di Marco Bersani, Attac Italia e Cadtm Italia*
*articolo pubblicato su il manifesto del 9 luglio per la rubrica Nuova Finanza Pubblica
Si definisce land grabbing (accaparramento di terre) un fenomeno esploso con la crisi dei prezzi dei beni alimentari nel 2007-2008 e con la crescente produzione di biocarburanti da materie prime rinnovabili.
Il combinato disposto di questi due fattori ha dato vita a un gigantesco flusso di investimenti e di capitali provenienti dagli Stati più ricchi, finalizzato all’accaparramento di terreni agricoli nelle regioni del sud del mondo.
Gli obiettivi principali dell’acquisto di terreni nei paesi in via di sviluppo da parte di privati –aziende, banche, fondi finanziari- sono l’investimento e il guadagno finanziario atteso. L’utilizzo dei terreni oggetto di queste transazioni si concentra solitamente sui prodotti agricoli di qualità destinati all’esportazione e non sulla produzione di alimenti di base. Il land grabbing da parte dei governi avviene invece in base ad altre motivazioni. I terreni vengono acquistati all’estero allo scopo di soddisfare i bisogni alimentari della propria popolazione.
Stati e investitori privati investono su terreni considerati ‘inutilizzati’, ma che tali in realtà non sono, essendo da decenni usufruiti da contadini e da comunità locali che godono di titoli di usufrutto tradizionali ma di tipo informale rispetto alla legislazione di riferimento. Sono comunità che vengono espropriate, a cui si negano i mezzi per la sussistenza e che finiscono quindi per ingrossare le fila degli abitanti marginali dei grandi contesti urbani.
Secondo la V edizione del rapporto “I padroni della terra”, presentato recentemente da Focsiv, al primo posto dei paesi colpiti dal land grabbing troviamo il Perù, con oltre 16 milioni di ettari coinvolti su un totale globale di 91,7 milioni di ettari di terre accaparrate. Seguono a distanza altri Stati latinoamericani (Brasile e Argentina), asiatici (Indonesia e Papua Nuova Guinea soprattutto), dell’Europa orientale (Ucraina) ed africani (Sud Sudan, Mozambico, Liberia e Madagascar).
I principali accaparratori sono soprattutto i Paesi «occidentali» più ricchi: dal Canada (quasi 11 milioni di ettari) alla Gran Bretagna, passando per gli Stati Uniti (quasi 9 milioni di ettari), la Svizzera e il Giappone. Seguono le nuove grandi economie come la Cina (5,2 milioni di ettari) e l’India, assieme alla Malesia e alle sede di imprese multinazionali come Singapore.
Si tratta di un fenomeno in espansione, destinato ad aumentare esponenzialmente a fronte della crisi alimentare prodotta dalla guerra in Ucraina e degli effetti sempre più drammaticamente evidenti del cambiamento climatico.
E si tratta del più lampante effetto di una cultura del cibo tesa all’espansione e stabilizzazione dell’accumulazione capitalistica invece che alla soddisfazione di un diritto fondamentale delle persone. Un ciclo sempre più lontano dalla fisicità di campi, semi, attrezzi, contadine e contadini che li lavorano, e sempre più prossimo al mondo dei prodotti finanziari, futures e derivati.
Il rapporto dedica un capitolo anche all’Italia, dove non si registrano dinamiche di accaparramento, ma un crescente consumo del suolo agricolo, con una copertura artificiale di suolo utile salita al 9,15% rispetto ad una media del 4,2% in Unione Europea e una conseguente perdita di prodotti agricoli pari a 4,1 milioni di tonnellate tra il 2012 e il 2020, nonché di servizi ecosistemici, in particolare di capacità di regolazione del ciclo idrogeologico, di biodiversità, di stoccaggio di CO2.
Sembra sempre più urgente la necessità di stravolgere il paradigma dell’accumulazione per intraprendere la strada della sovranità alimentare e dell’agro-ecologia.