Hammer Show (I)

di Franco Pezzini

“Piacevoli stradine di campagna”

Arrivando da Heathrow, Windsor si trova a poca distanza: un luogo vivace pieno di negozi e turisti, dominato dalla massa impressionante del Castello reale. Il più grande castello abitato del mondo, visto che copre un’area di quarantacinquemila metri quadri; nonché quello abitato da più tempo, perché già Guglielmo il Conquistatore Buonanima aveva iniziato a costruirlo in un’area dove forse sorgeva una reggia anglosassone, e progressivamente i re hanno provveduto a allargamenti degli alloggi e nuove fortificazioni. La presenza, poco distante, del parco tematico Legoland Windsor col suo sabba di mattoncini e modellini – compreso un castello – finisce con l’assumere involontariamente un vago sapore allusivo.

Il Castello (quello vero) è una delle tre principali residenze ufficiali della Regina, con Buckingham Palace di Londra e Holyrood Palace di Edimburgo; e rappresenta ovviamente uno dei luoghi-simbolo della monarchia britannica e del suo rapporto con il popolo. Guardie al portone abituate a farsi fotografare sorridenti col bambino di turno, bandiere, la statua della regina Vittoria – “la vedova di Windsor” lì autoesiliata alla morte del marito Albert – davanti alle mura… Tributati dunque i giusti onori al turismo di rito, siamo autorizzati a cercare qualcosa di meno consueto: e a darci idealmente lo spunto è proprio la grande Vittoria, l’imperatrice di Sherlock Holmes e di Jack the Ripper, di Jekyll e dei nemici di Dracula, dei maghi della Golden Dawn e dello steampunk. L’imperatrice, in sostanza, di quella porzione del nostro immaginario – di chiunque in Occidente, in termini più o meno ampi – che risponde alle coordinate dell’età vittoriana.

Montati dunque in macchina, usciamo dal traffico di Windsor e superiamo le indicazioni stradali per Legoland e quelle per Eton – altro luogo di costruzione, sia pure con mattoni un po’ diversi – puntando a ovest in direzione Maidenhead. Dopo un po’ la circolazione si fa più tranquilla, mentre ai due lati della strada si impone una campagna qui e là punteggiata di boschi, memoria di quelli ben più estesi dei secoli passati. Se a Windsor le tracce delle Allegre Comari non sono molto evidenti, è da queste verzure che potrebbero sorgere i folletti farlocchi chiamati a confondere Falstaff.

E proprio tra gli alberi, a un certo punto, si apre sulla destra l’ingresso di un hotel. Ovviamente del tutto al di fuori da ogni possibilità passata, presente e (sono certo) futura delle nostre tasche: ma c’è un motivo specifico per cui vale la pena entrare, percorrere il vialetto fino al parcheggio fitto d’auto di lusso e guardarsi il castelletto turrito in neogotico vittoriano che ospita matrimoni, pranzi ufficiali e turismo d’alto bordo. Inalberando un sorriso da sfinge, entro: e affettando interesse quale potenziale cliente – compresa richiesta di depliant, anche se il mio aspetto straccione deve lasciare parecchio perplessi i custodi – butto un occhio nell’atrio. Tutto che brilla, gran traffico di gente che entra ed esce. Oakley Court, tale il nome del castelletto, viene costruito nel 1859 per un’autorità della zona, Sir Richard Hall Say, pare richiamando modelli d’Oltremanica per sovvenire alle nostalgie della giovane moglie francese. Tra i successivi proprietari vi abita il francese Ernest Olivier, console turco a Montecarlo, che lo rende luogo d’incontro di diplomatici e politici; e ospite è lo stesso De Gaulle allorché, durante la Seconda Guerra Mondiale, il castelletto diviene quartier generale della Resistenza francese. Olivier muore nel ’65, e Oakley Court rimarrà senza abitanti per parecchi anni, fino alla conversione in hotel alla fine del 1981; ma nel frattempo le sue mura conoscono una nuova stagione di celebrità come set cinematografico.

Oakley Court

In un’Inghilterra uscita faticosamente dalla Seconda Guerra Mondiale, i vertici di una piccola casa di produzione cinematografica, quella Hammer riemersa da bancarotta e peripezie assortite, trovano infatti più conveniente girare in vecchie ville di campagna che affittare costosi teatri di posa. Il risultato è che già nel 1949 vari film vengono realizzati a Oakley Court; e il castelletto ricomparirà periodicamente sullo sfondo di trame più o meno fantastiche nei decenni seguenti. Per esempio in The Reptile (La morte arriva strisciando) e The Plague of the Zombies (La lunga notte dell’orrore), due horror interessanti e non troppo considerati, entrambi 1966; ma anche in produzioni extra-Hammer come Mumsy, Nanny, Sonny and Girly, 1969, il pregevole And Now the Screaming Starts! (La maledizione), 1973, il birichino Vampyres (Ossessione carnale), 1974, e persino in The Rocky Horror Picture Show, 1975, come castello del dottor Frank N. Furter.

Però la vicina proprietà di Down Place, con la sua villa elegante e asimmetrica, è anche più spaziosa: all’inizio dunque degli anni Cinquanta la Hammer provvede all’acquisto e vi installa i leggendari Bray Studios, luogo di culto per un’intera generazione di amanti del fantastico. In quest’angolo del Berkshire, località Water Oakley – il villaggio di Bray, da cui il nome, si trova appena oltre – nel ’53 vengono girati i primi due film di fantascienza della casa, Four Sided Triangle e Spaceways (Viaggio nell’interspazio), entrambi diretti da quel Terence Fisher il cui nome resterà indissolubilmente associato al marchio; e qui in prosieguo ricompariranno in scena i grandi mostri dell’horror, archiviati dagli USA con la Guerra Fredda contro il Pianeta Rosso Comunista, e riproposti dalla Hammer con uno scatto di orgoglio gotico (roba inglese, no?) proprio grazie a Fisher e alla mitologica coppia di Peter Cushing & Christopher Lee.

Agli immensi studios Universal con legioni di figuranti si contrappone così alla fine degli anni Cinquanta, con impatto planetario, quest’angolo sperduto di campagna britannica con la sua compagnia quasi teatrale, che va dai produttori alla signora che prepara i panini, e una villa continuamente riadattata come un palcoscenico. Gli Studios sfruttano palmo per palmo gli spazi di Down Place: ci sono due aree per le riprese, cioè una sala al pianterreno della villa e un’altra lì accanto, costruita apposta, destinata ad accogliere in seguito il laboratorio di The Curse of Frankenstein (La maschera di Frankenstein), 1957, e salone e scalinata del successivo Dracula (Dracula il vampiro), 1958. Altri due set verranno allestiti in prosieguo, ma ogni angolo della costruzione può all’occorrenza ospitare riprese, tanto più che pareti teatrali vengono montate e smontate: e i cultori dei film Hammer possono bearsi di riconoscere, da uno all’altro, le ingegnose modifiche apportate attraverso giochi di scenografia e quelle pitture su vetro – le cosiddette matte – antesignane degli sfondi in computer grafica.

Un fan, David L. Rattigan, tempo fa aveva raccolto nel suo sito foto di estremo interesse per cogliere questa trasformazione fantastica degli spazi. Le finestre sporgenti a vetrata della sala da ballo di Down Court appaiono per esempio in The Mummy (La mummia), 1959, quale esterno della casa dell’archeologo protagonista John Banning; e l’ingresso principale della villa, usato per il carcere svizzero di The Curse of Frankenstein, torna come cortile di monastero transilvano in Dracula Prince of Darkness (Dracula il principe delle tenebre), 1966, e mercato russo in Rasputin: The Mad Monk (Rasputin, il monaco folle), 1966. Da un altro lato della villa è allestito il backlot, cioè l’area con set da esterni permanenti: inizialmente usato per suggerire accessi con fossati verso castelli (Dracula, 1958, The Hound of the Baskervilles / La furia dei Baskerville, 1959), diviene scena di villaggio in vari film successivi (The Brides of Dracula / Le spose di Dracula, 1960, The Curse of the Werewolf / L’implacabile condanna, 1961, Captain Clegg / Gli spettri del Capitano Clegg, 1962, The Phantom of the Opera / Il fantasma dell’Opera, 1962, The Scarlet Blade / La lama scarlatta, 1963, e The Devil-Ship Pirates / La nave del diavolo, 1964); acquista una grandiosa struttura a colonne nei citati Dracula Prince of Darkness e Rasputin; e ritorna infine villaggio in The Plague of the Zombies and The Reptile, Frankenstein Created Woman (La maledizione di Frankenstein) e The Mummy’s Shroud (Il sudario della mummia), gli ultimi due del 1967, anno finale della Hammer a Bray prima di passare ai più anonimi studi di Elstree e Pinewood.

Alla vaghezza atemporale degli horror Universal, dove la dimensione storica non interessava, si oppone in Inghilterra una riscoperta del gotico in costume, con la ricostruzione d’ambiente di un Ottocento (mitteleuropeo o britannico non importa) profondamente vittoriano – come profondamente vittoriano è Fisher. E al baraccone dei mostri degli anni Trenta e Quaranta, circonfuso di meraviglioso e poesia e nutrito di Bibbia e freudismi precotti, si contrappone qualcosa di ben più sfuggente e perturbante. In The Curse of Frankenstein e nei seguiti il vero mostro è lo scienziato, coi suoi demoni interiori; nel Dracula, il vampiro è lo spettro erotico che aggredisce dall’interno la società vittoriana nella sua dimensione più profonda, il sesso; in The Mummy, emerge il fantasma di una necrosi generazionale e culturale che rende l’archeologo interiormente sclerotico quanto la Mummia lo è esteriormente… Fino al mostro-femmina di The Gorgon (Lo sguardo che uccide), 1964, il fantasma che si insedia a ogni anello di una catena umana di amanti condannati, in un apologo amarissimo, più poetico che orrifico, sulle conseguenze devastanti del sentimento. Se ormai i dati tecnici sono reperibili ovunque online e l’approccio da fandom può interessare fino a un certo punto, oggi è prezioso riflettere soprattutto sul motivo per cui questi film piacciono ancora tanto: e in particolare sulla mitologia sottesa, sugli archetipi e le dinamiche in scena, sul tipo di “misteri” – in accezione totalmente laica, ma simbolicamente fortissima – celebrati a beneficio di un pubblico che partecipa idealmente e anche contraddittoriamente a una simile liturgia.

I mostri Hammer non sono quelli del baraccone come nell’età Universal, ma fantasmi delle crisi di un’epoca, della psiche e della cultura, dell’educazione e dei sentimenti; mostri di un mondo nuovo, a colori, dove il sangue recupera il suo colore (più o meno) naturale e il sesso è evocato con una potenza allusiva tutta vittoriana, mai prima conosciuta nel cinema popolare. E anzi proprio gli abiti continuamente riproposti dell’età di Vittoria, tempo mitico di certezze e di crisi & paradiso perduto del gotico, finiscono con l’incontrare idealmente le minigonne di una Swinging London che irrompe.

A distanza di parecchi anni, nelle sue memorie, Cushing ricorderà con parole affettuose quegli studi “nella serenità boschiva sulle rive del Tamigi, con ampi prati che scendevano fin sul bordo dell’acqua”; l’autostrada non c’era e occorreva più tempo per arrivare, “ma percorrevamo piacevoli stradine di campagna in mezzo a scenari pastorali, proprio belli nella prima luce del mattino”. Ancor oggi, con un traffico certo maggiore, è possibile capire cose Cushing intendesse: e abbiamo appena ripreso la strada in direzione Maidenhead, quando un’insegna che richiama graficamente uno stralcio di pellicola indica la stradina che sulla destra conduce agli studi. Nell’immetterci, mi scopro emozionato: e dopo un po’, a un gomito dello stretto sentiero, appare il cancello con l’insegna Bray Studios. Non è possibile entrare – le vicissitudini della proprietà hanno movimentato raccolte di firme – ma mi basta fermarmi un momento. I custodi ci guardano perplessi mentre accostiamo e scattiamo qualche foto, ma arriva il furgone della posta e impegna la loro attenzione. In distanza si erge nel verde il profilo di Oakley Court, attorno è silenzio. Del resto, scopriremo, niente qui attorno ricorda esplicitamente quella stagione lontana: non targhe, né vetrine con locandine o pubblicazioni sull’epoca d’oro, e neppure insegne di pub con Dracula che azzanna fanciulle. Solo silenzio, a ricordare che da questo cancello sono passati i protagonisti di una delle più grandi epopee novecentesche dell’immaginario.

L’ingresso ai Bray Studios

Torniamo alla strada principale. Chi abbia tempo può permettersi – ennesima deviazione sulla destra – una capatina al villaggio di Bray, graziosissimo e molto curato, con l’antica chiesa parrocchiale di St Michael, il più antico club di cricket del Paese (1798) e un paio di ristoranti alla moda. Ma la prossima tappa è Maidenhead: non perché ci sia alcunché da vedere in loco (al di là del solito centro commerciale), ma si tratta di una comoda tappa per alcune escursioni un po’ particolari che ci siamo riproposti.

Piccoli rave a Medmenham

Nel sistema mitologico Hammer ritorna con insistenza la figura dell’aristocratico impenitente, pronto a perpetrare i più empi misfatti, magari all’insegna di quella ritualità (sacrifici di fanciulle e dintorni) che con toni diversi corre un po’ in tutta la produzione della casa. Ovviamente si tratta di un modello mutuato da una lunga tradizione gotica: eppure viene da domandarsi se la squadra di Bray non riceva qualche suggestione dalla fama di un certo personaggio che viveva non distante, e dal suo giro di compari brillanti quanto equivoci. A poche miglia di lì, poco oltre Maidenhead, si trovano infatti i luoghi d’azione del più celebre dei cosiddetti Hellfire (o Hell Fire) Clubs, termine generale per le conventicole libertine di nomi eccellenti sorte tra Inghilterra e Irlanda fin dagli inizi del Settecento, con connotati relativamente misteriosi e fama sulfurea: in questo caso il gruppo di aristocratici e artisti raccolto attorno al potente Sir Francis Dashwood (1708-1781), figlio di un uomo d’affari assurto a baronetto. In realtà l’interessato, che potrebbe aver fatto parte di un Hellfire Club negli anni Trenta e aderiva a una Society of Dilettanti (1732) con membri, pare, di un altro Hellfire Club precedente, non riproporrà mai quel termine per la propria compagnia – ma il contesto sembra analogo e viene pacificamente utilizzato. Si dice sia stata l’esperienza del Grand Tour (comune a ogni gentiluomo dell’epoca, ma nel suo caso estesa fino alla Russia) a fargli incontrare esperienze religiose ch’egli giudica connotate da un totale rifiuto di Natura e Ragione: e restano celebri le sue burle ai danni di pellegrini a Roma e poi ad Assisi. D’altra parte l’idea di fondare in chiave di beffa un’istituzione che ad ascesi e rinunzie contrapponga tra Bacchi, Veneri e Priapi più sollazzevoli pratiche di “social felicity” non pare strana nel contesto di un anticlericalismo inglese nutrito di ateismo libertino e suggestioni neopagane.

Dashwood raccoglie così un gruppo di allegroni, “dilettanti in arte e letteratura” tra gli uomini più potenti del regno: in particolare c’è quel John Montagu, quarto conte di Sandwich che noi rammentiamo quasi solo come inventore del panino imbottito (sul tema c’è discussione), ma che all’epoca vanta ben altro rilievo. Sono poi della partita il fratello del fondatore, John Dashwood-King, gli alleati politici George Bubb Dodington e Paul Whitehead, vari parlamentari tra i quali il giornalista John Wilkes (che più tardi negherà di aver fatto parte della cerchia più ristretta, ma il legame c’era), vari professionisti e possidenti, il noto artista William Hogarth che lascerà una ricchissima documentazione in chiave grottesca sull’Inghilterra del suo tempo, alcuni poeti… Nasce così la cosiddetta Brotherhood of St. Francis of Wycombe, od Order of Knights of West Wycombe, dal luogo della dimora di famiglia di Dashwood nel Buckinghamshire: e pare si scelga di celebrarne proprio a West Wycombe il primo ritrovo nella Notte di Valpurga del 1752 (benchè altre fonti datino l’inizio delle attività sociali al ‘49, o addirittura al ‘46). La villa palladiana del Nostro è abbastanza confortevole per simili festini – in seguito, vedremo, egli disporrà anche delle Caves nella collina, anche se non è sicuro il tipo di utilizzo – e del resto ci sono le ricche case dei confratelli, utilizzabili all’occasione per quei primi incontri.

Ma nel frattempo Dashwood ha adocchiato il corpo in rovina di un’abbazia cistercense del XII secolo a Medmenham (sempre Buckinghamshire), di proprietà dell’amico Francis Duffield: nel 1751 provvede dunque ad affittarlo, e lo affida all’architetto Nicholas Revett per una sontuosa ricostruzione nello stile del revival gotico. L’Abbazia, all’epoca e poi in seguito nella tradizione gotica (fino alla Carfax Abbey del Dracula cinematografico), è il luogo-simbolo di un passato suggestivo, il concentrato di esotismi pseudopapisti, rovine ammantate di mistero e serraglio di sogni. Nessuno stupore dunque che gli incontri della Fratellanza vengano spostati da West Wycombe a Medmenham, rifugio assai più appartato e insieme spalancato a tanta suggestione: donde il nome birichino di Monaci o Frati di Medmenham che i membri assumeranno. Un celebre ritratto dei tardi anni Cinquanta per mano di Hogarth, parodiante l’iconografia sacra, mostra Dashwood in saio francescano (in fondo si chiama Francis), in devota contemplazione di una donnina nuda davanti a un testo erotico, sotto un’aureola da cui occhieggia malizioso il sodale Lord Sandwich. I membri – a sentire almeno il gossip degli anni Sessanta – si chiamano l’un l’altro “Fratello”, sotto la direzione di un “Abate” che periodicamente cambia: e gli abiti rituali prevedono il bianco per i primi (pantaloni, giacca, cappello) e il rosso per il secondo. I “felici discepoli di Venere e Bacco” – così Wilkes – si distinguono però in due ordini: quello superiore di una dozzina di “apostoli” e uno inferiore di quaranta o cinquanta adepti. Quanto alle signorine di servizio – chiamate “ospiti”, secondo l’eufemistico uso per prostitute, o più genericamente nuns, “suore” – non vengono tutte dai bordelli: la schiera è accresciuta da ragazze del posto in cerca di brividi e soprattutto da signore della buona società (Lady Montagu compresa), legate ai Monaci da rapporti di parentela, fidanzamento o matrimonio. Come ricorderà il contemporaneo Horace Walpole – che non li sopporta – gli adepti sono di osservanza “rigorosamente pagana: Bacco e Venere erano le divinità alle quali offrivano sacrifici quasi pubblicamente; e le ninfe e le botti raccolte in occasione delle feste di questa nuova chiesa informavano a sufficienza il vicinato del temperamento di tali eremiti”.

Sempre secondo le informazioni che poi circoleranno, i rave di cibo, vino & sesso (due volte al mese, più un soggiorno di almeno una settimana in giugno o settembre) prevedono parodie di riti sacri con abbondanti connotazioni porno. Ovviamente si diffonde anche la voce, come per i precedenti Hellfire Clubs, che il gruppo coniughi a vizio, nunsploitation e blasfemie assortite un vero culto del diavolo. In teoria non si può escludere che venga scomodato per beffa anche Belzebù; e del resto, considerando come nell’immaginario britannico il diavolo assuma volentieri il saio (si pensi al Faustus di Marlowe) la scelta non apparirebbe così innovativa. Sul tema si favoleggerà tanto che qualunque saggio sul satanismo deve oggi riportare almeno una menzione dei Monaci di Medmenham. Ma una tale devozione è ben poco probabile, al di là di quel satanismo ludico (la definizione è di Massimo Introvigne, cfr. il suo I satanisti, SugarCo 2010), cioè per épater le bourgeois, che i Monaci condividono con altre realtà dell’epoca; mentre troviamo la voce cavalcata dai nemici di Dashwood in quel contesto di divisioni e scandali degli anni Sessanta in cui l’Ordine sembrerà affondare. Nel 1762, il Conte di Bute nomina Dashwood Cancelliere dello Scacchiere, nonostante l’uomo non sia affatto preparato per il ruolo (e lo lascerà di corsa l’anno dopo, per i tumulti causati da una tassa sul sidro che ha inopinatamente varato). In ogni caso il libertino siede alla Camera dei Lord come quindicesimo barone le Despencer quando scoppia il caso (1763) di un libello sedizioso a firma di Wilkes: e le indagini conducono a ulteriori scoperte nei suoi cassetti, relative a materiali pornografici – An Essay on Woman, che parodiava in modo bricconcello An Essay on Man di Alexander Pope, e potrebbe essere stato scritto non da Wilkes ma da Thomas Potter, un altro dei Monaci – subito denunciati da Lord Sandwich in Parlamento. In effetti, a dispetto di alcune pregevoli iniziative per limitare il potere dell’esecutivo e del legislativo (come il divieto degli arresti arbitrari, il diritto degli elettori di scegliere propri candidati senza veti istituzionali e la libertà di critica dei giornali al governo e di riportare i testi delle sedute parlamentari), e di una grande popolarità, il profilo del radicale Wilkes può non risultare limpidissimo: ma è anche grazie a lui, ricordiamolo, che una serie di diritti civili entreranno nella civiltà occidentale. Per contro, certo limpido non è Lord Sandwich, coinvolto nelle attività dei Monaci e per un periodo amante, in contemporanea di Wilkes, della stessa cortigiana, la bella e a suo modo dignitosa Fanny Murray (1729-1778), a cui era dedicato An Essay on Woman: e la popolazione non riconosce a questo maneggione aristocratico la dignità morale di accreditarsi a censore. Col risultato che il tribunale viene invaso dalla folla e il simbolico rogo di An Essay on Woman viene impedito.

Il fatto è che, dosando le rivelazioni, Wilkes ha accennato a presunte attività sataniste all’Abbazia: sperando (dicono i suoi avversari) di estorcere almeno un incarico all’estero. Sia vero o meno, invano l’ex-amico Dashwood ha cercato di chetare Wilkes, e a un certo punto il governo (che a Bute, forse pure coinvolto nei fatti dell’Abbazia, ha visto succedere nel 1763 Grenville) è intervenuto facendogli perquisire casa. Ma all’insegna del tanto peggio, tanto meglio, Wilkes continua i racconti piccanti su Medmenham tramite i propri giornali, e a supportarlo interviene un altro ex-complice, il pastore Charles Churchill che attacca Lord Sandwich – ricordandone tra l’altro la vivace attività nella caccia notturna alle nuns. Quando Lord Sandwich si dichiara dubbioso se la morte verrà a Wilkes sulla forca o per sifilide, si sente rispondere: “Dipende, Milord, se prima abbraccio i principi di Vossignoria o l’amante di Vossignoria” – ma ha la soddisfazione a un certo punto di vederlo andare temporaneamente in esilio.

Nel frattempo però l’ondata del gossip viene accresciuta dalla pubblicazione del romanzo Chrysal; Or the Adventures of a Guinea (circa 1760, spesso attribuito all’avvocato Charles Johnstone, ma in realtà scritto forse dalla vivace Frances Vane, viscontessa Vane) attribuendo voce a una moneta – appunto una ghinea – si narrano le avventure dei personaggi tra i quali è passata: e attraverso un mix tra racconti di Wilkes e libera fantasia, volti e situazioni del giro di Medmenham sono descritti in chiave compiutamente satanista. Lo scontro tra confratelli e lo scandalo derivato induce a quel punto Dashwood a far sparire dall’Abbazia il materiale più compromettente, e nel 1766 l’Ordine sembra sciogliersi – anche se si parla di riunioni dei Monaci fino al 1778, poco prima della morte del fondatore. Ma è del ’95 il poema The Confessions of Sir Francis of Medmenham and the Lady Mary His Wife di John Hall-Stevenson, che conferma le accuse e rincara raccontando i presunti incesti di Dashwood con madre e tre sorelle, una delle quali lesbica (sarebbe interessante sapere se Stoker ricorderà tale voce a proposito delle tre spose di Dracula); e nei due secoli successivi la mitopoiesi sull’Ordine demoniaco potrà solo arricchirsi, offrendo una sghemba “ispirazione” ai satanismi successivi.

L’influsso di Dashwood sull’immaginario sarà in effetti notevole. Tanto più se fosse vero, come qualcuno sostiene, che Walpole tragga ispirazione proprio dalla tenebrosa fama della combriccola per il suo The Castle of Otranto (1764), opera prima e fondante del gotico letterario propriamente detto. Sembra d’altronde possibile che il nome del primo vampiro a puntate, quel Sir Francis Varney abitante in Ratford Abbey che tanto successo avrà apparendo tra il 1845 e il 1847 nei settimanali penny dreadful (l’ha riproposto in Italia Gargoyle, tre voll., 2010), possa attingere proprio a Dashwood. Lo stesso Cushing prenderà parte al film The Hellfire Club (Robin Hood della Contea Nera), 1961, liberissimamente ispirato al tema; e il mischione di fantasie sessuali all’insegna del motto Fay ce que vouldras (già proprio della rabelaisiana abbazia di Thélème e in seguito recuperato da Crowley) e il presunto satanismo spalancheranno a Dashwood e complici una carriera postuma di vilain nella cultura popolare attraverso romanzi, fumetti, anime, album di musica gotica e siti web. Un titolo tra tutti, il pastiche di Carrie Bebris, Sospetto e sentimento, 2005 (in Italia 2008, per TEA), nell’ambito della serie di apocrifi pseudo-austeniani Le indagini di Mr. e Mrs. Darcy: i protagonisti di Orgoglio e pregiudizio, ormai sposati, incontrano i Dashwood di Ragione e sentimento, e la suggestiva identità di cognome con il Nostro vede intrecciarsi una storia potenzialmente intrigante a base di magia e possessione. Che poi purtroppo si sgonfia, per la scarsa capacità di una vivace autrice di commedia nel gestire il meccanismo fantastico. Inevitabile dunque pensare a Dashwood e ai suoi sodali di fronte al banchetto dello scellerato Sir Hugo all’inizio del The Hound of the Baskervilles marca Hammer, o di altri diabolici libertini dei film della casa.

Per le suggestive relazioni con l’immaginario, insomma, Dashwood risulta un personaggio almeno meritevole d’indagine. Decidiamo dunque di puntare su Medmenham: e quando superiamo il cartello stradale col nome del luogo, immerso tra gli alberi, scopriamo che è poco più di una frazione. Invano cerchiamo qualcosa di simile a una piazza del paese: in un attimo ci si trova già fuori. Torniamo dunque indietro, fermando l’auto vicino alla graziosa chiesa di St Peter and St Paul: piove, ma l’edificio – soggetto a pesanti restauri nel 1839 – è talmente piccolo che il tempo di un esame dell’interno non permette al pur volubile clima britannico di cambiare parere. Qualcuno racconta che tra queste mura serene, nel 1755, presenti Dashwood e Lord Sandwich, quest’ultimo liberasse una scimmia camuffata durante un servizio liturgico, scatenando il panico tra i fedeli come a un’irruzione di Satana. L’episodio sembra però rappresentare una semplice duplicazione dell’altro più noto che narrerò in seguito.

Medmenham: St Peter & St Paul

A poca distanza sorge un pub-ristorante, lo storico The Dog and Badger risalente nientemeno che al 1390. Il problema è che invece della malfamata Abbey di Dashwood non troviamo traccia, né indicazioni – e non mi sento di chiederle al pio ministro di culto intravisto alla chiesa. Finalmente, in modo fortuito, imbrocchiamo la direzione: tentando lungo un viale perpendicolare tra gli alberi arriviamo al Tamigi, e riesco a riconoscere nell’ultimo edificio sul fiume – appena visibile al di là del muro di cinta – il profilo dell’Abbey incontrato in foto durante le mie ricerche. Certo, dall’altra riva deve vedersi molto meglio, ma l’intrico di strade e la mancanza di un ponte nelle vicinanze ci sconsiglia di cercare una migliore panoramica (scopriremo poi che occorrerebbe dirigersi verso Hurley, via Henley, e aggiungere una mezz’ora di passeggiata). In ogni caso qui, su questo magnifico tratto del fiume tra Henley and Marlow, con sponde verdi sotto il cielo piovoso che suggeriscono una tranquillità assoluta, si fatica a identificare il torbido Tamigi che tanta storia e tante storie ha fatto maturare presso Madre Londra. Come lo stuolo di deliziose paperette, che dalla riva alcuni ragazzini provvedono a rifocillare con briciole di pane, offre una scena di candore lontana mille miglia dal losco quadro delle sere di festa all’Abbazia, con le barche di Monaci e Suore fasulli che tra luci livide arrivano e ripartono nella più equivoca privacy.

Medmenham Abbey (tristemente, dal muro)

Ma l’inavvicinabilità dell’Abbazia oggi, richiusa tra alte mura nella quiete di Medmenham, sembra una buona metafora per i misteri di quella di Dashwood. Resta per esempio la curiosità su come dovesse presentarsi all’epoca, visto che le testimonianze restano vaghe e frammentarie. Pare per esempio che il “garden of lust” presentasse, oltre alle numerose camere da letto, una grande sala da pranzo, un salotto e una sala capitolare, adorni di pilastri marmorei con iscrizioni pornografiche in latino maccheronico e sacelli fintoellenici, statue in pose birichine e figure di divinità omertose – del silenzio, della segreta passione… – dal mondo classico o dall’Egitto. Gli affreschi sui muri, si dice per mano di  Hogarth, recavano copie di fantasie erotiche romane o ritratti di famose prostitute britanniche. Sopra una porta, in vetro colorato, campeggiava il motto (rabelaisiano, prima che crowleyano) Fay ce que vouldras: e al di sotto dell’Abbey, una serie di spazi ricavati da una caverna preesistente (e probabilmente un po’ umidi, considerando il fiume vicino) dovevano apparire essi pure allegramente decorati con temi mitologici e simboli sessuali. Ma si tratta di informazioni non provate: per quanto riguarda per esempio la sala capitolare, nel 1763 Walpole – curiosissimo – riuscirà a corrompere una cuoca per buttare un occhio nell’Abbey in assenza di Dashwood, trovando però quella porta chiusa a chiave. A completare il tutto c’era poi la biblioteca, sembra con una ricchissima collezione di pornografia. Ma di tutto ciò non rimane più nulla, e già nel 1766 – a ridosso degli scandali – la sala capitolare risulta “ripulita”.

Medmenham Abbey (la cancellata)

Tornando indietro lungo il viale ottengo conferma, da un campanello a una lussuosa cancellata, che l’Abbey è proprio l’edificio intravisto. Non so immaginare quanto gli attuali, ricchi proprietari apprezzino la memoria di Sir Francis. Alla morte di lui, il nipote Joseph Alderson fonda però una Phoenix Society – più tardi Phoenix Common Room – con qualche stabilità dal 1786, proprio in onore del vecchio gaudente: a noi il nome ricorda un po’ Harry Potter, ma in quel contesto si tratterebbe di un simbolico rinascere dalla ceneri del gruppo di Dashwood. Animata da un forte orgoglio di appartenenza, la Phoenix Common Room esisterebbe ancor oggi. A saldare idealmente il cerchio, va ricordato che l’attrice che in La furia dei Baskerville interpreta la bella Cecile che flirta col baronetto/Lee, Marla Landi, cioè la torinese Marcella Teresa Scarafina (1933), finisce con lo sposare nel 1977 proprio l’omonimo discendente Sir Francis Dashwood (1925-2000), andando a vivere a West Wycombe House, di cui parleremo in prosieguo.

(continua)

Condividi questo contenuto...

Lascia un commento