di Franco Pezzini
Uno dei più curiosi antenati del Van Helsing di Stoker è sicuramente il personaggio che emerge nel racconto The Mysterious Stranger, apparso anonimo su “Odds and Ends” nel 1860 come traduzione inglese di un fantomatico testo tedesco. Per anni si è pensato a una finzione, perché della novella (di cui si occupò anche il celebre studioso di teatro, demonologo e vampirologo Montague Summers, e da noi più di recente Fabio Giovannini curatore del pregevolissimo Prima di Dracula. Rare storie di vampiri dell’Ottocento, Stampa alternativa, 1999, a cui mi rifarò per le citazioni) non si trovava un originale e lo stile non sembrava tradire natura di traduzione: quindi il classico testo “alla tedesca” per dire gotico. A quanto invece di recente è emerso, il racconto, già circolante in inglese (cfr. “Chambers Repository of Instructive and Amusing Tracts”, vol. 8, n. 62, 1854), è davvero una traduzione, come spesso accadeva non autorizzata: più precisamente dall’originale Der Fremde (Lo straniero, Lo sconosciuto), apparso nella raccolta Erzählungen und Novellen (1844), del prussiano slesiano Karl von Wachsmann (1787-1862), un autore legato ai circoli romantici, per anni militare – il che spiega il profilo del suo eroe – e collaboratore di giornali. Wachsmann può attingere in particolare a Geschichte der Moldau und Walachey dello storico austriaco Johann Christian von Engel (Halle, 1804) fitte di oscurità goticissime. Sul gotico tedesco, in particolare quello minore, occorrerà davvero lavorare ancora.
Ambientata agli inizi del XVII secolo, la vicenda vede l’arrivo di un gentiluomo austriaco, il cavaliere di Fahnenberg, in un’estesa proprietà appena ereditata tra i Carpazi; lo accompagnano, con alcuni servitori, la figlia Franziska, la nipote Bertha e il giovane barone Franz von Kronstein – invaghito di Franziska ma da lei sbeffeggiato per l’indole gentile che poco attrae l’inquieta ragazza. Durante il lungo viaggio tra i boschi funestato dalla bufera, al calar della luce il gruppo è attaccato dai lupi: questi però vengono messi in fuga da un misterioso personaggio, apparso nei pressi di certe rovine, e i viaggiatori possono raggiungere incolumi la propria destinazione. Come apprenderanno tempo dopo, le rovine rappresentano ciò che resta dell’antico castello Klatka, abbandonato da più di un secolo ma di cattiva fama per le gesta dell’ultimo proprietario: l’uomo infatti, accusato di traffici con le orde serbo-turche e della sparizione di giovani donne, era stato ucciso dai vicini e il suo spettro rimarrebbe a infestare quei luoghi. Affascinata da tali storie, Franziska propone di andare a visitare le rovine; e la gita sta ormai volgendo al termine quando il gruppo incontra, al sorgere della luna, proprio l’enigmatico personaggio che li aveva salvati dai lupi. Benché sgradevole per aspetto e modi, l’uomo – che si presenta come Azzo von Klatka, e spiega di condurre vita soltanto notturna – viene invitato dal cavaliere riconoscente a recarsi a trovarli una sera. Anzi, nonostante gli ammonimenti di Azzo sulla serietà dell’invito a “una persona che raramente vuole imporsi, ma che è difficile scrollarsi di dosso”, Franziska mostra d’insistere, attratta dal magnetismo di lui – una fascinazione romantica e un po’ malsana che Bertha e l’ingelosito Franz non possono condividere, e che invece si rafforza nella giovane quando Azzo giungerà davvero a visitarli. Ma il mattino dopo quella prima visita (e l’acceso confronto seguito tra Franziska e Franz) la ragazza si sveglia stranamente spossata, mostra un curioso segno sul collo e racconta un incubo in cui lo stesso von Klatka la insidiava sorgendo dalla nebbia.
È solo l’inizio di un progressivo declino della salute di Franziska, che costringe il gruppo a protrarre la permanenza tra i Carpazi e permette ad Azzo di continuare a visitarli (sempre all’alzarsi della luna e senza toccar cibo, benché l’aspetto di lui paia curiosamente più florido) – e si ripetono gli incubi della giovane dama. L’arroganza dell’invitato sembra sostanziarsi in un freddo odio per tutta l’umanità, con la sola eccezione di Franziska: e una sera, presente un altro ospite – il Cavaliere di Woislaw, castellano di Glogau e futuro sposo di Bertha, reduce dal fronte ungherese – la ingiurie di Azzo provocano a duello l’esasperato Franz.
A salvarlo, in realtà, è solo il pronto intervento di Woislaw, il cui formidabile braccio metallico (sostitutivo dell’arto mozzatogli in guerra) strappa letteralmente l’amico dalle mani di von Klatka: ma la reazione di quest’ultimo è strana, perché all’improvviso appella Woislaw come “fratello” e si allontana. A quel punto Woislaw, che già si era fatto narrare dettagliatamente il caso di Franziska e sembrava sospettare qualcosa, prende in pugno la situazione: e si fa promettere dall’ammalata una completa collaborazione, ammonendo a fidarsi di lui senza porre domande. Sarà dunque Franziska, sulla base delle istruzioni del più maturo alleato, a inchiodare letteralmente Azzo (cioè il vecchio Ezzelin von Klatka, malefico e non-morto ultimo signore del maniero in rovina) nella bara in cui giace, con tre lunghi chiodi di ferro, mentre Woislaw proclama il Credo; e l’infezione della ragazza sarà sconfitta col ricorso al sangue colato dalla bara. La scena di qualcosa che si dibatte nel chiuso del legno cercando di uscire, mentre Franziska pianta progressivamente i chiodi nel coperchio e il tempo passa inesorabile (deve aver terminato prima che la preghiera venga conclusa) rappresenta il momento più conturbante del racconto: e quando, rinvenendo dall’inevitabile svenimento, la ragazza si trova sporca di sangue, non è chiaro se il frizionamento rituale sia stato gestito proprio da lei o dall’amico giunto in soccorso. (Nota per il lettore: Ma in questo caso funzionerebbe? Probabilmente sì, una volta che la ragazza abbia espletato in prima persona l’operazione coi chiodi. Tre come quelli della crocifissione, di cui riecheggia in termini magici la potenza liberatoria – anche se evidentemente il simbolismo è più antico e addirittura preistorico, col morto inchiodato per impedirgli di nuocere ai vivi.)
Il lieto fine – l’annuncio di nozze di Bertha con Woislaw e di Franziska, risanata e addolcita, con Franz – è preceduto dal racconto di come Woislaw avesse già incontrato un vampiro, durante una campagna in Ungheria: e come già quel mostro avesse equivocato (come poi farà anche Azzo) scambiando il cavaliere per un fratello di specie proprio a causa della forza straordinaria della mano – caratteristica “tipica” del vampiro.
Come rilevato dalla critica, parecchi elementi suggeriscono che The Mysterious Stranger possa aver influenzato direttamente il più celebre testo stokeriano. Come Dracula, Azzo è un nobile che alberga in un antico castello (sia pure in rovina) tra i Carpazi; è alto e pallido ma il suo viso acquista colorito e freschezza via via che si nutre; si muove di notte e ammette di alimentarsi di soli liquidi, ma rifiuta il vino offertogli; si rapporta col tema folklorico dell’invito necessario al vampiro per invadere lo spazio dei vivi; appare dalla nebbia e attacca (nel privato della stanza da letto) le vittime al collo – e non al costato o in altre parti del corpo, come suggeriscono tradizioni di minore fortuna letteraria. Ci sono anche, all’orizzonte, i rapporti coi Turchi (per Azzo di iniqua familiarità, per Woislaw di guerra) in seguito richiamati nell’epos di Dracula; e naturalmente il viaggio tra i boschi, con la carrozza e l’attacco dei lupi poi domati dal vampiro, prelude a quello stokeriano di Jonathan Harker. Anche le due ragazze – la seducente Franziska, inquieta e sventata, e Bertha, assennata e dolce – già propongono in qualche modo la polarità stokeriana di Lucy e Mina; la malattia di Franziska prefigura l’agonia di Lucy, e la spedizione alle rovine di Woislaw e dell’ammalata, preceduta dalla ricognizione di lui, non può che richiamare quella di Van Helsing e Mina verso il castello transilvano, con l’ingresso del professore a scoperchiare sepolcri. Troppe somiglianze per poter pensare al casuale assemblaggio di motivi analoghi.
Il cavaliere Woislaw era davvero un soldato modello, indurito e reso più forte dalla guerra con gli uomini e con gli elementi. Il suo viso non si sarebbe detto brutto, se una sciabola turca non gli avesse lasciato un segno rosso che correva dall’occhio destro alla guancia sinistra, e che si evidenziava sulla pelle bruciata dal sole. La corporatura del castellano di Glogau poteva quasi definirsi colossale. Pochi avrebbero potuto portare la sua armatura, e ancor meno avrebbero potuto muoversi sotto quel peso con la sua stessa facilità e agilità. Lui stesso non sottovalutava la sua armatura, perché era un regalo del conte palatino d’Ungheria quando aveva lasciato l’accampamento. L’azzurro acciaio intarsiato era coperto di fregi in oro. E lui l’aveva indossata in onore della sua promessa sposa, insieme alla meravigliosa mano d’oro, dono del duca.
E in precedenza si era detto:
[Il cavaliere Woislaw] Riteneva di essere tenuto in sì alta considerazione dal suo duca in virtù dei suoi validi servigi, che in futuro le sue incombenze sarebbero state ancor più importanti ed estese. Ma prima di occuparsene sarebbe venuto per reclamare la promessa di Bertha di diventare sua moglie. Si era arricchito grazie al suo padrone, così come al bottino preso ai Turchi. Avendo perso in passato la mano destra al servizio del duca, aveva cercato di combattere con la sinistra. Ma non ci riusciva abbastanza bene, e così se ne fece fare una di ferro da un bravissimo artista. Questa mano espletava molte delle funzioni di una mano naturale, ma lasciava ancora a desiderare. Ora, però, il suo padrone gliene aveva regalata una d’oro, una straordinaria opera d’arte, creata da un celebre meccanico italiano. Il cavaliere la descriveva come qualcosa di meraviglioso, specialmente per la forza sovrumana con la quale gli consentiva di usare la spada e la lancia.
Ci troviamo insomma davanti a un personaggio che riunisce vari aspetti degli eroi arcaici – la forza di un Eracle, le armi meravigliose, alcuni segni (cicatrice e mutilazione) di carattere iniziatico e la “compensazione” derivata (una protesi preziosa e fiabesca), l’eredità meccanica degli automi settecenteschi, il contatto esperienziale coi mostri e una prudenza odissaica che valorizza anche l’equivoco – in una maturità che già prelude a quella del professore stokeriano. Un quadro peraltro dove il richiamo all’arcaico trova singolari consonanze con l’immaginario postmoderno, particolarmente nel cinema: basti pensare alla peculiarità simbolico-anatomica (il mirabolante braccio d’oro) che prefigura le mutilazioni mitiche di Star Wars e gli X-men (o X-monsters) multiaccessoriati di pellicole meglio ascrivibili al cinema d’azione che all’horror.
Come i predecessori – a partire dall’Apollonio di Filostrato e Keats col suo sguardo penetrante – il simil-cyborg Woislaw è capace di notare le condizioni di Franziska e anzi la sottopone a un minuzioso interrogatorio sui sintomi che prelude alle indagini medico-psichiche dei dottori successivi, in particolare Van Helsing. Se quest’ultimo, d’altro canto, si presenterà ai giovani compagni come un padre di elezione, il Buon Vecchio contrapposto al Vecchio Cattivo Dracula, per gli amici Woislaw è senz’altro il fratello maggiore: e come Van Helsing, studioso dei misteri della mente e del cuore, vive un dramma nell’unica carne, la moglie affetta da demenza (con tutti gli echi in tema di follia e spossessamento psichico nel contesto del Dracula) oltre che quello della perdita d’un figlio, Woislaw reca nel corpo le stigmate dell’iniziazione all’età adulta. Come Van Helsing, ancora – quello del romanzo, non del cinema – Woislaw si tiene in secondo piano lasciando che a distruggere Azzo sia la “giovane” Franziska: anche se in questo caso, a differenza che in Stoker, l’operatrice è stata anche vittima diretta del vampiro.
Il tema merita una digressione: la distruzione del mostro ad opera della stessa vittima grazie a un comportamento attivo – come in questo caso – o invece più o meno passivo (come nella distruzione del Nosferatu di Murnau) configura evidentemente una variante rispetto ai classici modelli di teratomachia gestita da un eroe giovane, virile, o invece da un anziano demonologo. Una variante che per quanto minore (non cioè frequentemente portata in scena) acquista certo un peso significativo a partire dal romanticismo e delle sue eroine (ancora tanto lontane da Buffy l’ammazzavampiri), ma può vantare un retroterra ben più antico: e proprio il motivo folklorico della liberazione della vittima grazie a un atto (magico-terapeutico) personale è valorizzato in termini simbolici nella dinamica di questo racconto. Franziska riprende il controllo della propria vita, supera la “prova” di maturità: ma può farlo soltanto grazie all’Eroe Mutilato, l’iniziatore che permette ai fratelli minori il passaggio oltre la soglia custodita dal vampiro – figura liminare per eccellenza – e conduce all’armonizzazione finale delle caratteristiche di ciascuno (protezione per Bertha, equilibrio emotivo per Franziska, valorizzazione virile di Franz).
Dove il rilevo ai “giovani” (come in Dracula, appunto) non impedisce che nell’economia del testo la figura di Woislaw presenti un rilievo non inferiore – e anzi strutturalmente analogo e contrapposto – a quella del mostro motore. Basti pensare al continuo strapparsi la scena tra i due antagonisti, prima sullo sfondo e a livello di voci (grevi di ambiguità su Azzo, limpide di ammirazione per Woislaw) e poi in confronto diretto: il vampiro appare irriconosciuto (quando caccia i lupi), poi è annunciato dai balbettii sul “demonio di Klatka” e solo in seguito si presenta (peraltro con identità alterata, per essere smascherato soltanto alla fine); mentre la figura di Woislaw, prima delineata indirettamente (a cenni nel dialogo iniziale tra le ragazze in carrozza, quindi con più dettagli in occasione della lettera a Bertha – subito dopo l’invito al vampiro e subito prima della visita di lui) apparirà in scena solo quando la situazione sta precipitando. L’autore sembra anzi sottolineare la contrapposizione continua tra vampiro e sua nemesi, quasi si trattasse di figure speculari: nel fisico (Azzo è magro e alto, Woislaw “colossale”) e nei poteri (il primo attinge a forze oscure, il secondo non disdegna i prodigi della meccanica), ma anche in carattere e categorie. Si pensi al concetto di esperienza, per Woislaw valore di maturità utile alla vita, che Azzo invece confina alla sfera del piacere (come si evince dal dialogo con Franziska durante la prima visita); all’uso del silenzio, finalizzato per Azzo a tutelare il suo equivoco segreto, per Woislaw a condurre gradualmente Franziska a libertà e verità; al rapporto con l’interiorità degli interlocutori (il vampiro viola la mente, il suo avversario intuisce per esperienza del cuore); all’orizzonte del mondo “nemico” (i Turchi coi quali Azzo/Ezzelin intratteneva in vita sordidi traffici, sono combattuti da Woislaw a viso aperto). Un simile rapporto di doppio tra i due personaggi “forti” – attorno ai quali muove più lenta la danza degli altri – tornerà con frequenza nelle cacce al mostro letterarie e verrà enfatizzato dal cinema.
Ma proprio l’epopea dei doppi dovrebbe far rammentare che The Mysterious Stranger, oltre che Stoker (di cui comunque resta una fonte minore, tra le mille da lui repertoriate), può aver influenzato Verne per Il castello dei Carpazi (1892) e forse lo stesso Le Fanu per Carmilla, come suggerito da echi in apparenza non casuali e quasi altrettanto numerosi. A partire dalla condizione straniera della narratrice anglofona Laura in un’esotica Stiria che richiama il rapporto tra i viaggiatori austriaci e i remoti Carpazi; ci sono poi suggestioni onomastiche (il nome del giovane barone von Kronstein sembra preludere a quello dei cattivi conti Karnstein di Carmilla, dove peraltro la pupilla del generale Spielsdorf si chiama Bertha come la cugina di Franziska); anche in Carmilla compaiono due castelli, uno abitato dalla famiglia della protagonista e l’altro in rovina, dove i personaggi si recano per una specie di gita; anche in Carmilla la famiglia della ragazza è incompleta (c’è un padre ma non una madre, e non ci sono fratelli); anche in Carmilla (e lì con enfasi e significato particolare) vediamo le ragazze manifestare un trasporto a base di abbracci.
A parte poi la citata tematica di doppi e duplicazioni, fitti in Carmilla in modo ossessivo, ci sono i motivi ricorrenti, folklorico-letterari, legati all’attacco vampirico: la spossatezza di Laura che precipita in oscuro male, come già Franziska; il rilievo attribuito alla forza della mano quale segno qualificante di vampirismo; il rapporto con la luna, presente in The Mysterious Stranger ed elegantemente riproposto da Le Fanu. Ma ad avvicinare i racconti sono anche più specifiche componenti del quadro metafisico inscenato. Si pensi al gioco onomastico con cui il vampiro si presenta e insieme si cela (Azzo come equivalente di Ezzelin – probabile eco del tiranno medioevale italiano Ezzelino da Romano, di emblematica ferocia; Carmilla – alias Millarca, ecc. – come anagramma dell’originaria Mircalla Karnstein): un sotterfugio che in Le Fanu sembra assurgere a vincolo metafisico, ma in entrambi i testi permette al vampiro di nascondere l’identità senza affermare una vera menzogna (anagrammato o ridotto, il nome mantiene la sua verità), quasi a dover concedere alle vittime virtuali una chance grazie un’appropriata attenzione onomastica. Ciò che permetterebbe in fondo di riconoscere proprio nel cacciatore di mostri l’indagatore onomastico per eccellenza, colui che ragiona sulle parole e sul loro potenziale di mostruosità, sugli spazi dove il compito di Adamo di dar nome alle cose appare male adempiuto o in crisi: in un quadro insomma dove antichi motivi simbolici, folklorici e demonologici (si pensi al demone che porta scompiglio con un uso distorto di affermazioni in sé vere, donde il silenzio che l’esorcista gli impone) si aprono a modernissime provocazioni. Sta a noi smascherare i mostri cifrati sotto il pelo della comunicazione.
Ma a parte lo spazio del nome e dell’identità, una certa ambiguità (in a glass darkly, sottolineerà Le Fanu nel titolo della raccolta in cui Carmilla è incastonato) lambisce in entrambi i testi anche il rapporto col dato religioso: ben lungi infatti dall’uso meccanico ed esasperato di ostie, croci e simboli sacri di Stoker, The Mysterious Stranger sembra già prefigurare a cenni la lettura problematica e sottilmente provocatoria che Le Fanu articolerà. Come in Carmilla, infatti, l’arma della preghiera devota (di Woislaw, sia pure sullo sfondo di un rito non esattamente ortodosso con chiodi e sangue) si sposa alla constatazione che neppure la struttura religiosa sia in sé sufficiente a fermare il male. Se in Le Fanu la carrozza delle vampire pare rovesciarsi davanti alla croce ma in realtà lo stratagemma dell’incidente è preordinato (per permettere il “ricovero” di Carmilla a casa di Laura), in The Mysterious Stranger suona almeno maliziosa la notizia che il castello maledetto si fosse salvato dalla distruzione perché la zona era “sotto il controllo della chiesa”. Dove insomma ciò che rileva è anzitutto la disposizione d’animo del singolo e un’attenzione al rapporto col vampiro interiore, più che la confidenza in simboli sacri, strutture o loro rappresentanti. Il cacciatore di vampiri, cyborg o meno, pretende ormai dall’esorcista consacrato un passaggio di testimone.