«È Jenin» mi aveva detto un compagno di Betlemme, mentre si stringeva nelle spalle. «Lassù c’è sempre stata resistenza.»
Mentre ieri notte arrivavano le prime immagini dei bombardamenti sulla città palestinese, ripensavo a quel dialogo di alcuni anni fa. Stavo cercando di capire per quale motivo Jenin e il suo campo profughi fossero sempre stati considerati il cuore e i muscoli della ribellione contro Israele. «È così e basta» era stata la risposta.
Mi stupiva il senso di solidarietà espresso dalle sue parole. Si trattava di un compagno della sinistra laica e progressista, che in teoria nulla aveva da spartire con i combattenti attivi a Jenin, nella stragrande maggioranza di Hamas e del Jihad islamico. Ma era chiaro che, quando si trattava di combattere l’occupazione israeliana, quando si trattava di difendere i campi profughi, quando si trattava di restituire al mittente il piombo ricevuto, non c’era la minima esitazione: tutto era resistenza.
Jenin si colloca nell’estremo nord della Cisgiordania. Pochi chilometri la separano dalla green line oltre la quale cominciano i territori israeliani internazionalmente riconosciuti. Da almeno due anni a questa parte la resistenza palestinese si è intensificata: nel campo profughi si è asserragliato il Battaglione Jenin, un’unità di irregolari perlopiù vicini al Jihad islamico – ma dove presumibilmente sono attivi anche Hamas e le Brigate al-Aqsa, come nel caso della Fossa dei Leoni di Nablus.
L’esercito israeliano ha risposto con la consueta ferocia distruttiva: l’anno scorso a Jenin è stata uccisa la giornalista palestinese Shireen Abu Akleh; mentre dall’inizio del 2023 sono state almeno tre le operazioni di guerra condotte in città. Hanno fatto il giro del mondo le immagini che mostravano gli spari contro i civili palestinesi, l’utilizzo di elicotteri Apache e la distruzione di un blindato israeliano per il trasporto di truppe lo scorso 19 giugno.
È evidente che in questi giorni i comandi israeliani abbiano deciso di liquidare la «questione Jenin» una volta per tutte. Con il buio della notte tra domenica e lunedì i droni hanno iniziato a sganciare missili sui civili, le colonne di mezzi corazzati israeliani hanno intasato l’ingresso della città, migliaia di soldati israeliani sono avanzati con i mitra spianati, pile di morti si sono accatastate tra le viuzze del campo profughi. Sono scene che non si vedevano da vent’anni: almeno dal 2002 quando l’esercito di Israele aveva deciso di radere al suolo le città palestinesi per stroncare l’insurrezione dell’intifada.
Ieri arriva la notizia che almeno 3 mila abitanti del campo profughi – i figli, i nipoti, i pronipoti di coloro che vennero scacciati dai sionisti nel 1948 – si sono trovati ad abbandonare di nuovo la propria casa. Sono colonne di civili disarmati, con le mani alzate, che si trascinano davanti alle canne dei fucili israeliani. I bulldozer passano sopra le macerie delle abitazioni dei profughi, i cecchini israeliani si affacciano dalle finestre, la moschea della città viene colpita dai razzi lanciati dai droni, si sparano proiettili e lacrimogeni all’ingresso dell’ospedale. In sottofondo vengono diffuse le parole del leader del Battaglione Jenin: «Non dimenticateci. Pregate per noi. Dite loro che combatteremo fino all’ultimo respiro.»
«È Jenin. Lassù c’è sempre stata resistenza.» Ripenso alle parole malinconiche del compagno di Betlemme. «Vorrei che tutta la Palestina fosse forte come Jenin.»