Il fuggitivo

di Alessandro Villari

Al primo colpo di mortaio la folla si arrestò, incerta su quel che sarebbe seguito.

Al secondo quelli che stavano nelle retrovie o all’esterno cominciarono a squagliarsela mollando bandiere e striscioni, chi ne aveva. Nelle prime file ancora ci si interrogava se l’esercito avrebbe davvero attaccato o non stesse solo cercando di spaventarli.

Quando il terzo colpo spazzò via l’avanguardia del corteo nessuno ebbe più dubbi e si scatenò il panico. Era precisamente quello che volevano ottenere. Seguì il quarto lancio: stavolta erano fumogeni, non esplosivi.

Klaas non riuscì a evitare un conato di vomito prima di riuscire a infilarsi la maschera, uguale a quella dei soldati che stavano marciando in file ordinate verso il cuore della piazza, dove si trovava lui: un cimelio della guerra che fu ben felice di essersi tenuto. Tutto intorno manifestanti meno previdenti erano in preda alle convulsioni, gli occhi fuori dalle orbite, qualcuno svenuto, altri travolti da quelli che fuggivano in tutte le direzioni. Il gas riempiva ormai tutto lo spazio intorno, una fitta nebbia rossastra che soltanto il visore speciale gli consentiva di attraversare. Dopo qualche istante per riprendere fiato, cominciò a farsi strada verso una via laterale.

Mentre la folla incespicava impazzita, i soldati avanzavano a colpo sicuro. Non sparavano – erano gli ordini – ma pestavano con i manganelli e gli stivali tutti quelli che si trovavano sulla strada. Immobilizzavano e trascinavano via chiunque opponesse qualsiasi resistenza, e andavano avanti: il loro obiettivo erano i leader della protesta, al capo opposto della piazza ma impossibilitati a fuggire dai blindati che ormai chiudevano tutte le vie d’accesso.

Era quello che Klaas aveva temuto, ma non fece in tempo a rammaricarsene perché un colpo in testa gli fece perdere i sensi. L’ultima cosa che vide, mentre già lo caricavano via, fu un cartello abbandonato sul selciato: c’era scritto + ospedali, – caserme.

*

Per quanto frammentate, anche in prigione arrivavano notizie dal mondo di fuori: un nuovo compagno di cella, un secondino loquace, una frase buttata lì da qualche inserviente.

La pandemia galoppava in tutto il mondo, pareva non ci fosse modo di arginarla. Anche in carcere c’era stato un focolaio, erano morti una cinquantina di prigionieri, senza che neppure avessero provato a curarli: per l’amministrazione penitenziaria, erano cinquanta letti liberi in più. Ce n’era un gran bisogno del resto, perché nonostante la repressione feroce del governo le proteste continuavano, e gli arresti pure.

Klaas non aveva paura del virus. Se l’era già preso al fronte, come quasi tutti i suoi commilitoni: quelli che non erano morti là, li avevano fatti rientrare in gran fretta, ricoverati qualche giorno e poi spediti a casa in congedo permanente. Un ceppo indigeno per il quale la nostra popolazione non aveva gli anticorpi – avevano detto gli scienziati. L’epidemia aveva messo fine alla guerra, almeno per il momento: dunque in fondo c’era quasi da esserle riconoscenti. Se non fosse stato che i soldati, tornati infetti dal fronte, avevano contagiato le loro famiglie, i loro amici, i loro colleghi (quelli che avevano trovato un lavoro). In men che non si dica l’intero pianeta era stato decimato.

Si sapeva che il governo stava cercando un vaccino e una cura, ma non si erano neppure premurati di nascondere che sarebbero stati riservati soltanto ai militari, con il duplice scopo di mantenere leale l’esercito e di incentivare il reclutamento, il tutto per poter riprendere la guerra il prima possibile. D’altra parte, il virus stava realizzando proprio quello che era stato fin da principio lo scopo dichiarato dell’invasione: risolvere il problema della sovrappopolazione.

Ed eccomi qui, pensò Klaas mentre faceva scivolare tra le grate della cella vicina alla sua un foglio di giornale consunto: era una specie di bollettino sovversivo che girava clandestinamente tra i “politici” della prigione. Nell’ultima edizione denunciavano che il governo, invece di investire negli ospedali, stava investendo nel… virus: quel che avevano tratto dalla sconfitta era l’idea di sintetizzarne uno nuovo di zecca, da lanciare sul nemico prima della prossima campagna militare; per fortuna, sembravano ancora molto lontani dal risultato. Nel frattempo avevano avviato la costruzione di un super-carcere in cui confinare e torturare gli oppositori. Il luogo era tutto un programma: Pellko, come l’antico dio della paura.

*

«Pss… Hai sentito? Ci trasferiscono a Pellko.»

A parlare sottovoce era un piccoletto con cui Klaas, in tre mesi di prigione, non aveva mai socializzato. Apparteneva al popolo Tontut: nonostante la propaganda del governo li considerasse una “specie inferiore”, e per questo li perseguitasse, si diceva che fossero ingegneri straordinari, abilissimi nel progettare, costruire e riparare cose. Di certo, erano straordinariamente diffidenti nei confronti di chi fosse estraneo alla loro cerchia, e probabilmente non avevano tutti i torti. Anche lì in carcere, se ne stavano sempre tra di loro – una ventina in tutto – senza mai dare confidenza agli altri prigionieri.

Per questo Klaas rimase di stucco quando il tizio – gli pareva si chiamasse Tifill, ma non era sicuro di riuscire a distinguerli – gli rivolse la parola. Quanto al rispondergli, certo che lo sapeva del trasferimento: da quando era girata la voce, non si parlava d’altro.

«Sicuro, non vedo l’ora», replicò sarcastico.

«Forse abbiamo un piano per evadere. Ma a quanto pare non ti interessa.»

«Che hai detto?!»

«Sssh! Parla piano, spilungone. Non posso dirti altro ora.»

«ok. Solo una cosa: perché volete coinvolgermi?»

«Ci serve un pilota. Tu eri un pilota, nella guerra, giusto? Uno dei migliori, secondo le nostre indagini.»

Klaas annuì.

«Stasera sono di turno alle latrine del secondo livello, ala ovest. Fatti trovare lì. Se non ci sarai, dimentica questa conversazione e goditi la tua nuova villeggiatura.»

«Ma io non sono di turno lì, come faccio a …»

«Trova il modo. Credo che ne valga la pena.» E così dicendo gli volse le spalle e raggiunse i suoi compari intorno a un tavolo lontano dagli altri.

*

La nave era più bizzarra di come Klaas l’aveva immaginata dalla descrizione di Tifill. Pareva che i suoi costruttori avessero fuso insieme due scafi, la prua del secondo come incastrata nella coda del primo. Non erano neppure della stessa forma e dimensione: quello anteriore, sul quale sarebbero saliti i prigionieri, era più corto e più stretto dell’altro, che stando a quanto sapevano conteneva materiali per il completamento del nuovo carcere e delle strutture collegate.

I prigionieri in partenza per Pellko erano allineati in due file: a sinistra stavano i “politici”, nelle loro divise tutte rosse con i risvolti bianchi; a destra i Tontut con i pantaloni rossi e la giubba verde. Klaas e Tifill erano l’uno di fronte all’altro, in fondo alle rispettive colonne: quando le guardie li spinsero sulla rampa di ingresso, si scambiarono quasi impercettibilmente un cenno di intesa.

Con un rombo, la nave si sollevò dal suolo. Nel giro di pochi minuti era già fuori dall’atmosfera del pianeta, in direzione del satellite-prigione: l’avrebbe raggiunto nel giro di circa dodici ore.

Ogni ora circa, una guardia scendeva dalla cabina principale reggendo una torcia, per verificare che tutto fosse in ordine. Per il resto, l’unica luce nella stiva era la luminescenza rossastra delle manette agganciate alle pareti, che legavano i prigionieri mani e piedi.

Non appena il secondino fu uscito per la terza volta, si udì un ronzio sommesso e la fila in cui erano disposti i Tontut rimase al buio. Nella fila opposta, a spegnersi furono soltanto i ceppi di Klaas che, benché fosse previsto dal piano, non poté fare a meno di rimanerne sorpreso.

«Ancora non ho capito come avete fatto», sussurrò al più vicino dei suoi compagni di fuga, che nella penombra non riusciva a distinguere dagli altri.

«Anche se te lo spiegassi, non lo capiresti. Ora seguimi.»

«Sì, sì. Ma gli altri? Non li liberiamo?»

«Uno solo di voi spilungoni è più che sufficiente. E comunque non c’è posto per tutti. Muoviti!»

A malincuore, se ne fece una ragione.

Erano davvero due astronavi, la seconda agganciata alla prima: i Tontut avevano ragione. Klaas li seguì attraverso un condotto fino alla stiva del vascello posteriore, piena di macchinari di cui ignorava completamente la funzione e di provviste destinate al complesso carcerario di Pellko. Quando raggiunse la cabina di pilotaggio, al livello superiore, trasse un profondo respiro, sentendosi finalmente a suo agio.

Durante l’invasione della Terra, fallita a causa del misterioso virus che aveva colpito gran parte dei “marziani”, come li avevano chiamati gli indigeni, aveva pilotato anche velivoli simili a quello. Detestava la guerra con tutto il cuore, ma amava volare più di ogni altra cosa, e condurre le navi gli riusciva naturale come respirare.

Senza esitare, premette alcuni pulsanti in successione sul quadro di comando. Attese che la nave fosse libera dalle graffe di aggancio e azionò i retrorazzi. Il velivolo che conteneva i prigionieri proseguì la sua corsa per forza d’inerzia, mentre con una manovra il cargo ormai indipendente virava e accelerava in direzione opposta. Prima che sull’altro vascello potessero a loro volta azionare i motori e inseguirli, sarebbero stati già sufficientemente lontani, senza contare che i loro ormai ex aguzzini non avevano certamente provviste sufficienti per la rotta che avevano deciso di intraprendere.

Sarà un viaggio di sola andata, gli aveva detto Tifill quella sera mentre pulivano le latrine dell’ala ovest. Sul loro pianeta non esistevano luoghi in cui il braccio del governo non li avrebbe raggiunti, e comunque li avrebbero abbattuti prima ancora di atterrare. Klaas non aveva esitato: non aveva legami, nulla lo tratteneva a casa. Sarebbe stato un nuovo inizio. Sorrise, mentre impostava la rotta verso la Terra.

*

Ari e suo figlio Artu tornavano dal mercato di mezza estate di Rovaniemi sulla loro slitta. Non avevano fretta: in quel periodo il sole non tramontava mai del tutto e il clima era tiepido. Artu sedeva di fianco al padre e si sforzava di sillabare un giornale che aveva comprato in città: stava ancora imparando, ma sarebbe stato il primo della famiglia a saper leggere e ne andava molto orgoglioso.

Ari era molto soddisfatto degli affari che aveva concluso quel giorno: aveva venduto a un buon prezzo le pelli che sua moglie Helli aveva trascorso i mesi precedenti a conciare. Con il ricavato aveva acquistato provviste e due giovani renne robuste, che ora insieme alle altre sei trainavano il veicolo attraverso la distesa innevata. Decise di concedersi un sorso di acquavite e cedette le redini al figlio, che ripiegò il giornale in una tasca del suo cappotto.

Il padre aveva appena staccato la fiaschetta dalle labbra quando vide un’enorme… cosa cadere dal cielo e scomparire appena oltre una collinetta, davanti a loro. Guardò sospettoso la fiaschetta, quindi incrociò gli occhi di Artu: l’aveva vista anche lui. Senza pensarci due volte, il ragazzo spronò gli animali in direzione dell’oggetto misterioso.

Raggiunta la sommità della piccola altura, i due rimasero sbalorditi. Una specie di nave, ma cento volte più grande di quelle che solcavano il fiume Kemijoki, e inoltre ricoperta di uno strano metallo fosforescente e con una forma che a stento riuscivano a concepire, era appoggiata al suolo, anziché in acqua. Dal suo ventre fuoriusciva una passerella, dalla quale stavano scendendo figure dall’aspetto bizzarro. Una era alta, aveva il ventre prominente e una specie di lunga barba bianca ed era vestita interamente di rosso. Le altre, in fila dietro la prima, erano piccole e indossavano pantaloni rossi e giubbe verdi.

Ari rabbrividì quando notò che una delle creature più piccole – folletti, forse? – stava indicando nella loro direzione: li avevano visti! Fece per nascondersi dietro la slitta, ma era troppo tardi: Artu era saltato in piedi gridando e agitando la mano in segno di saluto. Non rimaneva che scendere, sperando che gli strani figuri non avessero cattive intenzioni.

*

Avevano scelto di atterrare nella regione polare in modo da evitare almeno inizialmente il contatto con i terrestri: non erano sicuri di come avrebbero reagito. Si erano comunque preparati per l’eventualità: i Tontut avevano costruito una sorta di traduttore universale, che consentiva loro di comprendere ogni linguaggio parlato e scritto, e di essere a loro volta comprensibili. A quanto pareva avevano fatto bene.

Klaas scorse i due umani che gli aveva indicato Tifill, in cima alla piccola altura sopra di loro. Uno dei due gridava e agitava la mano verso di loro, ma sembrava pacifico, e comunque inoffensivo. Si augurò che a sua volta il suo aspetto non apparisse minaccioso: nei trenta giorni che avevano impiegato a raggiungere la Terra, non aveva mai potuto lavarsi e radersi come era abituato a fare quotidianamente anche in carcere, e ora una lunga peluria bianca gli era cresciuta sopra e intorno alla testa, nascondendogli gran parte del volto.

Forse è meglio così, pensò, mentre i terrestri scendevano lungo il breve pendio. Come avevano concordato durante il viaggio, avrebbero finto che fosse lui il capo della compagnia: era più alto ed era uno, e secondo gli studi di Stufur, lo xeno-etnologo del gruppo, questo sarebbe stato più semplice da comprendere per la specie relativamente primitiva degli umani.

«Io sono Klaas e questi sono i Tontut, miei aiutanti», si presentò.

Gli umani sgranarono gli occhi, si guardarono tra loro e poi… caddero in ginocchio.

«Sinterklaas…», fece il vecchio, con il poco fiato che pareva essergli rimasto.

«… e i suoi Tontut… Elfi!», concluse l’altro, come se fosse di fronte a un miracolo.

Klaas si avvicinò al giovane terrestre, sorridendo. Con le mani indicò il foglio di giornale che aveva in tasca e l’umano glielo porse con deferenza. Grazie al traduttore universale, lesse la data: 25 giugno 1899.

*

25 giugno 2020

Centoventi anni, e ancora Klaas non era riuscito ad abituarsi alla luce perenne dell’estate polare. Preferiva di gran lunga l’inverno, senza contare il periodo di Natale, in cui era una vera e propria star planetaria. L’altra cosa a cui non era ancora riuscito ad abituarsi era il pessimo carattere degli elfi – come ormai anche lui aveva preso a definirli – e specialmente di Tifill, oltretutto esacerbato dalla finzione per cui lui era il capo indiscusso, Sinterklaas o Babbo Natale come lo chiamavano i più, mentre loro non erano che i suoi buffi aiutanti. Non avevano tutti i torti, in effetti: erano gli elfi, con le loro abilità prodigiose, a fare tutto il lavoro, mentre lui si prendeva le copertine limitandosi a pilotare l’astroslitta una volta all’anno.

Nella penombra artificiale dei vetri oscuranti, Babbo Natale sorseggiava il suo Earl Grey quando Raudur, il biologo, piombò in mezzo a questi pensieri ricorrenti – come sempre, senza bussare.

«È marziano!»

«Chi?»

«Non chi, deficiente. Il virus. È di origine marziana: abbiamo sequenziato il genoma dell’ultima mutazione ed è l’unica possibilità. Probabilmente era incapsulato nel meteorite precipitato a Wuhan lo scorso autunno. Non era un meteorite, dopo tutto.»

Klaas non fece neppure caso all’ingiuria, allarmato. «Ma allora ce l’hanno fatta…»

«Abbiamo già riconvertito la fabbrica: il prossimo Natale, niente giocattoli.»

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