Fronte del porto. L’«anomalia selvaggia» della piazza anti-pass triestina e la lotta di classe

[Quel che sta accadendo con epicentro Trieste, in un’accelerazione che lascia sorpresi molti ma non chi segue la vicenda dal principio, rende necessario chiarire alcuni punti.
Il contagio che dalla piazza anti-lasciapassare triestina sembra estendersi a diversi porti italiani smentisce le letture banali delle mobilitazioni in corso, “letture” funzionali a facili riprovazioni.
Come tutte le altre, anche la piazza anti-pass triestina presenta contraddizioni, ma ha una presenza organizzata di compagne e compagni, ha emarginato e anche cacciato noti fascisti, e soprattutto è caratterizzata da un inequivocabile, visibilissimo protagonismo operaio.
A proposito delle lotte contro il lasciapassare, benpensanti finto-marxisti hanno parlato di «egoismo», «individualismo», «particolarismi», «proteste sterili di piccoli borghesi», ritorno dei «forconi», «fascismo»… Ma se si fosse trattato di particolarismi, di egoismi di categoria, l’altro giorno i portuali triestini – che sono l’anima della piazza, non sono borghesi e possiedono solo la propria forza-lavoro – avrebbero accettato la mediazione governativa e i tamponi gratuiti solo per il loro settore. Invece si sono adirati di fronte a una proposta che avrebbe prodotto l’ennesima discriminazione tra lavoratori, e hanno radicalizzato le loro posizioni.
Da giorni il compagno triestino Andrea Olivieri, autore del libro Una cosa oscura, senza pregio. Antifascisti tra la via Flavia e il West (Alegre, 2019), sta lavorando a un testo ponderato su tutto questo. Gli abbiamo chiesto di anticipare al volo alcune considerazioni, perché ce n’è bisogno ora. Buona lettura. WM]

di Andrea Olivieri

In queste ore la vicenda triestina è salita alla ribalta delle cronache nazionali in seguito alla netta e radicale presa di posizione dei lavoratori – i portuali in testa – contro il lasciapassare ma anche contro la soluzione-tampone (è il caso di dirlo) dei tamponi garantiti dalle aziende.

Per chi è in grado di leggere la situazione senza pregiudizi, il dato è che proprio a Trieste si è determinato un accumulo di rabbia per i provvedimenti anti-pandemici governativi. Solo in parte questa rabbia è il frutto di peculiarità storiche e socio-economiche della città. Che ci sono, sia chiaro, ma in questo momento sembrano incidere solo nell’esprimere meno statolatria e appiattimento ideologico di quanto accade in altre parti d’Italia, e forse anche una concezione della salute collettiva che ha tratto ispirazione dal lavoro di Franco Basaglia, che altrove è andato perso o non è mai stato raccolto.

Quest’accumulo ha portato ripetutamente nelle strade di Trieste decine di migliaia di persone. La sorpresa, o anche lo sconcerto, è però solo di chi in questo ultimo anno e mezzo si è accomodato sul divano o di fronte al pc per interpretare la realtà, come segnalato da Niccolò Bertuzzi, leggendo Repubblica e confrontandosi solo con la propria bolla sociale.

Ieri il Piccolo – che a lungo ha finto di non accorgersi di cosa stava montando in città già dall’estate – proclamava in prima pagina che le persone al corteo di lunedì scorso, il quarto in meno di un mese, erano almeno quindicimila – e millecinquecento al corteo della mattina indetto da Cobas, USB e USI – e snocciolava le varie realtà di lavoratori presenti: portuali, ferrovieri, operai di diverse aziende tra le quali Wärtsilä e Flex, insegnanti… E qui va aggiunto – perché non riconoscibili, dal momento che sono quelli che stanno subendo maggiori pressioni – molti lavoratori della sanità.

Oltre a ricordare che la città conta poco più di duecentomila abitanti – ne ha persi venticinquemila nell’ultimo quarto di secolo, perlopiù per emigrazione – vale la pena tenere presente che i settori produttivi prevalenti in città sono terziario e servizi, quindi di fatto ieri in piazza erano riconoscibili tutte le realtà industriali più importanti – salvo il porto non organizzate perché Cgil, Cisl e Uil si tengono ben alla larga: ho fotografato, ad esempio, uno striscione «METALMECCANICI NO PASS», fatto a bomboletta sopra un lenzuolo, con un bel blocco di tute blu al seguito, per dire della «rappresentanza».

Voglio citare un paio di passaggi di un’intervista sullo stesso giornale a Franco Belci, storico e già segretario locale della Cgil per diversi anni, emblematici secondo me perché pronunciati da chi in teoria avrebbe tutto l’interesse a etichettare la protesta contro il pass come manovrata dai fascisti e, soprattutto, contro i lavoratori. E invece:

Belci, perché una protesta così partecipata anche a Trieste?
«Una partecipazione sorprendente, che si è ripetuta del resto più volte. Non facile da spiegare».
Conta la presenza storica della destra in città?
«[…] A Trieste vedo un’umanità molto varia. Le presenze neofasciste, se mai ci sono, appaiono del tutto minoritarie. Quella triestina è una forma di dissenso trasversale, legata al merito: le scelte del governo sul Green pass».

Chi già in precedenza era in ascolto dei molti segnali di disobbedienza a provvedimenti paradossali e insensati, e ora si è preso la briga di andare in quelle piazze per mapparne la composizione e le strutture di sentimento, in questo momento si chiede solo una cosa: come farà il governo guidato dall’uomo della Provvidenza a rimediare a quello che rischia di essere il più clamoroso passo falso di tutta la gestione pandemica?

Il Coordinamento Lavoratori Portuali di Trieste e Monfalcone ha proclamato il blocco delle attività portuali da venerdì mattina se non verrà ritirato il provvedimento che impone il lasciapassare.

I portuali rinunciano a quella che, secondo molti, sarebbe già una vittoria, ovvero i tamponi gratuiti pagati dalle aziende, per rilanciare e spiegare la cosa più importante: la lotta che hanno deciso di intraprendere, da principio mirata a non lasciare nessuno dei propri compagni di lavoro a casa, nel flusso delle manifestazioni e della mobilitazione comune con altre categorie e realtà cittadine si è trasformata in qualcos’altro, qualcos’altro che li porta a non poter accettare compromessi: «Va tolto l’obbligo di greenpass per lavorare, non solo per i lavoratori del porto ma per tutte le categorie di lavoratori».

Nell’annunciare questa presa di posizione radicale i portuali si assumono un’ulteriore responsabilità, quella di entrare in conflitto, per la prima volta in maniera così dura, con Zeno D’Agostino, dal 2020 presidente dell’Autorità di sistema portuale dell’Adriatico orientale. In risposta alla loro mobilitazione, D’Agostino ha dichiarato che un attimo dopo l’inizio dello sciopero si dimetterà, perché verrà meno la sua legittimazione da parte dei lavoratori.

A quest’annuncio i portuali hanno risposto ribaltando la minaccia a quello che dovrebbe essere il suo vero destinatario:

«Deve essere chiaro a tutti che le eventuali dimissioni di D’Agostino sarebbero da imputare totalmente al Governo: è il Governo che ha emesso il ricattatorio decreto Green pass per lavorare che ha suscitato la giusta reazione dei lavoratori; è il governo che invece di porre rimedio al danno fatto stando ad ascoltare i lavoratori, ha voluto scaricare le sue responsabilità su D’Agostino, a cui ha chiesto di trovare un rimedio; ed è sempre il governo che D’Agostino non lo ha voluto nemmeno ascoltare intestardendosi a voler mantenere a tutti i costi in vigore il decreto».

A chi non ci vive o conosce poco Trieste, il suo peso economico e il suo porto, la portata di questo conflitto risulterà forse di scarsa importanza. Ma guarda caso proprio il caso triestino è stato ripreso ieri, a due giorni dall’entrata in vigore del lasciapassare obbligatorio, da tutti i media nazionali, che di colpo si sono resi conto che rischia di accadere qualcosa di enorme. Tanto più che il blocco del porto annunciato per venerdì 15 ottobre potrebbe verificarsi anche in altri scali italiani, da Genova a Gioia Tauro.

I portuali triestini ne sono certi, ritengono di aver scoperchiato il vaso di Pandora di una sequela di provvedimenti insensati e pilateschi, congegnati per scaricare le responsabilità della pandemia sempre verso il basso. E hanno buoni argomenti per sostenerlo, dal momento che, come tutti i lavoratori della logistica, sono tra quelli che, anche nel più duro «lockdown», hanno continuato a lavorare sempre e sanno bene che il fatto di farlo in condizioni che non garantivano nessuna sicurezza è stata la vera norma non scritta della gestione pandemica.

Sui social o a volte anche nelle discussioni su Giap vedo persone spezzare il capello in quattro su ciò che vogliamo, litigare sulle virgole e gli aggettivi di questo o quell’articolo sul Covid, sui titoli e la credibilità di chi l’ha scritto, o sulla scientificità della rivista che lo ospita. E per molte ragioni può essere utile farlo.

Il dato da registrare in questi giorni, tuttavia, è che la rabbia che frettolosamente è stata etichettata di volta in volta come «negazionista», «No Vax», «anarcocapitalista», «fascistoide» e via dicendo sta subendo una curvatura, e anziché incanalarsi solo in direzione di un’indistinta protesta antisistema, contro i vaccini e un generico potere globale, sta affrontando la questione squisitamente materialista e del tutto marxista dei rapporti di produzione e del conflitto tra capitale e lavoro.

Se questo è vero, con l’imposizione del pass Draghi ha fatto un errore madornale.

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