di Gioacchino Toni
I videogiochi open world, nel loro proporre un mondo virtuale che il giocatore può esplorare in modo relativamente autonomo, sono basati essenzialmente sullo spazio, uno spazio connesso a quello del mondo concretamente esperito. La spazialità di questo tipo di videogame assume frequentemente connotazioni inquietanti e conflittuali soprattutto nelle interazioni con l’ambito metropolitano simulato. Ciò è particolarmente evidente in Red Dead Redemption 2 (2018), un videogame sviluppato e pubblicato da Rockstar Games ambientato tra le praterie, i deserti e le zone che si stanno urbanizzando dell’America settentrionale ottocentesca che il giocatore, vestendo i panni del cowboy Arthur Morgan, si trova ad attraversare.
Alla politica dello spazio simulato è dedicato il saggio di Jack Denham e Matthew Spokes, Il diritto alla città virtuale: la regressione rurale nei videogiochi open world, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogochi (Mimesis, 2023) [su Carmilla].
Nell’analizzare le interazioni di una quindicina di giocatori ventenni, dieci ragazzi e cinque ragazze, ricorrendo sia a interviste, prima e subito dopo la sessione di gioco, che all’osservazione diretta del gameplay, i due studiosi hanno verificato una marcata contiguità tra la percezione dello spazio concreto e virtuale.
I videogiochi open world possono essere definiti come «esperienze sociali contestate giacché propongono dinamiche di interazione mercificate, ostili e alienanti. Queste caratteristiche – che riflettono una specifica ideologia di design a sua volta basata su una concezione neoliberista della società – ci permettono non solo di contestualizzare, ma di comprendere la riluttanza dei giocatori a interagire con l’ambiente urbano costruito»1
Nella “dialettica triplice dello spazio” formulata sul finire degli anni Sessanta da Hernri Lefebvre2 per decifrare gli spazi sociali si distinguono uno spazio concepito, uno vissuto e uno percepito. Riprendendo la formulazione del francese che vuole lo spazio concepito come quello ordinante la società, teso a rafforzare il controllo egemonico attraverso aspettative e regole imposte dall’alto, con riferimento all’universo videoludico questo è identificabile con il mondo simulato e le regole del gioco pianificate dagli sviluppatori.
Nell’illustrare sul finire degli anni Sessanta le trasformazioni dell’ambiente urbano, Lefebvre3 ha sottolineato come le grandi trasformazioni urbanistiche dell’epoca, pur avendo migliorato le condizioni di vita di alcune zone cittadine, abbiano fatto perdere alla città il suo storico significato legato all’uso: anziché essere costruita e gestita secondo il suo valore d’uso, come accadeva in passato, la città ha finito per essere pianificata e realizzata in base al suo valore di scambio.
Tra i giocatori di Red Dead Redemption 2 è stato percepito il carattere «classista, esclusivo e sofisticato che rigetta e respinge i ruvidi cowboy»4 della città virtuale e non è passato inosservato come il paesaggio americano in evoluzione tratteggiato dal videogioco mostri una «concentrazione della ricchezza in poche mani nello spazio concepito della città»5.
A proposito dello spazio vissuto, della comprensione simbolica rappresentativa, i giocatori hanno individuato all’interno di Red Dead Redemption 2 elementi narrativi evocativi che rinviano al cinema western, a partire dall’immagine stereotipata del cowboy come maschio “duro” e “ruvido”.
Circa lo spazio percepito, inteso come «l’esperienza “dal basso verso l’alto” del giocatore che “accoglie la produzione e riproduzione e le particolari locazioni e caratteristiche di ciascuna formazione sociale”»6, nel libro Il diritto alla città, Lefebvre segnala come i valori urbani siano concepiti in modo esclusivo anziché inclusivo e siano tesi a privilegiare il valore di scambio. «In questo senso, i cowboy come Arthur Morgan sono attivamente ostracizzati: non hanno il diritto di abitare i nuovi spazi industriali e capitalistici»7.
Il genere open world si rivela un’esperienza spaziale che lega fortemente l’universo virtuale a quello non virtuale in cui sono giocati; considerare il gioco come uno spazio isolato non consente di cogliere il suo più ampio contesto sociale. Nonostante promettano estrema libertà al giocatore, i videogiochi manistream risultano spesso intrisi di logiche neoliberiste giustificanti lo sfruttamento classista e di genere, legittimanti l’alienazione, l’industrializzazione e la distruzione delle risorse naturali che il giocatore non può negoziare in quanto imposte dalle regole del gioco.
Il nostro campione considera l’esperienza di gioco in un mondo aperto come la libertà simultanea di esplorare mondi incontaminati dai processi di meccanizzazione e industrializzazione urbana, contrastata da un senso di esclusione nel momento in cui quei panorami sono stati “colonizzati” dal summenzionato nesso tecno-capitalista. I partecipanti allo studio erano, per lo più, studenti universitari, cresciuti in contesti urbani, che risiedono in città. Come tali, essi hanno ben presenti i danni prodotti dalla gentrificazione, dall’urbanizzazione, dall’inquinamento, dalla conflittualità, dalla competizione opprimente del capitalismo. Il videogioco fornisce loro la possibilità di riflettere su questi fenomeni in forma metaforica8.
Red Dead Redemption 2 finisce per riflettere e incoraggiare la partecipazione del giocatore all’imperativo capitalistico della crescita senza limiti, alla colonizzazione e allo sfruttamento delle risorse; il videogioco diviene insomma «una sorta di una rivisitazione ludica e spaziale della “logica egemonica liberale e liberista che assegna un primato assoluto al mercato” tipico degli spazi urbani moderni»9. I giocatori sono così spinti «a riflettere sul “diritto collettivo” di occupare gli spazi e di agire negli spazi, come scrive il Lefebvre del Diritto alla città»10, impattando anche sul modo in cui esperiscono l’esperienza del videogioco.
I giocatori usano le esperienze open world offerte da RDR2 per indulgere nell’“esperienza urbana contemporanea con un’aura di libertà e scelta nel mercato”, usando il tempo a disposizione per aggirare le intenzioni dei programmatori e degli sviluppatori, all’interno di uno spazio giocabile che rispecchia i principali aspetti della moderna economia politica urbana. Non rivendicano alcun “potere di modellare il processo di urbanizzazione” che costituirebbe un diritto alla città virtuale, ma abbracciano il diritto alla città come una forma di resistenza. Sono consapevoli della relazione tra cittadinanza e capitalismo che rimodella e “afferma […] il diritto degli utenti di far conoscere le loro idee sullo spazio e sul tempo delle loro attività” cozzando contro scelte di design non negoziabili11.
Quanto sin qua tratteggiato circa il “diritto alla città”, seppure in maniera decisamente diversa, è per certi versi al centro anche di film focalizzati sulle periferie parigine come L’Odio (La Haine, 1995) di Mathieu Kassovitz, I Miserabili (Les Misérables, 2019) di Ladj Ly e Athena (2022) di Romain Gavras. Ad essere ostracizzati dalla città disciplinata e disciplinare, in questi casi, non sono i ruvidi cowboy che “vengono da fuori” ma quella riottosa feccia – come la definiva quel galantuomo di Nicolas Sarkozy – confinata nelle periferie metroplitane.
Il film di Kassovitz ha portato sul grande schermo le banlieue francesi di inizio anni Novanta e lo ha fatto raccontando un giorno e una notte di tre giovani amici che, mettendo piede nella Ville Lumière, non possono che vivere sulla loro pelle quanto questa si riveli ostile nei loro confronti. Ed è proprio negli eleganti Champs-Élysées parigini, tra tricolori e inno nazionale cantato all’unisono per celebrare la vittoria dei Bleus ai Mondiali, che si apre il film Ladj Ly. L’unità francese esibita dalla Capitale si rivelerà una maschera incapace di celarne l’inospitalità di fondo nei confronti di chi non può permettersi di abitarla.
L’Odio sembra per certi versi il prologo de I Miserabili, film uscito oltre due decenni dopo e le periferie degli anni Novanta mostrate da Kassovitz rappresentano la premessa alla situazione in cui versano le banlieue contemporanee, veri e propri concentrati di guerra civile quotidiana che, al di là della contrapoposizione tra gendarmi e abitanti, vedono, rispetto al passato, nuovi attori non statali della violenza caratterizzati da originali configurazioni di potere in competizione tra loro con cui i singoli devono fare i conti12.
La banlieue messa in scena dal film si palesa come una prigione labirintica costituita da palazzoni e isolati tra i quali incessantemente si perpetua, in una sorta di loop quotidiano, il pattugliamento dell’anticrimine: uno spazio che, in linea con il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, può dirsi contemporaneamente chiuso in sé e in relazione col mondo, in contatto, ad esempio, con la grande Ville Lumière che la contiene ma che, tuttavia, la contraddice13.
Tutto ciò è ripreso, in questo caso con respiro epico e tragico, anche da Athena di Romain Gavras che, come gli altri film, sbatte letteralmente in faccia allo spettatore la guerra civile che attraversa le periferie occidentali14 ed anche in questo caso, come ne I Miserabili, tutto inizia in un inospitale centro urbano, che però, stavolta, palesandosi direttamente come centrale di polizia, non maschera nemmeno più la sua ostilità nei confronti di chi vive nelle periferie. I tricolori francesi, paradosaslmente, vengono fatti sventolare durante il concitato “ritorno a casa” da parte di, obbligato alle periferie, ha ormai deciso di rispondere agli oppressori con il loro medesimo linguaggio pur sapendo che le cose non potranno andare a finere bene.
In banlieue ci si muove sull’istanza del bisogno: il lavoro, la casa, gli spazi, la bestialità dei gendarmi; sofismi ideologici mal si accordano al cemento armato. E ci si muove coi propri vicini, coi parenti e con gli amici. Non si può tracciare una linea di demarcazione netta tra il corpo politico e quello sociale. […] La banlieue è il territorio di sperimentazione del capitale, dove la disarticolazione della vecchia classe operaia è stata presupposto e trampolino per la ristrutturazione dell’intero modo di produzione capitalista interno della Francia (ma similmente è avvenuto per il resto d’Europa). È il più avanzato laboratorio del nemico e pertanto la trincea di prima linea dei subalterni15.
Questo gruppo di film impone non solo una riflessione sui rapporti centro-periferia ma anche sulle tante strutture di potere con cui i singoli abitanti delle banlieue devono fare i conti nella loro quotidiana lotta per vivere una vita degna di questo nome.