di Fabio Ciabatti
Massimiliano Tomba, Insurgent Universality: An Alternative Legacy of Modernity, Oxford University Press, New York, 2019, p. 304, € 24,21
Anche di fronte a una delle sue peggiori débâcle, la precipitosa fuga dall’Afghanistan degli Stati Uniti, l’Occidente non ha rinunciato a propagandare l’idea della sua superiorità. A tal fine i media mainstream di mezzo mondo hanno aperto all’unisono i rubinetti delle lacrime, mostrando improvvisa e soverchiante preoccupazione per la sorte dei poveri afghani e, soprattutto, delle indifese afghane vittime della barbarie fondamentalista, surrettiziamente presentata come unica reale alternativa al dominio occidentale. Peccato che, in quelle terre, la malapianta del fondamentalismo, ben lungi dall’essere il frutto autoctono di un preteso sottosviluppo, fu coltivata proprio dagli Stati Uniti, con l’aiuto dei loro alleati sauditi e pakistani, per infestare il cortile di casa del fu impero sovietico. La realtà dei fatti, però, deve essere rimossa dall’ideologia dominante che deve trasformare una prova contraria in una sorta di prova per assurdo per confermare l’idea di una “storia universale” destinata a viaggiare in un’unica direzione possibile, la modernità capitalistica. Come dimostra il caso afghano, infatti, l’unica alternativa possibile a questo percorso è un’assurda catastrofe.
L’idea di una storia universale, come ci spiega Massimiliano Tomba nel suo libro Insurgent universality. An alternative legacy of modernity (testo che ha avuto una nuova pubblicazione nel 2021 in formato paperback), ha una connotazione eminentemente eurocentrica dal momento che finisce per svalutare ogni possibile traiettoria storica qualitativamente differente da quella percorsa dalla modernità occidentale. Ogni forma sociale non statuale o non capitalistica diventa semplicemente pre-statuale e pre-capitalistica, destinata perciò a scomparire in quanto forma arretrata rispetto alla modernità occidentale.
Non sorprende dunque l’esigenza di Provincializzare l’Europa, come recita il titolo di un celebre libro di Dipesh Chakrabarty, per consentire ai paesi del Sud globale di sperimentare forme autonome di sviluppo. Senonché questa linea di pensiero, sostiene Tomba, ha finito per essenzializzare l’Occidente, ignorando, al pari dell’ideologia dominante, che nel suo ambito si sono espresse ripetutamente traiettorie storiche alternative per quanto fugaci e violentemente represse. Riportare al centro dell’attenzione queste possibili biforcazioni del tempo storico è il compito che si pone l’autore prendendo in considerazione quattro frangenti storici: la rivoluzione francese del 1789, la comune di Parigi del 1871, la rivoluzione russa del 1917 e l’insurrezione zapatista del 1994 in Messico.
Concentriamoci per ora sulla storia europea. I tre episodi rivoluzionari mostrano alcuni elementi comuni. In opposizione alla centralizzazione statuale del potere che caratterizza la traiettoria storica dominante, i sanculotti, i comunardi parigini e i rivoluzionari russi hanno sostenuto e praticato una concezione dell’organizzazione sociale che prevedeva una incomprimibile pluralità di poteri: club, sezioni cittadine, soviet ecc. Una simile pratica portava con sé l’impossibilità di comprimere il conflitto mantenendo sempre aperta la possibilità di imprevisti sviluppi.
L’universalità insorgente è costituita da soggettività collettive che praticano direttamente i propri diritti e le proprie libertà sperimentando nuove forme di organizzazione sociale e politica. Lo stato moderno, invece, si afferma come potere centralizzato perché prevede un’assenza di organizzazioni intermedie. Esso dunque governa su una massa di individui atomizzati, trattati sempre come potenziali vittime che, per esercitare diritti e libertà, devono essere tutelate e limitate dal potere statale.
L’universalità insorgente non circoscrive a priori il suo raggio d’azione perché ha una natura intrinsecamente espansiva: si pensi alla repubblica universale presagita durante la rivoluzione francese e ripresa dalla Comune, o alla “Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato” del 1918 che non fa appello a un’identità nazionale o etnica predeterminata, ma a un soggetto che vuole abolire ciò che definisce la sua stessa identità, il rapporto sociale di sfruttamento. Il potere moderno, invece, per definirsi deve chiamare in causa un’alterità per poi escluderla. La cittadinanza moderna lascia fuori per necessità chi non appartiene alla nazione.
Durante i tre episodi rivoluzionari vengono messi in discussione i rapporti di proprietà capitalistici anche quando, come nel caso dei due eventi francesi, non si abbraccia direttamente la pratica dell’espropriazione dei più ricchi. Nelle società moderne la proprietà privata non è soggetta, come in passato, a un insieme articolato di limiti e obblighi, ma diventa diritto assoluto ed esclusivo di disporre dei propri beni. Nel corso degli avvenimenti rivoluzionari viene invece posto il problema di quanto la proprietà privata sia compatibile con la democrazia. Ne consegue la necessità di riorganizzare la fabbrica sociale nel campo della produzione e della riproduzione attraverso la riproposizione aggiornata di concetti come quelli di dominium utile o di possesso/utilizzo come distinto dalla proprietà. Emerge, in sintesi, un concetto di socializzazione dei mezzi di produzione che è cosa diversa da quello di statalizzazione perché si incentra sulla restituzione del controllo dei mezzi di produzione, in primo luogo la terra, nelle mani delle collettività organizzate.
Un ulteriore aspetto, centrale nell’argomentazione di Tomba, è quello dei diversi strati temporali che si intrecciano nel corso degli eventi rivoluzionari. Le comunità insorgenti fanno frequentemente ricorso ad arcaismi, cioè tradizioni, memorie e istituti del passato, come guida per il presente. Per esempio l’istituzione medievale del mandato imperativo riemerge nelle esperienze dei sanculotti, dei comunardi e dei Soviet. Tomba precisa che “non si tratta di mettere in contrasto la tradizionale temporalità delle forme comunitarie con quella dello stato nazione e del modo di produzione capitalistico. Questa opposizione rimane astratta o romantica”.1 La tensione generata dall’attrito tra differenti strati temporali genera infatti nuove e inedite configurazioni di un preesistente materiale giuridico, politico ed economico. Il passato presenta se stesso come un arsenale di possibili futuri che possono riemergere perché i soggetti insorgenti rendono attuale ciò che sarebbe potuto essere, ma è stato represso.
Questa repressione può essere attuata dalle classi dominanti, come nel caso della Comune, ma anche da alcune componenti delle forze rivoluzionarie: i giacobini con il Terrore mettono la pietra tombale sull’“eccesso democratico” rappresentato dai sanculotti; i bolscevichi intraprendono una “guerra contro il tempo” per superare l’”arretratezza” russa facendosi portatori di una centralizzazione del potere nelle mani dello stato e di una taylorizzazione delle forze produttive a discapito delle forme di autogoverno contadine e della pluralità dei poteri rappresentata dai soviet.
Insurgent universality è un libro originale e ambizioso. L’affresco storico-filosofico di Massimiliano Tomba merita di essere approfondito da tutti coloro che non vogliono rassegnarsi a un presente spacciato come unico esito possibile della storia universale ma, nello stesso tempo, devono fare i conti con le macerie di quella che è stata per molto tempo la tradizione rivoluzionaria dominante, finendo per apparire come l’unica possibile. Per questo può essere utile interloquire idealmente con l’autore su alcuni punti che meriterebbero un approfondimento. Per iniziare, si può concordare sul fatto che il concetto di storia universale, così come ci viene generalmente presentato, sia il frutto di una filosofia della storia unilineare che, concretamente, si è imposta grazie a “una robusta dose di violenza economica e extraeconomica”. Una precisazione, però, può essere opportuna: la storia universale ha cominciato ad esistere realmente dal momento in cui il capitalismo ha iniziato ad espandersi su tutto il globo. E tale espansione non è stato soltanto il frutto “di una pretesa superiore efficienza della proprietà privata sulla proprietà comune”2. Il capitalismo, infatti, ha avuto l’effettiva capacità di sviluppare, in misura mai vista prima, quelle forze produttive che si sono rivelate la base materiale sia per il trionfo definitivo delle politiche di potenza degli stati moderni sia per la riproduzione, sempre più allargata, di uno sfavillante mondo delle merci dall’indubbio fascino planetario.
Ciò non si significa sostenere che il capitalismo sia stato un gradino necessario dello sviluppo storico, ma soltanto che la sua comparsa, dovuta a fattori storico-geografici contingenti, ha finito per determinare un salto storico a livello globale, ponendo condizioni nuove e ineludibili con cui si deve confrontare l’universalità insorgente. Per evitare fraintendimenti si precisa che per salto storico, come nota Tomba, non si deve intendere un’accelerazione verso un esito predeterminato, ma un cambio di traiettoria che pone la storia su un percorso imprevisto.
Si potrebbe anche ipotizzare che sia possibile parlare di universalità insorgente solo dopo questo salto storico. Forse la scelta è casuale, ma sta di fatto che la narrazione di Tomba parte dal 1879, cioè dalla prima rivoluzione che fa dell’universalismo borghese la sua bandiera proclamando tutti gli uomini liberi e uguali. In questo frangente storico, ci dice Tomba, le donne, i poveri e gli schiavi di Haiti obiettano che quel concetto di “uomo” non li rappresenta. Ma, precisa l’autore, non si è trattato di una negazione pura e semplice del valore universale dei diritti dell’uomo proclamati dalla rivoluzione. Il termine “uomo”, utilizzando un linguaggio che non appartiene all’autore, diventa un significante vuoto il cui significato è conteso dai differenti attori sociali in conflitto. In altri termini, più vicini a quelli del testo, il significato di “uomo” viene reinterpretato dalle comunità insorgenti facendolo diventare il vettore di una nuova universalità capace di presagire una forma sociale diversa da quella borghese. Insomma, l’universalità insorgente è in qualche misura debitrice dell’”universalismo emaciato” della borghesia.
A questo punto una domanda si impone. Perché qualificare le soggettività insorgenti come universalità? Opponendosi a una pretesa storia universale, non dovrebbe farsi valere la loro natura irrimediabilmente particolare come vorrebbe un approccio post-colonial o postmoderno? Il dubbio viene rafforzato quando leggiamo che l’universalità insorgente costituisce un esperimento incompleto e che proprio questa incompletezza può essere condivisa. In realtà l’autore argomenta lungo tutto il libro che questi esperimenti hanno qualcosa in comune. Essi certamente parlano lingue diverse, ma tra loro traducibili. C’è un legame significativo, sostiene Tomba, tra traducibilità e universalità anche quando ci occupiamo della reciproca comprensione tra differenti culture e pratiche sociali. Queste, ci ricorda l’autore citando Gramsci, possono comunicare tra loro perché rappresentano differenti risposte a problemi storici sostanzialmente comuni. Si può allora aggiungere che questa traducibilità è rafforzata dal fatto che i differenti soggetti insorgenti si trovano per la prima volta nella storia ad affrontare lo stesso nemico, il capitalismo che si fa storia universale.
Tutto ciò è confermato dall’esperimento Zapatista che si afferma in un contesto storico e geografico assai diverso da quello europeo. “Gli Zapatisti hanno intrapreso la strada che fu abbandonata in Russia dai Bolscevichi: la strada lungo la quale la politica rivoluzionaria si unisce con le comunità indigene”.3 Nonostante la pratica zapatista sia profondamente radicata nella cosmologia, nella epistemologia, nel rapporto con la natura dei popoli indigeni del Chapas, è possibile ravvisare molti punti di contatto con le rivoluzioni europee: la pluralità dei poteri, la proprietà collettiva delle comunità contadine, il mandato imperativo ecc. “Il mondo che vogliamo contiene molti mondi”, ci dicono gli zapatisti. Mondi in grado di dialogare tra di loro, possiamo aggiungere.
In conclusione, si può notare che sarebbe stato interessante approfondire maggiormente l’organizzazione militare degli zapatisti e le condizioni che hanno reso possibile il suo consolidamento. Questa organizzazione, senza rinunciare alle caratteristiche proprie dell’universalità insorgente, è un tentativo contemporaneo di rispondere ad alcune esigenze pratiche che ogni rivoluzione ha dovuto affrontare per non soccombere. La centralizzazione del potere nelle mani dello stato è certamente frutto di scelte politiche figlie di una specifica visione del mondo. Tomba ci ricorda, per esempio, “L’ossessione [dei bolscevichi] di correre avanti in modo da accelerare l’esito socialista trasformò lo stato in un apparato estremamente centralizzato e modellò l’industria in un laboratorio tayloristicamente disciplinato”.4 Ma occorre aggiungere che le scelte di cui stiamo parlando sono sottoposte a una notevole forza di inerzia perché rispondono a problemi oggettivi: l’urgenza di rispondere in maniera più efficiente agli immancabili attacchi dei nemici interni ed esterni; un compito che porta con sé l’impellenza di ripristinare il funzionamento della fabbrica sociale, inevitabilmente sconvolta dagli eventi rivoluzionari anche in considerazione del fatto che gli embrioni di una nuova organizzazione necessitano di tempo per germogliare. Riuscire ad immaginare come una rivoluzione possa consolidarsi senza che le esigenze militari schiaccino le istanze di libertà e di autogoverno è un passo necessario per capire come l’universalità insorgente si possa sottrarre a quello che sembra il suo tragico destino: squarciare ripetutamente il cielo come un lampo glorioso che, ogni volta, viene rapidamente inghiottito dall’oscurità della reazione.