civile che rischia di accorgersi di non avere poi tanto bisogno di loro e mi aspetto che si tenterà di riorganizzare il terzo settore in maniera feroce per renderlo depotenziato, cercando di trasformarlo in impresa, anche se sociale, e rimodellando quindi servizi attraverso un mix di paternalismo, verticalismo burocratico da un lato e poi retto da lavoro volontario o forzatamente volontario dall’altro. Su questo quindi, secondo me, ci sarà da spendersi molto rispetto alle forme organizzative del terzo settore.
Un ultimo punto su cui volevo ragionare insieme è che appunto molte persone stanno vivendo una situazione in cui diventa ovvio che tra i lavoratori cosiddetti essenziali, termine su cui ci sarebbe da aprire tutto un ragionamento, ma non qui, comunque tra queste figure essenziali non compaia nemmeno una figura dirigenziale: non compare un manager , non compaiono direttori, investitori, CEO e quant’altro. Di questo se ne stanno accorgendo sia i lavoratori stessi, mentre si trovano ad autorganizzarsi per far fronte all’emergenza, e sia gli utenti dei vari servizi, la cittadinanza allargata, e su questo asse trasversale di solidarietà tra lavoratori e utenti, che credo sia abbastanza raro storicamente a darsi, ecco a mio avviso credo che ci si ponga di fronte un terreno di nuovo politico prezioso su cui lavorare. Grazie e niente aspetto con ansia di ragionare insieme.
TOMISLAV MEDAK
La nostra riflessione parte dagli sforzi per organizzare collettivamente cura e mutualismo in risposta alla pandemia. Sforzi che il nostro esteso network di Pirate Care, nell’ultimo mese e mezzo, ha documentato nel nostro “Abbatti la curva, aumenta la cura”.
Ciò che la pandemia ha dimostrato, è che le economie sono incluse e subordinate alla stabilità delle società. La crisi ambientale planetaria ha dimostrato che le società sono incluse e subordinate alla stabilità della natura.
Ad ogni modo la crisi attuale ha mostrato una grande inadeguatezza della capacità di cura e adattamento, minati da decenni di ristrutturazione neoliberale che ha reso incapaci i nostri sistemi sociali ed ecologici di rispondere a una malattia della cui imminenza eravamo stati avvertiti.
Qui vorrei, stando sulle pratiche, improvvisare tre pensieri partendo da questa incapacità, per dire qualcosa sulla fragilità, la salute eco-sistemica, il sapere e le strategie per far fronte alla crisi ecologica planetaria.
Fragilità
Come è possibile che una sola settimana di perturbazione causi una drammatica carenza di cibo? Che, negli USA, un milione e mezzo di persone con stipendi da fame debbano ricevere assistenza dalle “banche del cibo”? Che nella filiera alimentare mondiale, dove un terzo di ciò che è prodotto viene sprecato, l’ONU metta in guardia sul fatto che 265 milioni di persone saranno spinte sull’orlo della fame? Come si spiega che il bene fondamentale per la vita umana, il cibo, sia scarso eppure viene sprecato?
I nostri compagni di Cooperation Birmingham leggono praticamente questa condizione come il risultato combinato dell’unione del sistema capitalistico di rifornimento del cibo, del sistema punitivo delle banche del cibo (organizzato da uno stato sociale paternalistico), con l’indebolimento politico della classe lavoratrice. Così, hanno risposto organizzando una cucina di solidarietà: trasformando un bar a gestione cooperativa e organizzando più di 60 volontari per consegnare giornalmente più di 150 pasti caldi ai bisognosi. Ecco quello che scrivono: «Abbiamo bisogno di un mutuo aiuto popolare per creare forti istituzioni alternative che riconquistino il potere dalla élite e lo ridistribuiscano alla classe lavoratrice. Dobbiamo avere un grande ruolo nella scrittura delle regole del mondo a venire».
Un altro aspetto della crisi della disponibilità di cibo è il calo del lavoro stagionale. Con i confini chiusi, i governi anti-migranti stanno affrontando una scarsa disponibilità di lavoro migrante da sfruttare. Così stanno organizzando speciali regole di ingresso per lavoratori dall’Est Europa per la raccolta di asparagi e insalata, ma al tempo stesso a questi lavoratori viene negato sia il posto di lavoro che l’assistenza sanitaria pubblica (per loro e per le loro comunità d’origine).
Per contrastare questo processo, Sezonieri, una coalizione austriaca di sindacati e attivisti, si è organizzata assieme ai lavoratori stagionali migranti e hanno recentemente pubblicato una lista di richieste, chiedendo salari più alti, protezione sanitaria, compensazioni per i rischi alla salute, e l’abolizione dei discorsi nazionalisti e anti-migranti, ma anche il passaggio a un sistema di produzione del cibo più giusto e sostenibile.
Per rispondere alle domande poste in apertura, le nostre filiere alimentari sono così fragili perché tutti i sistemi ad alto volume di produzione, sussunti dall’imperativo capitalistico dell’accumulazione, richiedono un’efficienza just-in-time. Questi sistemi sembrano flessibili, ma hanno poca capacità di adattarsi a perturbazioni simili a questa pandemia.
La produzione mondiale di cibo è stata ottimizzata per tagliare i costi del lavoro, della tecnologia e della terra. Nell’immediato futuro, dopo la fine della pandemia, saremo costretti ad assistere ad una iper-automazione delle fattorie e a un ri-modellamento della sovranità alimentale lungo le linee del nazionalismo.
Ma tecnologia e nazionalismo non risolveranno la fragilità. Perché ciò accada dobbiamo organizzare l’approvvigionamento alimentare secondo i principi di localizzazione, titolarità collettiva, migliori salari e condizioni di lavoro e internazionalismo.
Salute ecosistemica
Gli ultimi quattro decenni hanno visto aumentare di tre volte i salti di patogeni dagli animali agli umani. L’aumento di epidemie come il coronavirus è una conseguenza di una rapida incursione dell’agricoltura industriale negli habitat naturali e, d’altra parte, di una crescente inclusione di specie selvatiche nella filiera capitalista delle merci.
Le zone di interfaccia tra gli habitat naturali in ritirata e le invadenti fattorie, facilitano i salti zoonotici. Una volta che i patogeni saltano dalle specie selvatiche a quelle allevate industrialmente, l’agricoltura intensiva gli offre le perfette condizione per una veloce diffusione e per la mutazione.
Gli ecosistemi, la cui complessità viene ridotta a causa delle incursioni dell’agricoltura industriale, hanno ridotte capacità di arrestare la diffusione di epidemie tra le specie selvagge. L’implicazione è che la salute degli umani, del bestiame e delle specie selvatiche, è, come il concetto di OneHealth (UnaSalute) suggerisce, un tutto integrato.
La condizione degradata della salute ecosistemica è il risultato di una trasformazione su larga scala degli habitat naturali. Gli umani hanno trasformato significativamente il 75% del bioma terrestre e il 66% del bioma marino
Il vettore di questa degradazione è un processo combinato di estrazione, riduzione della complessità e sfruttamento che Donna Haraway ha definito Piantagionocene e che oggi necessita di essere considerato, come suggerisce l’epidemiologo Robert Wallace, nei termini di geografie relazionali di circuiti globali di capitale, dove l’allevamento di maiali in Cina, o di mucche in Amazonia, è finanziato da gente come Goldman Sachs e Blackrock.
Sapere e strategia
Come contrastiamo la fragilità capitalistica di fronte alla destabilizzazione e alla malattia ecosistemica? Non c’è una risposta facile e unica. Esattamente come non c’è un riferimento univoco per valutare la capacità di cura nella pandemia; ce ne sono molti, a seconda della classe, del genere, della razza o del territorio di ognuno.
C’è bisogno di una differente organizzazione del soddisfacimento dei bisogni umani nella natura. Un’organizzazione che liberi parzialmente la natura per lasciare più biocapacità alle parti non umane degli ecosistemi, e che sia al tempo stesso plurale, meno impattante, legata e interdipendente con i sistemi locali e globali.
I principi di agroecologia, per esempio, offrono un antidoto alla fragilità del sistema alimentare. Queste pratiche, locali e plurali, possono essere più produttive per persona e per ettaro di quanto non lo sia l’agricoltura industriale e più efficaci nell’assorbire anidride, nel difendere la biodiversità e nel resistere il cambiamento climatico.
Il contrasto alla fragilità capitalistica è sia una questione di instabilità del sapere che dell’instabilità della pratica.
Le strategie di adattamento alla pandemia in atto sono organizzate attorno ad una malattia il cui comportamento è largamente definito da elementi sconosciuti. Il risultato di queste strategie può solo essere giudicato con settimane di ritardo. Ecco perché le interpretazioni teoriche standard non riescono a leggere le radicali novità epistemiche e politiche della situazione