Giovedì 5 settembre il Woods Climate Camp ha ospitato Azim Koko, attivista di origini sudanesi. Si è trattato del talk che ha aperto il Camp.
Azim Koko ha tracciato sinteticamente cosa sta succedendo attualmente e come si è arrivati al conflitto attuale in Sudan. La necessità di dare delle linee temporali sulla storia del paese è fondamentale visto il silenzio dei media tradizionali sul conflitto dell’ultimo anno.
Il Sudan ha ottenuto l’indipedenza dagli inglesi nel 1956 ma fino ad oggi non è passato nemmeno un decennio senza una guerra interna: già nel 1955 iniziò una prima guerra civile, poiché il nuovo stato fu immediatamente gestito da un regime militare che favoriva economicamente le regioni del nord a maggioranza araba. Le regioni del sud (a maggioranza cristiana) da subito vollero ottenere l’indipendenza, nel 1972 ottennero l’autonomia ma gli scontri armati ripresero nel 1983 per arrivare all’indipendenza del Sud Sudan nel 2011 solo dopo milioni di sfollati e quasi tre milioni di morti. Nonostante questa indipendenza non c’è alcune pace e i conflitti interni dentro al paese continuano. La situazione si è complicata dal momento che il 75% dei pozzi e delle risorse di greggio sono in Sud Sudan, mentre le raffinerie e gli stabilimenti per rendere il petrolio esportabile sono nel nord, sotto il controllo delle milizie di supporto rapido. Nel 2003 è scoppiata una guerra nella regione del Darfur tra diverse etnie e continua ancora oggi.
Il conflitto in corso ora in Sudan tra le FAS (Forze Armate Sudanesi guidate dal Generale Abdel Fattah al-Burhan) e le FSR (Forze di Supporto Rapido ai comandi di Muhammad Hamdan Dagalo detto Hemedti) è iniziato il 15 aprile 2023, dopo una lunga fase di tensioni politiche fra due generali, Abdel Fattah al Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo, noto anche come Hemedti. Allora i due guidavano una giunta militare, il Consiglio Sovrano, che governava il paese dall’ottobre del 2021, dopo aver preso il potere con un colpo di stato: Burhan era presidente, Hemedti era il suo vice. Nel dicembre 2022, su pressione internazionale, acconsentirono ad iniziare una transizione democratica, ma sul comefarlo non ci fu accordo e nacquero le prime forti divisioni.
Il 15 aprile è scoppiato il conflitto: i giovani si sono rivoltati nelle strade e la repressione è stata durissima. Così il fronte islamico ha stipulato un accordo con i partiti dell’opposizione e le forze armate (esercito sudanese) e le forze di supporto rapido. L’accordo prevede che ci sia un unico esercito e che le milizie depongano le armi: questa è la causa del disaccordo tra le forze di supporto rapido e le milizie. Fino ad oggi continua in tutto il paese la guerra.
Il Sudan è rimasto intrappolato in una spirale di violenze che coinvolgono non solo le forze in campo, ma anche giovani e civili, vittime di un conflitto che si gioca su molteplici livelli, etnici, politici e religiosi. L’esercito sudanese, mal equipaggiato e composto per lo più da soldati provenienti dalle regioni più marginalizzate del paese, è diretto da un’élite di generali provenienti dal nord, la quale perpetua una discriminazione storica.
La retorica del governo ha giocato un ruolo cruciale, con una propaganda che dipinge le FSR come milizie straniere, provenienti dal Niger e dal Mali, nel tentativo di alimentare divisioni interne. Tuttavia, anche le FAS non sono esenti da crimini.
Si tratta di una guerra che si alimenta della mancanza di reale cambiamento dopo la caduta di Omar al-Bashir nel 2019, ex dittatore che governò il paese per 30 anni. Il governo ha finto una transizione: in realtà il controllo resta nelle mani dei militari e dei Fratelli Musulmani, mentre la promessa di consegnare al-Bashir ed altri responsabili alla giustizia rimane vuota.
La guerra attuale, infine, serve anche interessi regionali: paesi come l’Egitto vedono nel Sudan un perno strategico per bloccare qualsiasi possibilità di democratizzazione, temendo un effetto domino simile a quello delle Primavere Arabe del 2011. Il conflitto, dunque, non è solo una lotta per il potere interno, ma anche il riflesso di un equilibrio fragile in tutta la regione araba.
La situazione geopolitica in Sudan è caratterizzata da profonde ingerenze estere e dinamiche di reclutamento forzato che stanno esacerbando le divisioni interne. L’esercito sudanese, il più grande del paese, è impegnato in una massiccia campagna di reclutamento, spesso imposta con la forza, in cui le persone sono costrette a scegliere tra entrare nelle Forze Armate Sudanesi o nelle Forze di Supporto Rapido (FSR). La propaganda alimenta questo processo, spingendo le persone a unirsi a una delle due fazioni e fomentando l’odio etnico. Essere neutrali in questa situazione è visto come un atto di collaborazione con il nemico, e chi non prende posizione rischia di finire su liste nere, che sono alla base del continuo esodo di sfollati interni.
A livello internazionale, gli Emirati Arabi Uniti sono fortemente interessati alle risorse del Sudan, in particolare oro e terreni agricoli. Per questo motivo, sostengono attivamente i paramilitari delle FSR, finanziandoli e rifornendoli. La Russia, nonostante in passato abbia addestrato le FSR attraverso il gruppo Wagner, ora sostiene il governo sudanese, insieme ad Iran e Cina, che forniscono armi e supporto militare. Questo intreccio di interessi esteri contribuisce a prolungare il conflitto e ad approfondire le divisioni interne, trasformando il Sudan in un campo di battaglia per le potenze internazionali.
Il dibattito è proseguito sul tema centrale di questo conflitto: la crisi dei rifugiati.
La situazione umanitaria è disastrosa. Le cifre parlano di più di 3 milioni di persone costrette a fuggire verso l’Egitto, mentre tra i 2 e i 4 milioni hanno trovato rifugio in Ciad ed Etiopia. All’interno del Sudan, la guerra ha generato circa 10 milioni di sfollati, una cifra drammatica se si considera che la popolazione totale del paese è di circa 30 milioni. In realtà, però, quasi ogni abitante del Sudan potrebbe essere considerato sfollato, poiché il conflitto si muove senza tregua da una regione all’altra, lasciando nessuna zona realmente sicura.
Della capitale Khartoum, spiega Koko, non rimane che una città devastata ed abbandonata dove non esiste più un sistema scolastico funzionante; gli ospedali, già ridotti al minimo, non riescono a gestire nemmeno le malattie più comuni, come il diabete, portando a morti evitabili. Le Forze di Supporto Rapido hanno preso il controllo della città, costringendo il governo a spostarsi verso la costa del Mar Rosso.
I rifugiati, costretti a vivere in condizioni allo stremo nei campi profughi di Egitto, Ciad ed Etiopia, affrontano una mancanza totale di risorse di base. I campi non offrono acqua potabile, cure mediche o alimenti sufficienti, aggravando la già precaria situazione. Molti cercano disperatamente una via di fuga, tentando di attraversare il Mediterraneo dalla Libia o di dirigersi verso il Marocco nella speranza di raggiungere l’Europa dalla Spagna.
Gli aiuti umanitari, pur presenti, sono frammentari e insufficienti a fronteggiare l’emergenza. L’intervento delle ONG, seppur essenziale, non riesce a coordinare uno sforzo efficace su larga scala, lasciando milioni di persone in balia della fame, della malattia e della guerra.
L’ultimo tema affrontato nel dibattito ha posto l’attenzione sulle risorse ed il loro sfruttamento, con particolare attenzione al ruolo delle multinazionali come Webuild, già coinvolta nella costruzione di grandi opere con il Tav e della diga della Renaissance in Etiopia.
La questione della gestione delle risorse idriche, specialmente quelle del Nilo, è profondamente complessa e fonte di tensioni geopolitiche e politiche neocoloniali di estrattivismo.
Il Nilo, che nasce dall’unione del Nilo Bianco e del Nilo Azzurro, attraversa diversi paesi che dipendono fortemente dalle sue acque per agricoltura, energia idroelettrica e approvvigionamento idrico. Tra Etiopia, Sudan ed Egitto, le dispute per il controllo e l’uso delle risorse del fiume sono sempre più accese, in particolare dopo la costruzione della diga della Renaissance da parte dell’Etiopia. Quest’opera è stata realizzata senza il rispetto degli accordi precedenti, firmati da 11 paesi dell’area del bacino del Nilo, provocando nuove frizioni tra le nazioni interessate.
Gli attori governativi e le multinazionali, mossi da interessi economici, continuano a portare avanti politiche estrattive neocoloniali che alimentano conflitti. Il Sudan, pur essendo ricco di risorse come petrolio, oro (terzo produttore africano) e terre fertili, vede la maggior parte della sua ricchezza finire nel contrabbando, senza benefici reali per la popolazione locale. Un esempio lampante di questi squilibri è la costruzione della diga egiziana negli anni ‘60, che ha provocato lo sfollamento di intere comunità sudanesi, trasferite in aree climaticamente ostili, dove hanno perso tutto ciò che possedevano.
Queste dinamiche non fanno altro che perpetuare un ciclo di sfruttamento e povertà, segnato da tensioni politiche ed economiche tra gli stati vicini, a scapito delle popolazioni locali che continuano a pagare il prezzo più alto.
Il dibattito, partecipato ed accolto con entusiasmo dal pubblico, è riuscito non solo a porre l’attenzione su una grave crisi umanitaria che i grandi media stanno tenendo lontana dai riflettori, ma ha saputo anche tracciare connessioni tra le devastazioni coloniali a danno dell’Africa ed i progetti di grandi opere come il Tav a Vicenza, mostrando come i responsabili siano gli stessi e come ora più che mai sia necessaria una lotta intersezionale per fronteggiare il sistema estrattivista, capitalista e colonialista che ci circonda.