I lavoratori statunitensi al mercato elettorale di Trump

Parliamo del rapporto tra il mondo del lavoro statunitense e le elezioni presidenziali di novembre.

Prendiamo spunto da una foto: giovani lavoratori di un fast food Bruegger’s Bagels dello Iowa sorreggono, lungo la strada di fronte al proprio posto di lavoro, dei cartelli contro la repressione del loro impegno sindacale, chiedendo alle auto di passaggio un colpo di clacson di sostegno (Honk if you hate Union busting). Organizzati col sindacato indipendente Bruegger’s Workers United, chiedono una retribuzione che consenta di vivere degnamente, uguale per tutti loro, e un orario minore. Ma dall’Union busting (le iniziative padronali che contrastano la sindacalizzazione) le ragazze e i ragazzi immortalati nella foto sono stati sconfitti: l’azienda, prima ha chiuso uno dei due negozi che avevano chiesto l’elezione per il sindacato, poi ha “convinto” i dipendenti dell’altra sede a respingere (per 9 a 2) la presenza sindacale. Com’è noto, negli USA si deve raggiungere il 50% di SÌ nel singolo negozio/stabilimento in cui si chiede l’ingresso del sindacato, onde poi cercare di stipulare un contratto collettivo.

Cosa c’entra questo “negozietto” di uno degli Stati del profondo centro degli Stati Uniti con le elezioni presidenziali che si terranno a novembre negli USA?

Il sistema elettorale rigidamente uninominale comporta che ci siano degli Stati decisivi, in bilico tra i due grandi Partiti che si disputano le cariche elettive a tutti i livelli. In questo caso la presidenza degli USA. Alcuni di questi Stati, del nord-est del Paese, hanno una lunga storia industriale, fortemente ridimensionata dalla dismissione delle fabbriche, soprattutto quelle dell’auto e del suo indotto. Intere comunità che vivevano a ridosso, e del salario, di quelle fabbriche sono precipitate nella povertà. Il caso di Detroit, ex capitale mondiale dell’automobile, è sintomatico.

Il candidato Trump, nelle precedenti elezioni aveva indossato il casco alla ricerca dei voti dei minatori della povera regione degli Appalachi, funestata dalle chiusure e dai mutamenti produttivi di un settore falcidiato dall’abbandono del carbone e dagli scavi in superficie che, invece di uccidere nei crolli e con le malattie polmonari i minatori, radono al suolo vastissime aree verdi con mostruosi macchinari guidati da una sola persona. Non importa che poi i deputati del Partito Repubblicano abbiano votato contro le nuove normative sanitarie salvavita per i minatori e a favore del taglio del numero degli ispettori che vigilano su di esse.

Ora per Trump si tratta di indossare la tuta blu: durante il rinnovo dei contratti delle tre grandi aziende auto statunitensi, ha comiziato a Detroit, sullo sfondo di pezzi di ricambio collocati ad hoc, in una fabbrica, ovviamente non sindacalizzata, di proprietà di un suo finanziatore.

La chiusura degli impianti auto del nord-est industriale, il trasferimento di alcuni di essi nelle maquilladoras messicane (dove gli operai ricevono salari da fame), l’atterraggio nel Sud degli USA di fabbriche auto asiatiche, peraltro abbondantemente incentivate dai governatori repubblicani, e soprattutto la transizione ai veicoli elettrici, tutto questo, secondo Trump, sarebbe colpa del Partito Democratico. È vero che lo spostamento oltre frontiera meridionale degli USA di molte fabbriche, in direzione opposta delle migliaia di migranti che cercano di oltrepassarla verso nord, è cominciato grazie al trattato di libero scambio NAFTA varato dalla presidenza Clinton. Un trattato contestato dai sindacati che fece perdere agli USA 800.000 posti di lavoro. Ma il resto delle trasformazioni produttive dell’auto, si è svolto anche durante la presidenza Trump ed è un portato della globalizzazione, che ricerca braccia a buon mercato dovunque esse si trovino, creando ulteriori immense ricchezze di pochi.

La sproporzione di ricchezza, quella che i progressisti come Bernie Sanders definiscono “corporate greed” (l’avidità delle multinazionali), mai così alta come oggi negli Stati Uniti, è frutto anche dalle politiche fiscali del Partito Repubblicano, basate sullo “sgocciolamento” (se dai tanti soldi a un ricco, qualche briciola cadrà anche nella mano del povero sotto di lui). Dunque Trump, se vuol difendere il popolo, dovrebbe contestare i miliardari che lo finanziano, a cui ha dato in cambio nel 2017 quelli che lui stesso definisce “i più grandi tagli fiscali di sempre”, una ricchezza di due trilioni di dollari trasferita agli alti redditi durante il suo mandato presidenziale.

Le politiche sociali della presidenza Biden, che finisce tristemente in queste ore, sul terreno economico hanno avuto particolare attenzione al movimento sindacale (appoggio alle richieste dei contratti auto, schieramento dell’agenzia federale NLRB a sostegno della sindacalizzazione, investimenti nelle infrastrutture con relativi posti di lavoro) ma non sono riuscite a migliorare, col PRO Act impantanato al Congresso, la possibilità di sindacalizzarsi senza ritorsioni aziendali; e con l’ennesimo rinvio di una riforma sanitaria, l’assurda situazione di un Paese dove 50 milioni di persone sono senza copertura sanitaria o sono gravemente sotto-assicurate.

Per molti statunitensi così la principale eredità delle politiche del governo Biden è l’alta inflazione: un’indagine del Census Bureau degli USA ratifica che il 67% dei lavoratori intervistati afferma di aver difficoltà a pagare le normali spese domestiche a causa dell’aumento, dal 2020, del 27% dei prezzi dei generi alimentari.

A proposito di lavoratori, un nuovo inizio del movimento è collocabile nell’anno 2021, a causa della pandemia Covid e del contemporaneo “Grande abbandono del lavoro” (The Great Resignation), che in quell’anno aveva coinvolto ben 47 milioni di persone, soprattutto nei settori della distribuzione, della sanità e dell’istruzione. Un esodo di massa, una sorta di sciopero generale, termine del tutto atipico negli USA, che ha dato più forza a chi era costretto a rimanere sul posto di lavoro a fare “lavori essenziali”, fino ad allora, e anche in seguito, mal pagati e ad alti carichi. Nell’ottobre 2021, il cosiddetto Striketober, coi suoi suoi contemporanei 100.000 scioperanti o pronti a scioperare, ha iniziato un ciclo di lotte e di vertenze che continua ancor oggi, riportando il Lavoro organizzato al centro del Paese. E questo malgrado le iscrizioni al Sindacato siano ai livelli più bassi della storia: solo un lavoratore su 10 è tesserato (il 6% nel settore privato, il 33% in quello pubblico).

 Questa recrudescenza del conflitto sociale ha procurato anche contratti che hanno cercato di affrontare le perdite salariali e normative degli anni precedenti. Organizzati spesso da nuove dirigenze sindacali, appoggiate da caucus (componenti) sindacali progressiste, quali quelle dei sindacati dell’auto e dei camionisti. Il sindacato auto UAW, con la nuova presidenza di Shawn Fain, ha realizzato i contratti delle tre imprese auto statunitensi portando a casa, dopo anni di magre, alcuni risultati (sebbene contestati, soprattutto nelle grandi fabbriche di General Motors). I Teamsters, con la Presidenza di Sean O’Brien, hanno firmato il contratto di United Parcel Service (UPS), il più grande del settore privato.

Ma le aziende hanno ripreso subito appieno il loro potere, scaricando sui ritmi di lavoro e sull’occupazione i costi dei contratti firmati; con l’automazione e l’appaltizzazione del servizio in UPS e con le centinaia di licenziamenti temporanei e col ridimensionamento di impegni occupazionali nelle nuove produzioni elettriche, le “Big 3” hanno riportato indietro le acquisizioni dei lavoratori.

E’ in questo contesto che la recente Convention nazionale del Partito Repubblicano ha lanciato un’OPA (un’offerta pubblica di acquisto, per utilizzare un termine confacente a uno speculatore come Trump) sul mondo del Lavoro, prefigurando un ritorno (?) “alle sue radici come Partito dell’Industria, del Manifatturiero, delle Infrastrutture e dei Lavoratori”, con la promessa di riportare posti di lavoro nel settore manifatturiero. Una ripetizione dell’impegno (fallito) del 2016 di “comprare americano, assumere americano”.

Significativa della “svolta lavorista”, la nomina a vice di Trump di James Vance. Proveniente da una regione profondamente colpita della deindustrializzazione, su cui ha scritto il libro “Hillbilly Elegy”, speculatore finanziario all’ombra del capitalista di estrema destra Peter Thiel, questi è passato dal definire Trump un nuovo Hitler a superarlo a destra sui temi dell’aborto, della famiglia, dell’immigrazione. L’avrà scritta lui la dedica della convention repubblicana “agli uomini e alle donne dimenticati d’America”. Tra cui i lavoratori della “cintura della ruggine” delle fabbriche dismesse.

Nella logica di essere “un dittatore fin dal primo giorno”, come lui stesso s’era definito, Trump ha un menu già pronto, scritto dai suoi consulenti col programma, di ben 887 pagine, The Conservative Promise, meglio conosciuto come “Project 2025”. Una summa di ridimensionamenti o cancellazioni di tutte le istanze federali che possono ostacolare il suo ruolo autoritario.

L’appello finale di Trump alla Convention nazionale repubblicana del 18 luglio è stato amplificato dal fervore religioso di una parte consistente dei suoi sostenitori, che sono convinti che si sia salvato dall’attentato per la protezione divina. Questo sentimento è presente nel Project 2025, che cita “la tradizione giudeo-cristiana (che) ha sempre riconosciuto il lavoro fecondo come parte integrante della dignità umana, come servizio a Dio, al prossimo e alla famiglia.”

La dignità umana, si potrebbe considerare, escluderà per Trump una parte dell’umanità: lui ha preannunciato “la più grande deportazione di massa di migranti non autorizzati che il Paese abbia mai visto” e il trasferimento di materie controverse ai singoli Stati, dando loro preventiva mano libera. Stati in cui, come quelli del Sud, vigono e si producono ancora norme che ostacolano i diritti (di voto, di assistenza, della casa, ecc.) dei neri.

Ma nemmeno nel mondo del lavoro tutti saranno beneficiari di queste promesse futuribili: l’interesse odierno di Trump è sulle famiglie degli operai degli Stati cruciali per il loro voto in bilico, ma non per i milioni di addetti dei fast food, della grande distribuzione, della logistica, i cui tentativi di sindacalizzazione sono visti dai trumpisti come un pericolo sovversivo: il governatore repubblicano della Carolina del Sud, si è impegnato a combattere il sindacato “fino alle porte dell’inferno”, cinque governatori di Stati del Sud hanno firmato una dichiarazione congiunta contro i tentativi di sindacalizzazione di UAW in corso nel Sud che “minacciano i nostri posti di lavoro e i nostri valori”.

Non parliamo poi dei dipendenti pubblici, che hanno per Trump una duplice colpa: quella di essere assai sindacalizzati e di occuparsi di settori (sanità, assistenza, case popolari, …) che per il magnate devono essere appannaggio del privato. Per fare spazio a quest’ultimo, si prevedono massicci licenziamenti di impiegati federali e statali.

Tornando ai grandi Sindacati, ritenendo forse di non poter ottenere ottenere risultati da quella che sembra sarà la nuova amministrazione, o pensando di essere troppo deboli per respingere le politiche contro i lavoratori, stanno ritornando ad uno stretto rapporto coi due maggiori Partiti. Proprio i due “riformatori” hanno imboccato strade divergenti: Fain di UAW è entrato nell’entourage di Biden, appoggiandone la ricandidatura, oggi caduta, cosi come la grande federazione AFL-CIO, e turandosi il naso rispetto al sostegno diplomatico e in armi dato da Biden al governo israeliano, responsabile del genocidio di Gaza. O’Brien dei Teamsters, forte dei “suoi” 1,3 milioni di iscritti che sempre cita, è invece salito sul palco della convenzione repubblicana come “rappresentante dei lavoratori”, per occupare la nicchia che il Partito metterà a disposizione di quei lavoratori che rinunciano ad avere voce e poteri collettivi. Incurante dei programmi repubblicani che intendono ridimensionare le agenzie federali (tra di esse il NLRB, vituperato da padroni come quello di Starbucks e denunciato da Musk di Tesla per aver osato contestare la minaccia di non assegnare stock option ai dipendenti che si fossero sindacalizzati) e i diritti sociali che esse devono monitorare. Altri aspetti del programma dei repubblicani nel merito del lavoro sono l’eliminazione del salario minimo, dei limiti degli straordinari, dei controlli sugli imprenditori fintamente indipendenti dipendenti da grandi imprese, delle possibilità di costituire un sindacato voluto dai lavoratori senza passare attraverso norme farraginose, dando invece maggiori possibilità di costituire sindacati filo-padronali.

 Nelson Lichtenstein, storico del lavoro presso l’Università della California, sostiene che il progetto di inglobare una fascia di lavoratori in un “nuovo” partito a forte valenza religiosa, individualistica, contro i migranti, i diritti individuali e sociali, non possa avere successo, perché la classe lavoratrice statunitense oggi è sempre più multiculturale”. E, aggiungiamo noi, in molti posti di lavoro, è riuscita con difficoltà a ricostruire un proprio potere e un orgoglio di appartenenza con sindacalizzazioni, scioperi e rinnovi contrattuali.

Sarà il seme gettato da queste lotte sindacali e sociali a sconfiggere sul terreno dell’iniziativa sociale il progetto trumpista di una società che non è azzardato definire fascista?

Se volessimo essere ottimisti, le lotte sociali non avranno creato una diffusa coscienza di classe ma quella che sta crescendo negli Stati Uniti è la consapevolezza in molti lavoratori di chi siano gli avversari, perché le lotte collettive comunque cambiano le persone e le fanno crescere.

Torniamo infine al sindacato del fast food dello Iowa: guardando bene la loro foto si nota che una delle ragazze mostra un cartello dipinto a mano. Su cui c’è scritto: “non abbiamo da perdere che le nostre catene”.

Condividi questo contenuto...

Lascia un commento