I due Maraun, ovvero: il nazista e il suo doppio. A proposito di un libro tossico

di Mr. Mill
con una premessa del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki *

«Il partito nazionalsocialista sfruttava a proprio favore la paura della gente verso gli ebrei e nei confronti del Comunismo, accrescendo non di poco le proprie adesioni. Gli ebrei tedeschi di quel periodo erano effettivamente più istruiti e meglio retribuiti della media della popolazione e chi non era ebreo li percepiva come sfruttatori di stato. I nazisti, inoltre, con il loro modello di stato sociale, eliminando la disoccupazione, incrementando i lavori pubblici, reprimendo il crimine, distribuendo contributi familiari e sovvenzioni per l’agricoltura, riuscirono a conquistare la quasi totalità del popolo tedesco. Il NSDAP fu il primo grande partito popolare in Germania che coese il proprio popolo come non mai, aumentandone l’autostima, offrendo benessere e generando una tale forza di integrazione mai esistita prima di allora. Oltre a tutto ciò, il Nazionalsocialismo pretendeva ci fosse sempre un colpevole esterno per i problemi del paese: il capitale straniero, i banchieri ebrei, i bolscevichi russi, la Borsa di Londra ecc. In sostanza, i nazisti non sostenevano l’altrui inferiorità, ma il fatto che i tedeschi fossero di gran lunga superiori a tutti gli altri, e questo pensiero, quello di appartenere a una razza di superuomini, univa ricchi e poveri.» (Andrea Cominini, Il nazista e il ribelle)

Nei giorni scorsi, sul suo blog, Mr Mill ha recensito il libro di Andrea Cominini, Il nazista e il ribelle. Una storia all’ultimo respiro, pubblicato da Mimesis con una prefazione di Mimmo Franzinelli.

A queste latitudini, Mr Mill è di casa: giapster di lungo corso, componente tra i più infaticabili del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki e del collettivo Alpinismo Molotov, è un pilastro della Wu Ming Foundation. Se oggi ripubblichiamo qui su Giap la sua recensione, però, non è per via del curriculum vitae di chi l’ha scritta. La ripubblichiamo perché è una riflessione importante, che va ben al di là del contenuto del libro di Cominini. Quel libro è un caso, e come tale va studiato. Un caso che, come tanti altri, rivela una tendenza più generale di certi lavori sulla storia (ci sembra eccessivo chiamarli tout court “storiografici”, come diremo tra poco).

Claudio Pavone

Il libro si occupa di una vicenda che interessa la storia locale del bresciano, in particolare della media Valle Camonica, perciò ha attirato l’attenzione di Mr Mill, che in quella zona è nato e cresciuto. E la Resistenza è anche un insieme di storie locali composte in un quadro complessivo, come mostrano tutti i grandi libri di storia generale della guerra partigiana: basterebbe questo a spiegare perché la riflessione sul libro di Cominini non deve restare confinata al dibattito locale. Ma prima di tutto, la recensione di Mr Mill – maturata in un piccolo gruppo di lettura critica del testo – affronta una questione di metodo. La questione che, ad esempio, si pone Claudio Pavone nella sua Prima lezione di storia contemporanea (Laterza, 2009), proprio con riferimento alla guerra di Liberazione.

Ridotta all’osso, la questione è: posto che il condizionamento del ricercatore rispetto all’oggetto della ricerca esiste ed è ineliminabile, quali sono gli attrezzi del mestiere che permettono allo storico di sorvegliare i propri pregiudizi sugli eventi indagati? Domanda che si fa particolarmente urgente, quando la distanza tra il presente dello storico e il passato prossimo della storia è molto ridotta, e quando esiste ancora una memoria vivente del passato prossimo che si studia.

Ben lungi dal trattarle con l’estrema cautela necessaria, Cominini si fa guidare dalle sue precomprensioni, a cui cerca conferma a ogni costo. Subisce palesemente il fascino del nazista che dà il titolo al suo libro, il maresciallo Werner Maraun. Poco importa che l’autore non si senta filonazista. Non c’è motivo di dubitare che sia intimamente convinto di non esserlo: tra l’altro, ha collaborato in passato con l’Archivio della Resistenza di Brescia e l’Istituto della Resistenza di Bergamo. Il punto non è questo. Non è mai questo. Il punto è cosa dice l’opera, non cosa pensa di dire l’autore.

I limiti del libro sono evidenti ad apertura di pagina: tolle, lege, diceva quel tale. Per non fare che un esempio, tratto dalle primissime battute del libro: a cosa serve che Cominini si dilunghi per un intero paragrafo a raccontarci che da piccolo cacciava i passerotti a casa dei nonni, se non a sovraccaricare l’emotività (l’istanza patetica) della sua esposizione? È questa la tendenza di certi lavori sulla storia di cui parlavamo prima. Ma quindi uno storico non può fare autobiografia? Certo che può, e non serve scomodare i souvenirs de guerre di Marc Bloch, ma a patto che i riferimenti autobiografici siano funzionali alla ricerca. Qui sono soltanto pretesti.

Infine, è inutile nasconderlo, sulla ricezione del libro di Cominini, specie in ambienti antifascisti bresciani, pesa l’endorsement di Mimmo Franzinelli. Il suo nome in copertina e la sua breve ma laudatoria prefazione hanno indotto molti, indubbiamente in buona fede, a prendere senz’altro per buono il volume. In più, l’abbassamento dell’attenzione critica ha un altro risvolto sgradevole: chi, come Mr Mill, prova a entrare nel merito delle tesi di Cominini, viene liquidato in modo sprezzante. Anche qui, un solo esempio: in un messaggio all’autore, che poi lo ha reso pubblico su facebook, il presidente dell’ANPI provinciale di Brescia Lucio Pedroni ha definito «iperideologica» la recensione, senza peraltro menzionarla espressamente e senza motivare il suo giudizio.

Non c’è bisogno di precisarlo, ma a scanso di equivoci lo facciamo ugualmente: Franzinelli è e resta uno storico di grande levatura, che ha scritto libri importantissimi, ai quali anche noi abbiamo attinto più e più volte nei nostri post. Il fatto che sia un autore stimabilissimo, però, non ci impedisce di dire che, prestandosi a quest’operazione, sembra essere incorso in uno scivolone grossolano.

Purtroppo Franzinelli stesso non aiuta a sottrarsi a quest’impressione: intervenendo nei commenti alla recensione, non ha saputo far di meglio che dare del «vigliacchetto» a Mr Mill, pretendere i suoi dati anagrafici, sfidarlo a singolar tenzone, senza dire una sola parola sul perché ritenga il libro di Cominini tanto lodevole.

Da tutto questo, comunque, bisogna cercare di prescindere, se si vuole valutare davvero il peso delle critiche sollevate nella recensione. Noi le troviamo ben ponderate, non offensive per nessuno, ma giustamente sferzanti. Buona lettura.

Nicoletta Bourbaki

Il nazista e il ribelle

Il nazista e il ribelle

Nel novembre 2020 è stato pubblicato da Mimesis, nella collana storica Passato prossimo, Il nazista e il ribelle. Una storia all’ultimo respiro, che si apre con un’entusiastica prefazione firmata dal noto storico Mimmo Franzinelli. L’autore del libro, Andrea Cominini, stando a quanto riportato nella scheda di presentazione del libro, intende ricostruire «un episodio apparentemente minore, accaduto nella Valle Camonica negli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale».

Gli episodi centrali della narrazione, stando al titolo del libro, dovrebbero però essere due: l’assassinio dopo la cattura, con un colpo di pistola sparato a freddo in pieno volto, di un partigiano delle formazioni Fiamme Verdi, Bortolo Bigatti, nome di battaglia Móha, avvenuto il 6 febbraio 1945 presso Piazza Garibaldi in Esine; la cattura e l’uccisione del maresciallo delle Waffenschule Oberbehfelshaber Südwest (comando locale di Boario), Werner Paul Maraun, mentre veniva condotto da una piccola folla di abitanti di Esine verso la sunnominata piazza, il 28 aprile 1945.

In effetti la lettura del libro – piatta e faticosa, per la scrittura e per la struttura – sembra dare ragione alla scheda, più che al titolo del libro: l’intenzione di ricostruire in parallelo le vite di Bortolo Bigatti e di Werner Maraun vede infatti la narrazione nettamente sbilanciata a favore del nazista, che si prende larga parte del testo. Al centro di tutto c’è sempre e comunque lui, il solerte nazista che guidò le operazioni anti-partigiane nella media Valcamonica (e che prima partecipò, sempre in funzione anti-partigiana, all’occupazione della Francia e poi all’invasione dell’Unione Sovietica). Il partigiano Bigatti c’è, suo malgrado, ma la sua presenza è da co-protagonista, il suo ruolo funzionale a rendere potabile quella che è di fatto una biografia di – e molto empatica con – Maraun, un nazista fatto e finito.

Sempre la scheda di presentazione del libro riporta poi che Il nazista e il ribelle è una «ricerca di formazione». Non è ben chiaro cosa s’intenda, così come risulta completamente fuori fuoco tirare in ballo, come fa anche Mimmo Franzinelli nella sua Prefazione, la public history. Sarà forse che l’autore si è formato con questa ricerca, circostanza che potrebbe pure alleggerire le responsabilità di una narrazione pretenziosa e presuntuosa, dannosa come si dirà più avanti, ma più probabilmente il riferimento vuole dare dignità alla dimensione personale e famigliare che avrebbe spinto Cominini a spendersi in questa ricerca: la figura del nonno dell’autore e il ruolo dei suoi racconti, che avrebbero attivato fin dall’infanzia la curiosità dell’autore per la figura del maresciallo Maraun.

Oppure, ancora, il riferimento è alla formazione di una sua opinione sull’assassinio di Bigatti, dato che tracce delle sue, di Cominini, interazioni in rete ci testimoniano che se un tempo era convinto della responsabilità di Maraun, poi ha deciso di spendere quattrocento pagine – senza dar conto in queste ultime di come la sua convinzione sia mutata né portando a giustificazione di tale mutamento di opinione, perché di questo si tratta, qualche supporto documentale – per scagionare da responsabilità specifiche il maresciallo nazista come fa nel libro:

«I am so sad about [Maraun]. He killed a young boy in my village but I think that the partisans had no rights to kill him…»
Andrea81 (aka Andrea Cominini), 10 settembre 2010

E poi c’è quel «all’ultimo respiro» che risuona di mistero, di non svelato, che anticipa la tensione di una ricerca ricca di scoperte, di rivelazioni; mistero che è però puro artefatto, rivelazioni che non sono certo d’importanza tale da giustificare il sottotitolo. Meglio, un colpo di scena c’è – molto caricato – ma si consuma nella prima parte del volume: l’autore rintraccia la figlia di Maraun e con lei intesse una corrispondenza, corrispondenza che rappresenterà poi il materiale per ricostruire «l’uomo Maraun» (ma un nazista è anche un uomo, che scoperte…).

Si sarà capito, la lettura di questo libro – svolta in un piccolo gruppo di lettura condivisa – è risultata respingente e molto irritante. I motivi saranno chiariti più avanti. Ma visto il frutto avvelenato che rappresenta, se ne scrive qui sia perché anche un’operazione intellettualmente disonesta come questa, pubblicata col placet di uno storico come Franzinelli, può essere utile come caso di studio, una volta trovata l’angolatura giusta da cui guardarla; e perché magari, prima di accettare la mela offerta, ci sarà chi ci penserà, o comunque l’addenterà con circospezione.

Per prima cosa, pertanto, è necessario tracciare il perimetro del discorso utile a porre sotto critica Il nazista e il ribelle; a seguire, alcune annotazioni più meditate e circonstanziate che riguardano il libro di Cominini e, per concludere, alcune brevi considerazioni sulla ricezione locale del libro.

Storia, memoria, memoria storica

Circa tre lustri fa, Sergio Luzzatto dava alle stampe un agile quanto battagliero volume: La crisi dell’antifascismo, in cui lo storico illuminava il gioco sporco sempre più presente nel discorso pubblico in Italia di confondere storia e memoria, con la seconda che viene surrettiziamente sostituita alla prima e che, nella prassi, si concretizza nel recupero della memoria di parte fascista (la parte «dei vinti»).

Di questa offensiva – funzionale a plasmare un nuovo consenso, definito «post-antifascista» da Luzzatto e da altri indicato come «anti-antifascista», teso nella retorica pubblica alla riconciliazione tra i nemici del passato – è facile individuare un alfiere in Giampaolo Pansa. Se esistesse un podio dell’anti-antifascismo, certamente Pansa salirebbe su uno dei gradini più alti, per il (de)merito di avere contribuito a legittimare nel mainstream leggende d’odio antipartigiane che erano rimaste confinate fino a vent’anni fa nelle cerchie neofasciste; e anche per avere dato forma a uno stile narrativo in cui episodi storici reali – sovente privi di contestualizzazione – si combinano con la fiction – utile a mettere all’opera la rappresentazione di un sentimento di commozione che coinvolga chi legge.

Tutto questo è ben esposto in un articolo firmato da Gino Candreva, dal titolo La storiografia à la carte di Giampaolo Pansa, in cui oltre a dar conto del metodo pansiano, tra le altre cose, si cita – a proposito di questa «storia romanzata» – un passaggio da un articolo di Nicola Gallerano che fa riferimento alla necessaria tendenza a un «approccio biografico; alla personalizzazione della vicenda storica e all’apertura indiscriminata verso il privato e lo psicologico» per agganciare emotivamente il pubblico.

Tornando alle tesi contenute nel libro di Luzzatto, va detto che queste oggi risultano in parte da adeguare per il sopravvenire dell’ampia possibilità di accesso alle informazioni offerta dalla centralità della digitalizzazione e dalla connettività globale. A tal proposito nella recentissima apologia della storia scritta da Adriano Prosperi, dal titolo Un tempo senza storia. La distruzione del passato, si trovano riflessioni importanti e utili anche per sintonizzare alla stretta contemporaneità il gioco sporco individuato da Luzzatto. Prosperi prende atto del profondo mutamento che ha investito la «memoria sociale», cioè quel processo di trasmissione di sapere e memorie tra generazioni, così come la perdita di centralità dei cosiddetti «corpi intermedi» (partiti, sindacati, ecc.) e dei contesti ambientali di sociabilità novecenteschi (la fabbrica, il laboratorio artigianale, ecc.) come luoghi e relazioni di scambio.

La «memoria sociale» scompare, così come l’abbiamo conosciuta, e cambia la sua stessa definizione:

«Oggi il termine più usato è quello di «memoria storica», qualcosa che fonde insieme l’informazione storica slegata, ideologizzata e in pillole anonime (“l’ho letto su Internet”) e brandelli di vissuto individuale. Spesso si tratta di una zuppa indigesta, cucinata da cuochi che non sono in genere disinteressati né innocenti e lavorano per conto di committenti che lo sono ancor meno.» (pp. 16-17)

Poco più avanti, Prosperi continua:

A questi fattori esterni di carattere politico e sociale bisogna aggiungere qualcosa che è accaduto nello statuto della conoscenza storica. Qui c’è stato l’ingresso inavvertito di un soggettivismo idealistico che ha fatto breccia nella durezza delle nozioni di fatto e di documento e ha portato a rendere sempre più evanescente il confine tra storia e romanzo. Non del tutto inavvertito, in realtà.» (p. 25)

Ora, se questi riferimenti sono per noi il perimetro del discorso entro cui sottoporre a una disamina critica il volume scritto da Andrea Cominini senza cedere alla mera stroncatura, possiamo dire in sintesi che Il nazista e il ribelle è il risultato di una miscela di storia, memoria e soggettivismo idealistico, che fa di questa narrazione un caso esemplare di «memoria storica».

L’Io ipertrofico

Come già accennato, l’autore apre e chiude la narrazione con il riferimento ai racconti narratigli dal proprio nonno. Il riferimento è un mero pretesto, dato che la figura del nonno non ha ruolo nelle vicende che si vogliono ricostruire e i suoi racconti sono più evocativi che descrittivi. Al lavoro tra le righe, oltre al tentativo di agganciare chi legge con i riferimenti paesani all’infanzia dell’autore e al «calore famigliare», c’è una concezione familistica, cosa che diviene funzionale nel momento in cui nel libro ci si dilunga sulla figura umana di Maraun e sul suo ruolo di marito e padre, come diremo meglio oltre, che viene resa con toni sentimentalistici. Allo stesso tempo fin dall’attacco della narrazione, questo elemento evidenzia l’ingombrante e ingiustificata voce autoriale che è sempre presente, spesso per sottolineare la faticosità della ricerca e l’ostinazione richiesta da quest’ultima.

I riferimenti autobiografici dell’autore non hanno mai una funzione esplicativa precisa per la ricerca. Soprattutto nel momento in cui la sua voce si sostituisce a quella della figlia di Maraun – di cui non è data possibilità di conoscere le confidenziali parole espresse nello scambio epistolare con l’autore – a chi legge risulta difficile cogliere quando l’autore esprime considerazioni derivanti da una propria riflessione, quando trae evidenze dalle ricerche d’archivio e dove invece riporta quanto riferitogli dalla figlia di Maraun.

La presenza della voce autoriale risulta per lo più invasiva ed egotica, inadeguata a una ricostruzione storica, infastidisce perché scopertamente cerca d’immergere chi legge nel punto di vista dei nazisti attraverso la spinta sul lato emotivo e la psicologizzazione del nazista protagonista.

Questa presenza costante e ingiustificata dell’Io autoriale pare aver a che fare più con un incontenibile presenzialismo di Andrea Cominini e fa riecheggiare le riflessioni di Giovanni Arduino e Loredana Lipperini in Morti di fama. Iperconnessi e sradicati tra le maglie del web (2013) sull’autopromozione di sé stessi, il «Me Logo», là dove «le persone si trasformano in brand di sé stessi».

Il nazista, i nazisti

Quella che viene presentata come ricostruzione storica deve molto, per quanto riguarda la vita di Werner Paul Maraun, alle indicazioni che l’autore ha ricevuto nella sua frequentazione di un forum online dedicato alla Wehrmacht, il nome che l’esercito della Germania acquisì nel 1935 e che portò fino al termine della seconda guerra mondiale. Le richieste e le interazioni dell’autore nel forum – il cui nickname Andrea81 e i riferimenti nei suoi commenti non lasciano dubbi sull’identità dell’utente – si possono visualizzare qui.

Nei commenti, scritti in lingua inglese (e conditi da svariate frasi come «It’s difficult for me German idiom», «My German is poor»), Cominini chiede suggerimenti e riceve indicazioni, utili anche a individuare e contattare la figlia di Maraun, con cui intratterrà uno scambio epistolare – sempre in lingua inglese – da cui trarrà l’immagine di Maraun che poi traslerà nella narrazione di Il nazista e il ribelle.

È un’immagine, appunto, plasmata sui ricordi di una figlia del padre morto quando lei era bambina, elaborata su elementi – racconti, fotografie, lettere – di una memoria famigliare, privata, raccontata in età avanzata in una lingua che non è la propria lingua madre.

Eppure, Cominini maneggia con noncuranza questo materiale, ripropone questa narrazione senza nessuna avvertenza diretta a chi legge, alterna questi riferimenti a quanto è riuscito a ricostruire sulla carriera militare di Maraun (perlopiù, pare di capire, con una ricerca in alcuni archivi militari sugli spostamenti delle truppe in cui Maraun è via via inquadrato), ad altre testimonianze che dice raccolte dopo aver individuato reduci dell’occupazione nazista in Valcamonica o parenti di quest’ultimi.

In I crimini di guerra tedeschi in Italia (1943-45), testo che si trova nella bibliografia di Il nazista e il ribelle, Carlo Gentile apre il suo volume con una lunga nota metodologica di critica delle fonti, avvertendo che «lo storico non può permettersi di considerare “oggettivi” neppure i rapporti militari, che pure a un primo esame possono apparire sobriamente fattuali» (p. 20). Dunque, che valore possono avere degli ego-documenti come il racconto di un’anziana spinta a rielaborare i propri ricordi d’infanzia sul padre e le memorie di parte, presentate acriticamente, degli occupanti?

E ancora, possibile che all’autore sia sfuggita la lettura di un documento facilmente reperibile com’è il caso del Rapporto della Commissione storica italo-tedesca (2012), in cui si legge che

«la guerra partigiana contro gli occupanti tedeschi venne dipinta [in Germania] come ingiustificata e subdola; qualsiasi mezzo utilizzato per combatterla fu considerato legittimo, e questo anche retrospettivamente. Era questa una variante del mito postbellico tedesco della ‘Wehrmacht pulita’, credibile proprio rispetto all’Italia, dove non era possibile metterlo in questione ricorrendo all’argomento del coinvolgimento della Wehrmacht nello sterminio degli ebrei d’Europa.» (p. 14)

È chiaro che di una riflessione critica sulle fonti Cominini non ha sentito il bisogno. Privo di senso, a questo punto, chiedersi come mai non una riga sia stata spesa, data la centralità del racconto di Hannah Maraun, su come avvenne il confronto con il passato nazista nella Germania del Dopoguerra, in particolar modo nella Repubblica Federale di Germania (Hannah Maraun risulta aver sempre vissuto nel distretto Zehlendorf, in quella che era Berlino Ovest), sulla Vergangenheitsbewältigung, il «superamento del passato». Un processo tutt’altro che lineare e privo di ombre se ancora negli anni Sessanta, come scrive qui Sergio Bologna, «a ovest c’era molta resistenza anche a riconoscere il ruolo dell’opposizione all’interno dell’esercito (von Stauffenberg, l’attentato a Hitler), all’interno dei circoli della nobiltà prussiana (Kreisauer Kreis, von Moltke) e della gioventù cattolica (la Rosa Bianca).»

Il binario su cui Cominini ha instradato il rapporto con Hannah Maraun è rappresentato come rettilineo e privo di ostacoli, tanto da far pensare che questo sia stato fortemente influenzato dalla voglia di farsi accettare come controparte affidabile, come tradisce anche una certa incontinenza verbale che mal si addice al ricercatore e che con altrettanta noncuranza viene riversata su chi legge.

Con faciloneria e financo con una nota truffaldina Cominini poi si approccia alla storiografia di riferimento. Basti un esempio, proprio riguardante il libro di Gentile poco sopra citato: raccontando della partecipazione di Maraun all’Operazione Barbarossa – l’invasione nazista dell’Unione Sovietica – Cominini tiene a sottolineare che quella fu per le truppe tedesche un’esperienza che determinò una radicalizzazione che si tradusse in un surplus di violenza e spietatezza nella lotta antipartigiana in Italia, una tesi che viene sostenuta in nota da una citazione di Carlo Gentile: «Questa tesi, legata soprattutto al nome di Lutz Klimkhammer e in tempi più recenti a quello di Peter Lieb, dimostrerebbe il fatto che la Osterfahrung, ossia l’esperienza del fronte orientale, fu uno dei fattori determinanti tra quelli che contribuirono a influenzare il comportamento dei soldati impegnati nella lotta antipartigiana e sortì un effetto radicalizzante sulle truppe impiegate sul fronte meridionale e occidentale».

E però Gentile, nello scritto a cui si fa riferimento, scrive «In questa sezione del lavoro viene messa alla prova la tesi, […]» per poi proseguire come riportato da Cominini. E non è per formalità che si ritiene disonesto il modo in cui viene richiamato il lavoro di Gentile, dato che alcune righe oltre lo storico continua scrivendo: «Secondo la mia ipotesi, non era affatto indispensabile essere un combattente imbarbarito dalla “Osterfahrung” o un nazionalsocialista convinto per macchiarsi del sangue di civili innocenti. Per converso, numerosi ufficiali e soldati della Wehrmacht, delle SS e della polizia reduci dall’Est non furono affatto coinvolti in crimini». Non proprio uguale. Ha voglia Mimmo Franzinelli a scrivere nella Prefazione che «non a caso, nella fase della ricerca Cominini ha avuto quali interlocutori Carlo Gentile e Lutz Klimkhammer, pionieri in questo settore» se l’interlocuzione ha portato a questi frutti avvelenati.

Se l’autore si fosse confrontato con metodo con la storiografia non avrebbe mai potuto arrivare a scrivere passaggi come questo:

«I tempi del giovane e gentile Werner, amante dell’arte e della musica, erano oramai lontani; qualcosa in lui era cambiato, più di quattro anni di guerra avevano profondamente e irreversibilmente rimodellato il suo animo. Pare che, sempre dai racconti della figlia, egli fosse ovviamente deluso dall’andamento della guerra e che, dopo l’esperienza in Russia, fosse particolarmente contrariato dai sabotaggi e dai combattimenti avuti nelle retrovia con i partigiani russi, considerati, dall’esercito tedesco, dei veri e propri terroristi, banditi senza scrupoli […].» (p. 117)

L’autore lascia trapelare, un po’ dappertutto, una fortissima fascinazione per il maresciallo Maraun, dal sapore tipicamente classista: una cifra che si nota confrontando le modalità e i diversi repertori linguistici con cui Cominini racconta le vicende che riguardano “il ribelle” Bortolo Bigatti. Il testo raggiunge livelli parodistici dove l’autore cita la spedizione alla famiglia, da parte di Maraun, di una poltroncina d’epoca trafugata dal Museo del Louvre; a giustificazione del gesto, una lunga nota recita:

«I nazisti non furono semplici “predoni”, non si limitarono a depredare musei e palazzi per accaparrarsi opere d’arte e ricchezze. In molte occasioni è stato rivelato che essi, soprattutto gli ufficiali di alto rango, fossero dei veri e propri intenditori d’arte, colti, amanti della musica, della pittura e dell’arte in ogni sua espressione. Caso emblematico è quello del feldmaresciallo Hermann Göring (Rosenheim, 12 gennaio 1893 – Norimberga, 15 ottobre 1946), il quale fece razziare moltissime opere d’arte presenti nei territori occupati dai tedeschi […]. Anche Maraun, quindi, rappresenta perfettamente la figura del colto nazista amante dell’arte.» (p. 90)

Questa concezione classista della cultura, che lavora sottotraccia nel libro di Cominini, non coglie che la cultura che si fa violenza, esaltata e organizzata, fino ai mezzi estremi dei campi di sterminio, è uno dei tratti caratteristici del totalitarismo nazista: vi si arrivò rifondando la legge e la morale, rendendo lecito e addirittura un diritto sopraffare e uccidere. Cosa vorrà mai suggerire, dunque, l’immagine del «colto nazista amante dell’arte»? Come se, nei campi di concentramento, la musica classica dei grandi compositori tedeschi avesse potuto alleviare gli ultimi metri che separavano internate e internati dalle docce…

Un indizio di questo processo sarebbe stato rintracciabile anche nella ricostruzione del «romanzo di formazione» di Maraun nel farsi del totalitarismo nazista, per esempio lì dove si riporta che «nell’aprile 1929, mentre [Maraun] ancora frequentava la scuola, iniziò a lavorare presso la casa editrice Julius Springer Verlag» (p. 42) e che nel «1934 aveva già una buona posizione all’interno dell’organico» (p. 46), ma non trova spazio un minimo accenno all’arianizzazione delle imprese tedesche. Eppure l’arianizzazione coinvolse nel 1933 anche la casa editrice Julius Springer Verlag («not issues of religion but of race»), stesso anno in cui risulta – dalle stesse parole di Maraun, citate da Cominini, in cui lui si descriveva come «ritenuto un nazista convinto» dal 1931 – che Maraun è incorporato nelle SA (le prime formazioni paramilitari del Partito nazista, NSDAP) e diviene membro della NSBO (Nationalsozialistische Betriebszellenorganisation), un’organizzazione pseudo-sindacale con cellule nelle aziende tedesche che agiva con metodi violenti e aggressivi.
Raccontare come un destino scritto e ineludibile l’adesione convinta di Maraun all’ideologia nazista, al principio d’azione nazista di sterminio, prevaricazione e dominio mondiale, è un escamotage che non regge.

Sarà anche dovuto, lo si riporta qui en passant, a come con la medesima superficialità Cominini dà conto della necessaria inquadratura di contesto generale in cui si collocano le vicende specifiche che ricostruisce: le pagine dedicate alla nascita della Germania nazista sono penose e dilettantesche, zeppe di luoghi comuni e sbattute lì in una maniera che fa stridere i denti.

Non regge nemmeno il tentativo di mettere in dubbio la posizione e le responsabilità nella guerra antipartigiana in cui Maraun svolse un ruolo centrale in Valcamonica, il suo (di Maraun) essere o meno stato inquadrato nelle Schutzstaffel (SS): la conoscenza delle lingue straniere, tra cui l’italiano, non fanno di Maraun un erudito, ma più banalmente un elemento utile a un agente dell’intelligence di una forza d’occupazione, che interagendo con la popolazione locale mirava a eradicare ogni forma di resistenza – armata e non – al nazifascismo.

Tutto l’inchiostro speso per investigare se Maraun fosse o no inquadrato nelle SS è un argomento iper-capzioso. Poco conta che spesso si trovi indicato come SS nella memorialistica partigiana e in alcuni scritti sulla resistenza in Valcamonica (e, cosa che Cominini si scorda di riportare o di cui non è a conoscenza, in almeno un caso anche da parte dei repubblichini, come si può leggere nel Notiziario della Guardia Nazionale Repubblicana del 26/02/1945, consultabile, con una ricerca, qui).


Eppure a quest’ultimo aspetto Cominini arriva a dedicare alcune pagine per raccontare di come ha deciso nella primavera del 2013 di contattare Erich Priebke, che dopo essersi fatto conoscere a Roma operò a Brescia, per chiedere se «il famoso capitano delle SS» avesse ricordo di Maraun: se Erich Priebke – questo è il ragionamento di Cominini – non ricorda di aver conosciuto Maraun, necessariamente ciò sta a significare che Maraun non era una SS.

Per arrivare a Priebke Cominini contatta il suo avvocato, Paolo Giachini (questo Paolo Giachini): «L’avvocato mi rispose che Priebke era solito rispondere solo alle lettere inviate da cittadini tedeschi e non avrebbe mai risposto a un italiano, così spedii la mia lettera a Hannah Maraun, figlia di Werner, che a sua voltà la inviò a Roma a Priebke. All’interno della busta che io inviai, inserii, oltre alle varie domande, tutta la documentazione in mio possesso, comprese alcune sue fotografie» (p. 380).

La risposta di Priebke arriva il 1° maggio 2013, Cominini riporta nel libro le sue sensazioni a caldo dopo la lettura del breve messaggio:

«rimasi innanzitutto colpito da come un uomo così anziano potesse avere ancora la forza di rispondere a tutti coloro che gli scrivevano. Fui contento di questa risposta».

[«Tutti» sì, ma tedeschi e come è facile immaginare, camerati.]

Il messaggio di Priebke, riportato per intero nel libro, è vago nei riferimenti sulla sua permanenza a Brescia e può essere riassunto nella frase di commiato del criminale nazista: «Non ricordo altri dettagli ora (avrò cento anni alla fine di luglio).»

Nonostante l’inconsistenza della risposta, nonostante la domanda a cui si cerca di dare risposta sia fuorviante, Cominini riesce a dedicare due pagine di pseudo-interpretazioni per darsi ragione e, soprattutto, per soddisfare la sua volontà di squalificare in toto la memorialistica antifascista che ricorda Maraun – SS o meno che fosse – come un feroce e sanguinario nazista.

Questo appena riportato è un episodio eclatante, ma Cominini procede dalla prima all’ultima pagina di questa tendenziosa ricostruzione eludendo due domande fondamentali – che siano le lettere di Hannah o quella di Priebke – da porsi al cospetto di qualsivoglia fonte. Sono le domande che danno il titolo alla guida didattica redatta dal gruppo di lavoro sui falsi storici Nicoletta Bourbaki, ispirata alle lezioni di Marc Bloch e al suo Apologia della storia: Questo chi lo dice? E perché?

Andrea Cominini pare risolvere la delicata questione dicendo: «Lo riporto io, fidatevi». La risposta che merita, parafrasando il Bartleby di Melville, è «We would prefer not to». Ma soprattutto, questa richiesta implicita di adesione al punto di vista di Cominini rivolta surretiziamente a chi legge, dovrebbe essere oramai evidente, maschera l’enorme problema, quello che inficia tutto il suo lavoro: il frame – la cornice cognitiva – all’interno della quale l’autore, consapevole o meno, sguazza, senza vedere il tono bruno della stessa acqua in cui è immerso e in cui cerca di immergere chi legge Il nazista e il ribelle.

Il ribelle, i/le ribelli

Non è necessario dilungarsi molto qui sulla figura del «ribelle». Bortolo Bigatti detto Móha, nella sua breve vita interrotta da un colpo di arma da fuoco nazista, fece ripetutamente la scelta giusta: disertò e scampò dall’essere arruolato nell’esercito repubblichino; una volta raggiunto nuovamente il suo paese, si unì ai primi nuclei di partigiani; si spese con coraggio in azioni di guerriglia contro l’occupante tedesco e gli aguzzini dello stato fantoccio della Repubblica sociale italiana; fino all’ultimo minuto, non tradì i suoi compagni e le sue compagne.

La scelta giusta.

Davide Conti, in un articolo dal titolo Il populismo storico contro i valori fondativi dell’antifascismo, scrive, inappuntabile:

«La Resistenza rappresentò, insegna Claudio Pavone, tre tipi di conflitto connessi, complessi e in ultima istanza unificanti: guerra di liberazione nazionale dall’occupante tedesco e fascista; guerra civile che oppose europei fascisti ad europei antifascisti; guerra di classe che pose all’ordine del giorno la partecipazione diretta e le istanze di emancipazione delle masse popolari e del lavoro nella vita pubblica e nella rifondazione degli Stati democratici. Da questo insieme di fattori emerse la risposta sistemica, sostanziata dalla “Scelta” dall’impegno diretto delle giovani generazioni, alla crisi europea terminata nel 1945.»

In Il nazista e il ribelle le pagine dedicate a Móha, oltre ad apparire spese, come già detto, per far risaltare la figura del nazista Maraun – nobile d’animo e imbarbarito dalla guerra –, rappresentano il giovane partigiano – «ribelle tra i ribelli» – come ‘n bòrtol indisciplinato, irresponsabile, nelle numerose insinuazioni di Cominini, anche nei confronti dei suoi compagni e delle sue compagne di lotta. Il giovane proletario evidentemente non entra nelle simpatie di Cominini, che ne scrive come un Enrico Bottini – «di carattere impreciso, incostante nei suoi propositi etici, schiavo di ambigui culti della personalità» – scrivesse di un Franti – e, beninteso, «è naturale che in questo crescendo di accuse e di infamie la nostra simpatia vada tutta a Franti», direbbe Umberto Eco.

Ma non si tratta solamente di questo: sono i e le resistenti tutti/e – in Francia, in Unione Sovietica, in Italia – che quando compaiono nelle pagine di questo libro pare di immaginarseli con un cartello al collo su cui compare la scritta «Achtung banditen», proprio come voleva la rappresentazione della propaganda nazifascista. Come il partigiano Móha, i movimenti resistenziali sono privati di profondità e complessità.

Il dolo di Il nazista e il ribelle sta in bella mostra sulla copertina del libro: quella congiunzione «e», che accosta ciò che eticamente non potrebbe essere accostabile: un nazista attivo nella repressione dei movimenti popolari di resistenza armata al nazifascismo, un giovane proletario partigiano che fece la scelta giusta, la cosa giusta.

Joyce Lussu, nelle conversazioni raccolte da Silvia Ballestra in Joyce Lussu. Una vita contro (1996), spiega nei migliori dei modi possibili l’incommensurabilità di un tale accostamento:

Joyce Lussu

Joyce Lussu

«La guerra non può risolvere un problema, ma ciò non significa che non si debbano fare delle distinzioni in proposito: ogni istituzione militare significa essenzialmente stato, e un movimento di liberazione che si metta in armi per la difesa popolare non fa parte dello stesso orizzonte, non lo puoi includere nella stessa nozione di guerra, poiché agisce per legittima difesa, così come farebbe chiunque venga aggredito.»

Che Maraun sia stato parte in causa nella morte di Móha è cosa certa, non improbabile che ne sia stato l’esecutore materiale, forse con quella “e” si vorrebbe attribuire al ribelle Bortolo Bigatti la responsabilità morale della morte di Maraun?

Il male della banalità smascherato da una proposta

Della Prefazione di Franzinelli già si è detto, incomprensibilmente elogiativa. Ma non è stato il solo, Franzinelli, ad aver accolto positivamente, quasi con giubilo, la pubblicazione di questo libro in Valcamonica. A sponsorizzare e tingere di uno sbiadito color rosso il frutto avvelenato è stato il Circolo culturale “Guglielmo Ghislandi” (per inciso, Guglielmo Ghislandi fu il primo sindaco, socialista, della Brescia liberata): l’endorsement ad Andrea Cominini e al suo Il nazista e il ribelle probabilmente potrà aver tratto in inganno più di qualcuno – anche se meno dell’indicazione in copertina «Prefazione di Mimmo Franzinelli» –, almeno fino al momento di una lettura attenta e onesta del libro.

Se di abbaglio o di salda convinzione si tratti, questa apparente larga accoglienza positiva (salvo la voce critica di Alberto Panighetti che ha tentato invano di incalzare con le sue critiche l’inscalfibile – nelle proprie certezze – autore) si vedrà quel giorno che dalla penna si dovesse passare allo scalpello.

Sì, perché non da oggi ma almeno dal 2015, Cominini è latore di una proposta che vuole accostare non solo sulla carta Bortolo Bigatti e Werner Maraun, ma anche sulla pietra marmorea della targa a ricordo dell’assassinio di Bigatti: «una piccola modifica alla lapide» – come si legge sul foglio Il mio paese del giugno 2015 –, «aggiungere la dicitura: “Il 28 aprile 1945, nello stesso luogo, venne giustiziato il presunto assassino di Bortolo Bigatti, il Maresciallo Werner Paul Maraun, nato a Berlino il 23 maggio 1914”, potrebbe rivelarsi un vero e proprio esempio di maturazione e di responsabilità storica.»

È impossibile tenere separato Il nazista e il ribelle da questa proposta, viaggiano evidentemente sovrapponendosi e, di più, quest’ultima grida «Il re è nudo!» a un volume che dovrebbe essere udibile anche a chi non vuol sentire.

Non c’è «maturazione» (?) che tenga, né «responsabilità storica» (?) che dia senso all’idea di riportare su una lapide a ricordo di un partigiano antifascista vittima della violenza nazifascista, il nome di un nazista che ebbe grandi responsabilità – questo è fuor di dubbio, e il «presunto assassino» della proposta suona come un’assoluzione, ma la lapide non sta esposta in una chiesa… – nella repressione delle bande partigiane in Valcamonica e, nello specifico, un ruolo attivo nell’assassinio di Bortolo Bigatti.

Certo non possono in alcun modo, riabilitando la figura di Maraun, contribuire a «destrutturare versioni di comodo, frutto di semplificazioni manichee che, nelle rivisitazioni del dopoguerra, trasformarono ogni partigiano in un cavaliere dell’ideale e ogni tedesco nell’incarnazione del male» come scrive Franzinelli nella Prefazione riferendosi al lavoro di Cominini, anche perché questa rappresentazione è stata tutt’altro che egemonica, anche nel fronte antifascista.

Peraltro, se Cominini e Franzinelli pensano che la figura di Bigatti e la targa in sua memoria fissino l’immagine di un «cavaliere dell’ideale», dovrebbero rivolgere la loro critica alle forze politiche del cosiddetto arco costituzionale che nel dopoguerra, largamente, operarono per istituzionalizzare e sterilizzare il movimento resistenziale, una riduzione della complessità che fu subita dai partigiani e dalle partigiane.

Il libro e la proposta di modificare la targa nella piazza di Esine – per concludere – discendono da una lettura moralistica dei fatti. Ciò che non rientra nell’orizzonte di questa narrazione è il piano etico della giustizia – materiale prima che formale –, del riscatto dei subalterni e delle subalterne dopo l’aver subito infamie e miserie e prepotenze e lutti.

Bortolo Bigatti detto Móha perse la vita mentre lottava per questo riscatto.

L’uccisione del nazista Werner Maraun, «fu atto di giustizia e così doveva accadere» (Tani Bonettini, “La neve cade sui monti”, dal diario di un ribelle, 1989).

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Nota di Wu Ming: il commento lasciato da WM2 vale a tutti gli effetti come nostra postilla.

* Nicoletta Bourbaki è un gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico in rete, sulle false notizie a tema storico e sulla riabilitazione dei fascismi in tutte le sue varianti e manifestazioni. Il gruppo si è formato nel 2012 in seguito a una discussione su questo stesso blog e ha al suo attivo molte inchieste e diverse pubblicazioni. Lo pseudonimo collettivo «Nicoletta Bourbaki» è un détournement transfemminista di «Nicolas Bourbaki», maschilissimo gruppo di matematici francesi attivo dagli anni Trenta agli anni Ottanta del XX secolo.

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