Il caso Palamara mi obbliga ad affrontare un tema che, per la verità, avevo già in qualche modo incrociato in testi scritti: il problema dell’ordinamento giudiziario nel nostro paese. Lo scandalo è sotto gli occhi di tutti: dalle intercettazioni si ricava che il presidente nazionale dell’associazione magistrati usa espressioni del tipo “Salvini ha ragione, ma dobbiamo fermarlo”. Sapete bene che idea ho di Salvini e della Lega: lungi da me l’idea di difendere politicamente Salvini. Però difendo il suo diritto, il suo ruolo di esponente politico e di parlamentare. Io non condivido niente, delle proposte di Salvini. E sono dell’idea che, in alcuni casi, abbiano rilievo di carattere penale; sono stato fra quelli che si sono schierati perché fosse giudicato da un tribunale regolare. Però, l’idea che un magistrato – e quale magistrato: di quelli che hanno avuto spicco, importanza – dica “dobbiamo fermare Salvini”, questo no. Non è compito tuo, fermare ne Salvini né nessuno. Un magistrato che dice una cosa del genere è indegno di appartenere all’ordine giudiziario. E va radiato immediatamente. Qualsiasi cittadino ha diritto di sapere di essere giudicato da un magistrato che avrà le sue opinioni politiche (non è che il magistrato non ne debba avere), ma che sappia giudicarlo con equilibrio e senza tener presente le opinioni politiche del giudicato.
Qui c’è un disastro, che è partito da diversi decenni. Bisognerebbe rifare la storia della magistratura. Quantomeno dagli anni ‘80 abbiamo assistito a un crescente processo di politicizzazione della magistratura – badate – invocato dalla stessa classe politica. E sì, perché la storia dobbiamo farla: dobbiamo ricordare quando la classe politica chiamò la magistratura in prima linea nella lotta al terrorismo. Il giudice con l’elmetto… Non è compito della magistratura, combattere il terrorismo. La magistratura deve indagare (o giudicare) un singolo cittadino accusato di quel reato, e deve trovare le prove che dimostrino la sua colpevolezza. Non deve combattere il fenomeno: quello spetta l’esecutivo, alle forze di polizia: non alla magistratura. Invece c’è stata l’idea crescente della magistratura contro il terrorismo, la magistratura contro la mafia – anche qui: la magistratura deve giudicare e condannare i mafiosi, su questo non si discute; ma non le compete la lotta, il contrasto alla mafia, che è invece compito della politica (non della magistratura). Giovanni Falcone propose e ottenne l’istituzione della Procura nazionale antimafia e di corpi speciali della polizia, come il Ros dei carabinieri, per individuare i singoli cittadini che si rendessero responsabili di quel reato, per portarli in tribunale. E’ giusto, ma questo non significa “fare la lotta alla mafia” (che è un’altra cosa).
E invece, man mano, si è promossa questa idea della magistratura “castigamatti” che assolve un ruolo di supplenza a quello che la politica non sa fare. Dalli e dalli, questo ha prodotto un risultato tale che, a un certo punto, questo ruolo della magistratura si è rivoltato contro la stessa classe politica – che se lo meritava, per carità: non starò a negare che quella fosse una classe politica di corrotti. Però attenzione: questo ha man mano procurato una trasformazione. Non era più il processo ai singoli esponenti politici corrotti, per molti che fossero: era diventato il processo al sistema nel suo complesso – altra competenza che non è della magistratura (dovrebbe essere dell’elettorato, dei cittadini). E così cominciò a fiorire una giurisprudenza discutibilissima, che però era nata nella lotta contro il terrorismo, dove a un certo punto cominciarono acomparire sentenze piuttosto disinvolte, per le quali c’era un’inversione dell’onere della prova. Non sono più io, l’accusa, che devo dimostrare che tu sei un brigatista e che hai partecipato a quel determinato reato; ma sei tu, una volta dimostrata la tua appartenenza alle Brigate Rosse, a rispondere di tutti i reati compiuti dalle Brigate Rosse, perché facevi parte di quell’organizzazione. E sei tu a dovermi dimostrare che, con quel singolo reato non c’entri niente.
Ora, già l’appartenenza alle Brigate Rosse (gruppo terroristico) è di per sé un reato, che va punito; e però questo non significa che dobbiamo automaticamente inscrivere tutti gli altri reati sul conto di ciascun accusato. Questo, poi – applaudito dalla classe politica del tempo – è diventato il famoso “non poteva non sapere”, per cui la stessa classe politica subiva i rigori di una impostazione che, invertendo l’onere della prova, la sbatteva sul banco degli accusati. Lo sappiamo, che c’era la corruzione, e che la corruzione era molto diffusa e aveva assunto caratteri di sistema. Però questo non significa che il risanamento spettasse alla magistratura, che certo doveva indagare, colpire e condannare i responsabili, i singoli responsabili per i singoli casi, o al limite procedere per associazione a delinquere laddove che ne fossero gli estremi. Non è accettabile, invece, l’idea che l’intero sistema, in quanto tale, sia da portare sul banco degli imputati, invertendo l’onere della prova per i singoli accusati.
E lì è nata l’ideologia del “giudice buono”, del giudice che risana le piaghe del paese, che è stata alla base del giustizialismo giudiziario: è la pulsione “manettara”, che ha in qualche modo premiato prima la Lega e poi 5 Stelle. Io capisco che la gente non ne potesse più degli abusi dei potenti, e in qualche modo esigeva che fossero puniti, com’è giusto. Ma attenzione: se questo diventa uno stravolgimento delle regole, della divisione dei poteri, il risultato non è positivo. E infatti noi la corruzione non l’abbiamo sconfitta, in questo paese. E la classe politica che è venuta dopo non è stata affatto migliore di quella che avevamo messo da parte: non è stata migliore sotto il profilo dell’onestà, e si è rivelata infinitamente meno capace e meno preparata. Il risultato è disastroso. E’ da risanare l’intero sistema giudiziario, evidentemente disfunzionale: case cause civili che durano ere geologiche, giurisprudenze assolutamente disinvolte e concorsi discutibilissimi. Questo è il tema che dobbiamo affrontare.
(Aldo Giannuli, video-intervento “Il caso Palamara e la vergogna della giustizia italiana”, dal blog di Giannuli del 25 maggio 2020).
Il caso Palamara mi obbliga ad affrontare un tema che, per la verità, avevo già in qualche modo incrociato in testi scritti: il problema dell’ordinamento giudiziario nel nostro paese. Lo scandalo è sotto gli occhi di tutti: dalle intercettazioni si ricava che il presidente nazionale dell’associazione magistrati usa espressioni del tipo “Salvini ha ragione, ma dobbiamo fermarlo”. Sapete bene che idea ho di Salvini e della Lega: lungi da me l’idea di difendere politicamente Salvini. Però difendo il suo diritto, il suo ruolo di esponente politico e di parlamentare. Io non condivido niente, delle proposte di Salvini. E sono dell’idea che, in alcuni casi, abbiano rilievo di carattere penale; sono stato fra quelli che si sono schierati perché fosse giudicato da un tribunale regolare. Però, l’idea che un magistrato – e quale magistrato: di quelli che hanno avuto spicco, importanza – dica “dobbiamo fermare Salvini”, questo no. Non è compito tuo, fermare ne Salvini né nessuno. Un magistrato che dice una cosa del genere è indegno di appartenere all’ordine giudiziario. E va radiato immediatamente. Qualsiasi cittadino ha diritto di sapere di essere giudicato da un magistrato che avrà le sue opinioni politiche (non è che il magistrato non ne debba avere), ma che sappia giudicarlo con equilibrio e senza tener presente le opinioni politiche del giudicato.