Francia – L’assolutismo di Macron e la “nuova repubblica” dei movimenti

«Se uno lancia un sasso, il fatto costituisce reato. Se vengono lanciati mille sassi, diventa un’azione politica. Se si dà fuoco a una macchina, il fatto costituisce reato. Se invece si bruciano centinaia di macchine, diventa un’azione politica. Protesta è quando dico che una cosa non mi sta bene. Resistenza è quando faccio in modo che quello che adesso non mi piace non succeda più.» (Ulrike Marie Meinhof)

“Se il ruolo del Presidente della Repubblica è quello di prendere una decisione basata sull’opinione, non c’è bisogno di un’elezione presidenziale.” Queste sono le parole dell’entourage di Emmanuel Macron, rilasciate il 5 Aprile, dopo 3 mesi di scioperi, blocchi, manif sauvages, cortei che hanno visto milioni di persone scendere in piazza.

Macron stesso non ha mancato di insultare ed inimicarsi molti attori dello spettro politico nazionale, non solo di sinistra, come il sindacato Sud Solidaires, ma anche quelli di centro e cattolici, come la CFDT[1], sindacato che storicamente ha appoggiato la riforma delle pensioni di Alain Juppé e per anni è stato il principale interlocutore degli imprenditori e dei governi di destra. Nella manifestazione di giovedì 13 aprile, che abbiamo seguito dall’interno, la CFDT era presente in gran numero, con 8 mezzi da cui partivano interventi e musica mentre entravano in Place de la Bastille. Nel frattempo, a pochi metri, la polizia lanciava lacrimogeni per disperdere i manifestanti, che rispondevano con petardi e sassi, di fronte alla Banque de France. Da parte della CFDT non c’è stata nessuna dissociazione dalla manifestazione.

Come è stato detto chiaramente in articoli precedenti, ci troviamo di fronte ad un presidente sempre più isolato, ma che non dobbiamo immaginare solo: è stato in grado non solo di legare a doppio filo con il suo destino il suo entourage, ma anche di farsi portavoce dell’oligarchia finanziaria, che è un blocco di potere rispetto al governo di questo paese. Inoltre, negli anni ha portato sempre più a destra la sua narrazione, arrivando a dichiarare che vede come unica avversaria politica Marine Le Pen, e di fatto aprendo alla sua avanzata elettorale e di consensi, e questo, in un discorso di ordine e disciplina, gli fa sicuramente gioco.

L’uso ripetuto e sfrontato del 49.3, del 47.1 e di altri artifici legislativi per portare avanti le sue scelte ci parlano di un campo di battaglia: quello della Repubblica, intesa come Res Publica. Il presidenzialismo francese non ha lo stesso sistema di controllo e limitazione dei poteri che esiste ad esempio per il presidente statunitense. Questo deriva dalla ricchissima storia costituzionale francese e dal fatto che la costituzione attuale è stata proposta da Charles De Gaulle dopo che i golpisti avevano preso la Corsica minacciando di fare lo stesso con Parigi, se il presidente non avesse dato potere a De Gaulle di creare un governo di unità nazionale per gestire la crisi della guerra in Algeria.

La forma del semi-presidenzialismo francese nasce dunque da una figura che ha fatto del centralismo e del governo di una persona al comando una cifra politica. Questa struttura politica e burocratica si basa su un suffragio universale diretto e su una concezione ben specifica di Nazione e di Repubblica, che si scontra con la visione che emerge in alcune costituzioni precedenti, le famose costituzioni rivoluzionarie. “Da un lato, una Repubblica votata alla conservazione dell’esistente, e in primo luogo degli interessi sociali delle classi dominanti, degli oligarchi finanziari e dei loro affiliati, dei professionisti della politica e delle loro clientele. Dall’altro, una Repubblica che garantisca la protesta[2] contro l’esistente, le disuguaglianze, le ingiustizie, le corruzioni e le menzogne, che inevitabilmente danno vita a qualsiasi potere e dominio in atto nella loro eterna volontà di affermarsi.

“Non basta quindi proclamare la Repubblica perché sia vera”. Non basta nemmeno avere istituzioni, costituzioni, regimi, numeri, ecc. perché la Repubblica sia fedele al principio di uguaglianza dei diritti su cui si fonda. La posta in gioco è una cultura e una pratica politica in cui l’esercizio concreto della sovranità popolare è garantito da uno spazio pubblico pluralista, plurale e diversificato in cui i cittadini agiscono liberamente, cioè deliberano, condividono, scambiano, contestano, inventano, protestano, realizzano, compiono, negoziano, propongono, dimostrano, rivendicano, proclamano, costruiscono, rifiutano, approvano, ecc.

In questa concezione radicalmente democratica della Repubblica, l’affermazione e la tutela, il rispetto e l’approfondimento dei diritti fondamentali – esprimersi, informarsi, riunirsi, manifestarsi – prevalgono sulla loro traduzione istituzionale, che precedono e controllano.

È in questo senso che la Repubblica è indissolubilmente sociale e democratica. Perché se pretende di dare diritti alla maggioranza senza preservare le libertà individuali di ciascuno, apre la strada a nuove confische da parte di nuovi padroni e nuovi prevaricatori, attribuendosi la legittimità e il beneficio della volontà generale al riparo del potere statale.”[3]

In questo quadro, De Gaulle era stato in grado di stringere un compromesso politico rispetto alla Republique sociale, alla dimensione dei diritti e delle tutele sociali. Questo compromesso è riuscito ad essere mantenuto per decenni, infatti anche le riforme che colpivano gli altri stati europei, venivano applicate in Francia anni dopo. Questo fa riferimento alla tradizione autogestionaria che ha caratterizzato le origini della sécurité sociale e che solo successivamente è stata progressivamente statalizzata, quindi anche da questo il ritardo nell’applicazione di riforme neoliberali.

Questo compromesso è saltato con i gilet jaunes, che hanno messo in luce la rottura di un patto sociale a partire dal caro benzina, ma allargandolo ad un problema di redistribuzione della ricchezza, causando un irrigidimento dello stato e un aumento della violenza repressiva dello stato. Macron nel 2019 diceva “Repressione, violenza poliziesca, queste sono parole inaccettabili in uno Stato di Diritto”.

Questa frase ci riporta alla frase iniziale pronunciata dall’entourage di Macron rispetto alla riforma delle pensioni (“se il ruolo del presidente è prendere decisioni sulla base delle opinioni, non c’è bisogno di elezioni presidenziali”), ponendo questo interrogativo: lo Stato di Diritto è dunque quello ricondotto al diritto assoluto, senza freni, dello Stato, a cui la volontà generale si deve piegare? In questa visione lo Stato si posiziona fuori dalla società, al di sopra e prevaricante ogni forma che esuli dalla sua struttura.

Dentro questo quadro si posiziona Macron, dentro una cultura politica per cui Marx ha coniato il termine Bonapartismo per riferirsi alla tendenza autoritaria e personalistica che ha corrotto molte esperienze repubblicane e che con la Costituzione gollista e le ulteriori modifiche portate da Mitterand, ha dato la possibilità a Macron di isolarsi in una bolla di potere: senza partito, senza possibilità di ricandidarsi, ma con la possibilità di aggirare le discussioni parlamentari e usare l’apparato repressivo a suo gradimento per perseguire il suo sogno: essere la Margaret Tatcher della Francia, riuscire a mettere fine ai movimenti sociali che da quasi un decennio stanno impedendo le riforme neoliberali della sua agenda.

“La crisi della rappresentanza elettorale non è quella della democrazia francese, ma piuttosto della sua confisca oligarchica, di cui l’assolutismo presidenziale è sintesi e simbolo. Il fatto che si sia perso tanto tempo e tante opportunità non impedisce che ci sia una potenziale fonte di rinnovamento democratico.”[4]

È sotto questa luce che si può cogliere una crisi che ha una natura multidimensionale, che emerge dalla riforma delle pensioni, ma che abbraccia la gestione dei beni comuni, come nel caso dei mega bacini a Sainte Soline, ma anche di molte altre lotte territoriali che Soulevements de la Terre sta mettendo in connessione, mentre dall’altra parte è la morte della Quinta Repubblica, come emerge chiaramente dalle dichiarazioni di Mélenchon e sulla presa di coscienza generale della necessità una nuova forza costituente e istituente. Su questo le parole di Etienne Balibar sono interessanti: “Non mi faccio nessuna illusione sulle capacità […] di democratizzazione endogena del sistema dello Stato nella sua forma attuale e a partire dalle sue proprie istituzioni. Tutta la questione è di sapere se abbiamo un concetto – e anche questo elemento è apparso nella discussione a Paris 8 – puramente statale di ciò che chiamiamo istituzione, oppure se tentiamo di avere un concetto più largo di istituzioni. C’è una tradizione anche nel pensiero di sinistra – e qui sono molto lontano da ciò che ho appreso dal mio maestro Althusser, sono evoluto in tal senso – c’è una tradizione di pensiero critico, nel senso largo del termine e per certi aspetti rivoluzionaria, che utilizza la categoria di istituzione in un senso molto più largo, più attivo, più rivoluzionario che il significato giuridico e statale del termine. Cornelius Castoriadis ha parlato per esempio de L’Institution imaginaire de la société, Miguel Abensour ha impiegato l’idea di una capacità istituente dei movimenti popolari, ecc. Sono modi di dire che i movimenti che rimettono in questione la verticalità dello Stato o il monopolio delle classi dominanti sul governo della società non sono solo dei movimenti che distruggono, ma che inventano, che organizzano, che propongono dei modi di organizzazione della società.”

Questa spinta insurrezionale e creativa si basa su varie esperienze di organizzazione collettiva, a partire dalle AG, le assemblee generali che si tengono nei luoghi di lavoro, nelle università come nei collettivi, ma anche da forme di solidarietà dal basso che non negano la necessità di strutture e di organizzazioni, ne è la dimostrazione la composizione dei cortei.

Come dicevamo all’inizio, nel corteo di giovedì 13 aprile, abbiamo visto lo spezzone del sindacato cattolico entrare in piazza mentre a fianco partivano lacrimogeni e petardi, abbiamo visto un cortège de tête enorme, da almeno 50mila persone, con una composizione più che variegata, per età, genere, occupazione, classe e razza. L’impressione è che più che un corteo, si trattasse di una moltitudine che stesse convergendo da geografie socioeconomiche e culturali diverse, come tanti torrenti che si immettono in un fiume principale. Alla stessa maniera il giorno dopo la partenza delle manif sauvage a partire dal presidio alla Mairie di Parigi dava l’impressione di un lago che poi dava vita a tanti fiumi emissari, che si sono sparsi in maniera fluida per le strade di Parigi.

Le forme di queste proteste sono diverse: dai blocchi mattinieri dei netturbini, l’occupazione di LVMH, multinazionale del lusso, le manif sauvage, gli scioperi che continuano da tre mesi, le AG nelle università e le occupazioni dei licei, i blocchi stradali, le caceroladas di fronte ai comuni, gli scontri con la polizia, le barricate ed i presidi. Sono tutte forme diverse ma in comunicazione, che parlano un linguaggio che alla base coglie un’incompatibilità sistemica, sia con questa forma presidenziale tecnocratica neoliberale, sia con un sistema capitalistico che estrae profitto dalla vita delle persone e dai territori. La dimostrazione è come un movimento come Soulevements de la Terre, di fronte alla minaccia di dissoluzione da parte del ministro dell’Interno Darmanin, abbia raccolto 80mila firme di persone che si sono dichiarate di Soulevements de la Terre, oltre ad un appoggio molto vasto del mondo accademico e culturale a livello nazionale ed internazionale.

Questa lettura è emersa in continuità con i vari movimenti che si sono dati in Francia dal 2016 ad oggi, vi è un continuo processo di accumulo che arricchisce le esperienze di questi mesi: è innegabile però che il movimento dei gilet jaunes abbia segnato una svolta in termini di radicalità, non tanto dal punto di vista delle pratiche, quanto piuttosto dal punto di vista del discorso. Se fino al 2019 le esperienze di lotta si ponevano a difesa dello stato sociale, e quindi lottavano per rivendicare il mantenimento di determinate condizioni, i gilet jaunes hanno rotto la compatibilità, ponendo una critica radicale e rivoluzionaria al sistema di governance. Questa rottura, nel processo di accumulo, è maturata ed è elemento centrale anche nei soggetti che stanno riempiendo le piazze da tre mesi a questa parte.

Ovviamente questo non vuol dire che non rimangano contraddizioni e differenze, ci sono tematiche e condizioni materiali che ancora dividono, è questa è una delle sfide de “l’insurrezione democratica” di cui parla Etienne Balibar.

Di fronte a questo, lo Stato aumenta il livello di violenza e repressione sempre di più, con flashball e arresti arbitrari, a Parigi ed in città come Rennes, Nantes, Marsiglia, ma anche a Sainte Soline, in particolare da parte della BRAV-M[5], la divisione motorizzata creata nel 2019 che non porta codici identificativi e che è oggetto di molte inchieste per uso eccessivo della forza e pratiche illegali. Il 5 Aprile il Consiglio di Stato ha rifiutato il ricorso che chiedeva l’applicazione di codici identificativi proprio a quei reparti che non ne portano, anche se per legge dovrebbero averli sempre addosso.

L’espansione e la tenacia di questo movimento stanno isolando sempre di più il presidente, rendendolo politicamente sempre più impotente, dato che ora si dovrà porre la domanda di come fare a governare nei prossimi quattro anni avendo come strumenti quasi unicamente le forzature legislative come il 49.3. Come farà a portare avanti la sua agenda neoliberale nei prossimi quattro anni è una domanda aperta.

D’altra parte, venerdì scorso abbiamo visto come il Consiglio Costituzionale abbia approvato la legge sulle riforme bocciando i sei articoli sul lavoro degli anziani, rendendo di fatto la riforma ancora più squilibrata.

Macron non ha aspettato e ha reso legge la riforma nella notte, portando avanti quello che viene definito “liberalismo autoritario” da Grégoire Chamayou[6]: «Questo progetto politico di espropriazione democratica da parte di uno Stato autoritario, ammantato della sua legittimità elettorale, è consustanziale all’offensiva economica volta ad annullare le conquiste sociali che limitano e riducono, compensano o mitigano i danni del capitalismo. La sua brutalità è proporzionale alle ingiustizie e alle disuguaglianze che consapevolmente accresce, a vantaggio degli interessi particolari di una casta di ultra-privilegiati che si riassume nella recente promozione di due francesi – Bernard Arnault e Françoise Bettencourt – al primo posto nella classifica mondiale degli immensamente ricchi».[7]

Sicuramente quella del Consiglio Costituzionale è la peggiore tra le decisioni che poteva prendere, bisogna però considerare qual è il teatro della guerra: la battaglia per la riforma delle pensioni è solo una dentro un’insurrezione che sta man mano facendo sue rivendicazioni che parlano di riappropriazione del tempo, di processi decisionali nei luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle università. Dentro il movimento sta emergendo non solo una critica sistemica, ma anche la volontà di riappropriarsi degli strumenti decisionali e costruirne di nuovi, di costruire spazi di discussione e di organizzazione nuovi che superino i legacci di istituzioni svuotate di significato.

Ci sono alcuni elementi che sono importanti in questo movimento: Etienne Balibar usa il termine “insurrezione democratica” per descrivere quello che sta succedendo in Francia in questo momento,

Le sfide in campo sono tante: per Macron, riuscire a prendere per sfinimento i movimenti sociali e climatici e riuscire a governare nell’isolamento della posizione in cui si è messo, portando avanti un cesarismo liberal-tecnocratico, dall’altra parte per i movimenti sociali e climatici riuscire a continuare a mobilitarsi, sperimentare pratiche nuove e costruire una fase istituente dal basso, affrontando quelle che Mao chiamava le “contraddizioni in seno al popolo”.

Rispetto a questo, credo sia utile cercare di trovare quali sono gli elementi comuni di questa critica sistemica: uno di questi è, per dirla in maniera semplice, riprendersi la propria vita. Cosa intendo dire con questa frase che può risultare banale? Dal punto di vista della discussione sulla riforma delle pensioni, questa ha aperto una discussione che è uscita dall’alveo del concetto classico del valore della forza lavoro e del suo sfruttamento, ovvero della creazione di plus valore.

«Il plusvalore nasce dallo sfruttamento del lavoro, nasce dalla pressione capitalista sul salario, ma si determina nella divisione della giornata lavorativa in tempo di lavoro necessario e tempo di lavoro eccedente. Non siamo di fronte ad una ulteriore compressione del lavoro ma allo sfruttamento della sua maggiore capacità produttiva. Il plusvalore non viene recuperato semplicemente dall’intensità organizzativa del comando, dalla disciplina dell’organizzazione del lavoro (come con Taylor), ma nasce dalla trasformazione del lavoro, per esempio dall’emergenza del cosiddetto lavoro immateriale, un insieme di lavoro sociale e cooperativo, intellettuale e cognitivo, che comincia ad avere un ruolo egemone nei processi produttivi. Questa nuova capacità, questa nuova potenzialità del lavoro vivo diventano la base dell’eccedenza produttiva. La stessa forma dello sfruttamento, a partire da quel momento, muta: non si tratta più di astrazione ma di estrazione di plusvalore. Questa modificazione sarà rivelata dal punto di vista teorico, negli anni successivi, in particolare attraverso l’opera di David Harvey, nei paesi anglosassoni, nel dibattito che là si svolge, dove i concetti si formano e poi circolano. Ora, questo concetto di estrazione è assolutamente fondamentale per definire la natura dello sfruttamento capitalista oggi, i suoi presupposti sono quelli che dicevamo precedentemente: l’eccedenza del lavoro vivo attraverso la sua trasformazione in capacità immateriale, sociale e cooperativa. Brevemente: il valore (e poi il plusvalore) viene estratto non solo dalla terra, nelle miniere e nell’agricoltura, ma anche dal cervello collettivo, dall’“Intelletto Generale” (cioè dai linguaggi e dalle produzioni immateriali, cognitive ed affettive) della moltitudine messa al lavoro»[8].

Questo passaggio dall’astrazione all’estrazione è un cambio fondamentale nel sistema capitalistico e anche nella riflessione: se iniziamo a ragionare in questi termini, non si tratta più, come dice giustamente Etienne Balibar nell’intervista rilasciata qualche giorno fa a Global Project, di discutere su a quanti anni andare in pensione, piuttosto che di che tipo di aiuti possano ricevere dallo stato, ma di andare a verificare la remunerazione totale, calcolata non sulla giornata lavorativa, bensì sulla vita!

Questo significa la necessità di risignificare, come si è fatto rispetto al termine insurrezione, il termine di valore, allargando il numero e la geografia di quelle accumulazioni primitive, di quei processi di valorizzazione che escono dal rapporto salariato ed entrano nella sfera della riproduzione, come spiegato da Silvia Federici in “Calibano e la Strega”.

«La produzione delle merci è parte del processo di valorizzazione ma non lo esaurisce. Il secondo slittamento è quello dalla relazione salariale a lavoro salariato: no, il lavoro salariato è una parte, il rapporto salariale comprende invece un universo di relazioni non salariali, e qui c’è tutta la connessione tra genere, razza, colonialità che oggi è riconosciuta sempre più come aspetto strutturale del capitale e quindi entriamo in un’area molto vasta e sempre più importante. Io credo che la storia del XX e XXI secolo ci dia ragione, perché la critica che io sto facendo adesso a Marx prosegue e amplia quella dei movimenti anticoloniali, contro il razzismo e l’apartheid, per il potere nero negli Stati uniti, e quella dei movimenti indigeni. Vediamo peraltro che la riproduzione oggi è sempre più al centro dell’accumulazione capitalistica. Non si tratta solo del lavoro domestico e non pagato delle donne, ma anche della finanziarizzazione, il fatto che ogni momento della riproduzione, soprattutto negli Stati Uniti, è un momento di accumulazione ‒ usi la carta di credito anche per andare a prendere il caffè ‒ e poi tutti i tagli statali alla riproduzione, alla salute, ai beni necessari, alle medicine, all’istruzione, che ti obbligano a essere sempre tu quello che investe».[9]

Per essere più esplicito, questo significa far emergere e discutere in maniera chiara della qualità della vita fuori da visioni puramente economiche e secondo parametri capitalistici, discutere della necessità di una riorganizzazione della riproduzione sociale in vista di un futuro che possa essere degno di essere vissuto.

Credo che sia questa graduale presa di coscienza, che ha una sua crescita nelle forme di solidarietà dal basso e nelle diverse forme di autogestione, sia alla base del convergere di geografie socio-economiche e culturali così diverse, dalle banlieues ai sindacati più moderati, che si riconoscono di fronte ad un attacco alla vita sempre più brutale ed incessante.

Ovviamente questo non risolve quelle che Mao chiama le “contraddizioni in seno al popolo”, come anche la tensione tra un potere costituente, dal basso, e un potere costituito, che rischia sempre di assumere le forme di bonapartismo di cui parlavamo prima, cristallizzandosi e confiscando libertà al primo.

Dentro questo conflitto, il concetto di antitesi a coppie spiega in maniera chiara la necessità di un’insurrezione democratica che sia realmente un potere istituente ma che dall’altra parte riesca a relazionarsi in maniera efficace dentro un processo costituente che tenga conto della cultura centralista e giacobina che attraversa trasversalmente la società francese.

Mentre scrivo quest’articolo, mi arrivano video di altre manif sauvage partite dai presidi sotto i municipi a Parigi e Marsiglia e mi torna in mente la similitudine con un fiume, che in questo periodo di siccità si trova anche lui a lottare per arrivare al mare, rendendo ancora più vivida lo slogan “La lotta è per la vita!”

Comunque prosegua l’esperienza di questo movimento, dei semi sono stati seminati e continueranno a crescere, bisogna interrogarsi su come possono espandersi queste lotte, nel quadro di un’Europa sempre più militarizzata e attraversata da un aumento del costo della vita e un generale attacco alle condizioni di vita, sia sul piano ambientale che socio-economico. Credo che i recenti scioperi in Inghilterra e Germania possano essere segnali positivi, come d’altronde la lotta avvenuta nel Lutzerath lo è rispetto ad una disponibilità a voler immaginare una vita ed un mondo diverso, starà a noi riuscire a cogliere le sfide che la nostra epoca ci sta mettendo di fronte.


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