Di Timothée Parrique. Traduzione di Susanne Giovannini, del Gruppo Internazionale. Articolo originale a questo link. Il libro si può acquistare a questo link.
È il meglio che la letteratura sulla decrescita abbia da servire su un piatto d’argento. Questo è il modo in cui descriverei: The Future is Degrowth: A Guide to a World beyond Capitalism (Il futuro è la decrescita: una guida per un mondo che va oltre al capitalismo) (giugno 2022) di Matthias Schmelzer, Andrea Vetter, e Aaron Vansintjan. [1] Nel leggerlo, mi sono sentito come il personaggio di Neo in “The Matrix” (il film Matrix) mentre imparava improvvisamente tutto quello che c’era da sapere sul Kung Fu; mi sono detto: “io conosco la decrescita.”
Questo tipo di sintesi sul tema è però già da tempo obsoleta. La letteratura sulla decrescita è divenuta abbastanza vasta e non posso pensare a un singolo testo che la raggruppi tutta. Research on degrowth (Ricerca e decrescita) è stata la mia guida favorita per la decrescita, ma non si può fare più di tanto in un articolo di 20 pagine (tenendo conto del fatto che la letteratura è più che raddoppiata da quando è stato pubblicato nel 2018). Degrowth: A vocabulary for a new era (2014) (La decrescita: un vocabolario per una nuova era, 2014) è un buon calderone per quanto riguarda le prospettive ma è privo di coerenza e di profondità per il formato che raggruppa molti autori in formato breve. Io ho cercato di fare del mio meglio in The political economy of degrowth (2019) (L’economia politica della decrescita) ma il risultato finale è stato piuttosto farraginoso.
In “The Future is Degrowth” (Il futuro è la decrescita) gli autori sono riusciti ad effettuare delle enormi “pulizie di primavera” riguardo l’intero campo delle espressioni esistenti: sufficiency (sufficienza), dépense (spreco), commoning (messa in comune), pluriverse (pluriverso), unequal exchange (scambio ineguale), conviviality (convivialità), self-determination (autodeterminazione) e molto di più (ho contato più di sessanta espressioni scorrendo il libro). Attraverso una tale grande completezza, questo libro sta alla decrescita come l’IPCC (il panel intergovernativo sui cambiamenti climatici, Intergovernmental Panel on Climate Change) sta alla scienza del clima: è la migliore rassegna di letteratura sull’argomento.
Ma un ammonimento: questo libro non è per coloro che si spaventano di affrontare un livello accademico. Se si sta cercando un’introduzione al tema della decrescita diretta al vasto pubblico questa non è una di queste e raccomanderei piuttosto The Case for Degrowth (Il caso della decrescita) [G. Kallis, S. Paulson, G. D’Alisa, F. Demaria] una modalità più breve e meno impegnativa per descrivere le basi. Se non si è mai sentito parlare in alcun modo dell’argomento, Less is more (Il meno è di più) [Jason Hickel], Post Growth: Life after capitalism (Postcrescita: la vita dopo il capitalismo) [Tim Jackson] e Degrowth [Giorgos Kallis] (Decrescita) sono anche dei buoni riferimenti per iniziare.
The Future is Degrowth (Il futuro è la decrescita) è molto lungo (più di 100.000 parole) ma è organizzato con cura. La letteratura è stata raggruppata accuratamente in sei liste: 3 dimensioni e 7 critiche alla crescita, 5 correnti e 3 principi della decrescita, 6 gruppi di proposte e 3 strategie per il cambiamento. Il libro di per sé è suddiviso in sette capitoli. Dopo una lunga introduzione (12% della dimensione totale del libro), i primi due capitoli riguardano il comprendere la crescita economica e le sue critiche (che sono circa la metà del libro). I capitoli rimanenti seguono il famoso trinomio di Erik Olin Wright: il Capitolo 4 riguarda la desiderabilità (desirability) della decrescita (11%), il Capitolo 5 riguarda la sua fattibilità (viability) (13%) e il Capitolo 6 ha come tema la sua realizzabilità (achievability) (11%). Questo ci porta a un piccolo capitolo conclusivo (5%) intitolato “The future of degrowth” (Il futuro della decrescita).
Considerando una tale mole di lavoro, non posso accontentarmi di scrivere una piccola recensione, il chè sarebbe come sintetizzare tutte le stagioni del Trono di Spade in un singolo tweet. Il libro necessita di un’appropriata analisi e, perciò, sistematizzare il contenuto, capitolo per capitolo, prendendo tutti gli spazi che sono necessari per sintetizzare il suo contenuto e per analizzare le sue (molte) forze e (molto poche) debolezze.
Capitolo 1: Introduzione
Investire così tanto tempo nel concetto di decrescita (certamente marginale) può sembrare uno spreco di ore e invece non lo è. I concetti e le teorie che vengono mobilitate per criticare la crescita economica e delineare un’alternativa a essa, vi condurranno attraverso tutte le domande classiche dell’economia politica e dell’ecologia politica. Tali questioni non riguardano solo la crescita o la decrescita, né questo è un libro che riguarda solo l’economia. Questa è la corsa ultimativa attraverso tutti i dibattiti contemporanei sulla giustizia climatica, l’origine del valore, l’etica verso gli animali, le lotte di classe, il lavoro, la proprietà, il denaro, la tecnologia, e molto di più.
“In questo libro, il nostro obiettivo è dimostrare che la decrescita pone una serie di domande chiave che le alternative emancipatorie devono affrontare e che sono spesso ignorate. La decrescita offre delle risposte anche a queste domande. Se la gente vuole sapere come affrontare le sfide causate dalla distruzione ecologica, dall’ideologia del capitalismo o dal modo di produzione industriale, gerarchico e imperiale, può trovare nel concetto di decrescita qualcosa di molto più avanzato di molti altri termini nel dibattito – incluse gran parte delle discussioni delle sinistre” (pag. 297). I decrescisti hanno passato gli ultimi 20 anni a riflettere su tali questioni e ne hanno tratto un certo numero di utili introspezioni.
Se ci tenete all’uguaglianza di genere, avete bisogno di leggere sulla decrescita. Se siete interessati ai conflitti di classe, all’alienazione sul posto di lavoro, alle crisi finanziarie, alla corruzione e alla democrazia, avete bisogno di leggere sulla decrescita. Questo è il punto che dà senso al sottotitolo del libro: “a guide to a world beyond capitalism“ (una guida a un mondo oltre il capitalismo). Queste sono proprio le ultime parole del libro: “abbiamo la necessità di liberarci dall’economia capitalistica. La decrescita ci da gli strumenti per piegare le sue sbarre” (we need to break free from the capitalist economy. Degrowth gives us the tools to bend its bars) (pag. 297). Se pensate che il capitalismo (o come volete chiamare il sistema economico attualmente dominante) abbia fatto il suo corso e abbia bisogno di essere sostituito, continuate a leggere.
Capitolo 2: La crescita economica
Non si può comprendere la decrescita senza comprendere cosa sia la crescita economica. Si dimentichi la piatta e monodimensionale definizione di crescita come crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL). La crescita economica è molto più di questo. È (1) un’idea, (2) un processo sociale e (3) un processo materiale.
Per prima cosa, la crescita è una costruzione ideologica. Questo è il punto che Matthias Schmelzer ha affrontato nella sua tesi di Dottorato (PhD) “The hegemony of growth” (L’egemonia della crescita) mostrando che solo negli anni Cinquanta dello scorso secolo (venti anni dopo l’invenzione del PIL) l’idea della crescita è divenuta dominante. [2] La crescita è anche un processo sociale di “stabilizzazione dinamica” (dynamic stabilization). Proprio come una bicicletta che trova il suo equilibrio con la velocità, l’economia ha bisogno di crescere per rimanere stabile. La crescita agisce come una promessa che pacifica i conflitti sociali e crea consenso per un certo tipo di politiche. E infine, la crescita è un processo materiale. Un’economia è come un super-organismo con un gigantesco metabolismo sociale (societal metabolism) e la crescita è “il flusso di energia e materia che scorre attraverso le società – estratta in una certa forma utile, messa a lavoro e consumata, e successivamente emessa come scarto” (pag. 62).
Poiché la crescita economica è sia un’idea, che un processo sociale ed un processo materiale, un’agenda per il cambiamento non può concentrarsi unicamente sulla modifica del PIL come indicatore: ciò sarebbe come cambiare il cruscotto di un’auto che corre a tutta velocità verso un dirupo. Sfuggire al paradigma della crescita richiede di destrutturare il concetto di crescita intesa come idea, per poi problematizzare il ruolo che gioca nelle più ampie dinamiche di potere e per comprendere più attentamente la sua relazione con la natura. Il progetto è, di certo notevole: contrastare il concetto di crescita implica il reinventare gran parte di quello che conosciamo sulle economie moderne.
Capitolo 3: Critiche alla crescita
Dopo aver letto così tanta roba sulla decrescita, mi sono abituato a saltare la sezione critica perché è quasi sempre uguale. Non in questo caso. Gli autori hanno fatto una sintesi che è rimarchevole (il capitolo consta di 100 pagine) strutturando le critiche in sette filoni: ecologiche, socioeconomiche, culturali, anticapitaliste, femministe, anti-industrializzazione, anti-sviluppo, a ognuna delle quali viene associato un differente concetto “curativo”: sufficiency (sufficienza), alternative hedonism (edonismo alternativo), conviviality (convivialità), dépense (spreco), care (cura), convivial technologies (tecnologie conviviali), pluriverse (pluriverso). Ciascuno di questi filoni esiste per conto suo, ma quello che rende speciale la decrescita è che li ospita tutti e sette in una sorta di attacco finale alla crescita da parte di un Megazord. “La forza della decrescita è nella sua visione olistica. Non si rifà a un singolo filone di critica alla crescita, ma contiene, sin dal principio, le tracce di tutti i sette filoni di emancipazione discussi in questo capitolo, tutti insieme in una critica alla crescita coesa, ben sviluppata ed ampia” (pag. 177).
Critica n°1
Secondo la CRITICA ECOLOGICA, la crescita economica “distrugge le fondamenta ecologiche della vita umana e non può essere trasformata per diventare sostenibile” (“destroys the ecological foundations of human life and cannot be transformed to become sustainable”) (pag. 78). L’economia, infatti, come tutti i sistemi fisici, è soggetta alle leggi naturali della fisica. Di conseguenza, più grande è un’economia tanto più difficile diviene la possibilità di ridurre la portata del suo impatto biofisico. “Ogni società che dipenda dal tasso di interesse composto della crescita economica dovrà infine affrontare gli ultimi limiti che si manifesteranno con il collasso dei complessi ecosistemi da cui dipende la crescita” (Any society that relies on compound rate of economic growth will eventually face ultimate limits, which manifest themselves in the breakdown of the complex ecosystems upon which growth relies) (pag. 83). Tale critica ecologica porta ad una difesa della sufficienza (sufficiency) (la nemesi della crescita ecologicamente distruttiva), “una riduzione nel consumo di materiali grezzi, energia e territorio che, nonostante tutto, offra una base per il benessere” (pag. 93).
Critica n°2
Secondo la CRITICA SOCIO-ECONOMICA, la crescita economica “dà una misurazione falsa delle nostre vite e perciò si frappone al benessere e all’equità per tutti” (mis measures our lives and thus stands in the way of well-being and equality of all) (pag. 78). Sostanzialmente, la crescita del PIL non è necessaria (e qualche volta persino controproducente) per il miglioramento della qualità della vita. Questo è un ritorno al concetto di Herman Daly di “crescita anti-economica” (uneconomic growth): al di sopra di una certa soglia di reddito, l’ulteriore crescita comporta più costi che benefici. Tale “paradosso di Easterlin” (Easterlin paradox) viene spiegato in cinque passaggi: (1) il di più non vuol dire sempre meglio, soprattutto perché (2) la felicità è determinata dai livelli di reddito relativi (portare tutti a livelli più alti non comporta un cambiamento nelle posizioni relative), (3) il PIL è una misura debole del benessere, (4) la svolta neoliberista degli anni Ottanta ha minato le fondamenta del welfare e (5) la stagnazione secolare, e la crescente disuguaglianza, soffoca i benefici della crescita economica. Questa critica “vede la fine della crescita economica non come un pericolo, ma come un’opportunità per nuove forme di benessere e un buon vivere per tutti” (pag. 94), per un “edonismo alternativo” (alternative hedonism).
Critica n°3
Secondo la CRITICA CULTURALE, la crescita economica “produce delle forme alienate di lavoro, di vita e delle relazioni dell’uno con l’altro, e con la natura” (pag.78). La vita moderna e industriale fa semplicemente “schifo” (sucks). Il posto di lavoro è divenuto un ambito di alienazione, soprattutto per coloro che hanno dei “bullshit jobs” (lavori del cavolo) [David Graeber] I consumatori affogano sotto una stressante valanga di opzioni, spogliati della loro autonomia da una pubblicità dilagante e la cultura, nell’insieme, sta trasformandosi, lentamente, in una competizione accelerata per chi riesce a possedere più cose possibili (il ché, nuovamente, non ci rende felici). Questo filone della critica denuncia la definizione riduttiva dell’uomo come Homo economicus e ci mette in guardia contro l’emergere delle moderne tematiche sulla crescita (growth subjects). Tale critica invoca la convivialità (conviviality): “forme di organizzazione sociale che permettano le dipendenze reciproche, la negoziazione dei rapporti interpersonali e una buona coesistenza” (pag. 116).
Critica n°4
Secondo la CRITICA AL CAPITALISMO, la crescita economica “dipende ed è trascinata dallo sfruttamento e dell’accumulazione capitalistica” (“depends on and is driven by capitalist exploitation and accumulation”) (pag. 78). I proprietari del capitale reinvestono costantemente i surplus per massimizzare i profitti, e ciò accelera le ruote dell’accumulazione del capitale avente come risultato una maggiore degradazione dell’ambiente e un ampliamento della disuguaglianza. La cosiddetta ‘crescita’ è basata sull’appropriazione del lavoro non retribuito e dell’energia degli umani e anche della natura non-umana. È “un’accumulazione legata all’espropriazione” (accumulation by dispossession [David Harvey]). “Senza degli input non pagati – sia da parte delle persone (lavoro domestico non retribuito, sfruttamento neo-coloniale, ma anche salvataggi pubblici) e i materiali grezzi e l’energia della natura – i costi di produzione sarebbero talmente alti che i profitti crollerebbero e l’accumulazione raggiungerebbe un arresto” (pag. 124). Questa critica conduce al concetto di “dépense” che “offre un modo per andare oltre una concezione puramente produttivistica dell’economia” (pag. 128) e conduce all’idea di “società autodeterminata della post-scarsità” (“self-determined post-scarcity society”) (pag. 128) dove si potrebbe riconquistare “l’autonomia per creare collettivamente l’abbondanza pubblica” (pag. 129) mentre si delibera collettivamente e si fissano limiti (collectively deliberating and setting limits).
Critica n°5
Secondo la CRITICA FEMMINISTA, la crescita economica “è basata sullo sovrasfruttamento di genere e la svalutazione della riproduzione” (pag. 78). In una società “capitalocentrica” (capitalocentric) [J.K. Gibson-Graham], “il lavoro di riproduzione della società – che è largamente portato avanti dalle donne, in particolare dalle donne indigene e nere e dalle donne di colore – rimane fondamentalmente non riconosciuto, invisibile, svalutato e precario” (pag. 133). Si usa “l’analogia dell’iceberg” (iceberg analogy) nell’argomentare che “quello che generalmente viene definita ‘economia’ – prodotti, lavoro ed investimenti – è in effetti solo la punta dell’iceberg accanto alla quale si trova un’economia invisibile che riproduce e sostiene la vita e che fa sì, in primo luogo, che l’economia di mercato sia resa possibile.” (pag. 135). “Le attività riproduttive (lavoro di sussistenza, il mondo ‘sottosviluppato’, l’abitazione, la natura e la femminilità) sono subordinate alle attività ‘produttive’ (il lavoro salariato, la civilizzazione occidentale, la sfera pubblica e la mascolinità)” (pag. 138). Questa critica si apre al concetto correttivo di “cura” (care) e di “economia della cura” (caring economy) orientata a sostenere la vita.
Critica n° 6
Secondo la CRITICA ALL’INDUSTRIALIZZAZIONE, la crescita economica “fa emergere forze produttive e tecniche antidemocratiche” (pag. 78). “Lo sviluppo delle forze produttive e della tecnologia, nelle società moderne, è divenuta autoritaria, alienante e restrittiva dell’autodeterminazione” (pag. 143). Il ‘progresso’ tecnologico non è un processo neutrale, e il tipo di innovazioni che vengono incentivate in un’economia capitalista, basata sulla crescita, non è necessariamente di beneficio per tutti. La macchina, ad esempio, ha acquistato un “radicale monopolio” (radical monopoly) [Ivan Illich] nelle scelte sulla mobilità soffocando le modalità alternative di trasporto. Anche le fonti di energia centralizzate, come l’elettricità ricavata dal nucleare, possono indirettamente rimodulare la società verso “sistemi sociali più alienati, autoritari, militarizzati e altamente centralizzati” (more alienated, authoritarian, militarized, and highly centralized social systems) (pag. 149). Tutte queste considerazioni, ci portano a richiedere una società post-industriale fatta di tecnologie non autoritarie, non alienanti e prive di sfruttamento, a cui spesso ci si riferisce con il termine “strumenti conviviali” (convivial tools) o “a bassa tecnologia” (low-tech).
Critica n°7
Secondo la CRITICA SUD-NORD, la crescita economica “si basa, e riproduce, relazioni di dominio, estrazione e sfruttamento tra il centro capitalistico e la periferia” (pag.78). Il “modo di vivere imperiale” (imperial mode of living) [Ulrich Brand & Markus Wissen]) dei cittadini del Nord è sostenuto attraverso un’appropriazione del lavoro e delle risorse naturali non corretto e non sostenibile che avviene mediante un processo di “scambio ineguale” (unequal exchange). La crescita economica è una forma di neocolonialismo. Quello che i paesi occidentali chiamano ‘sviluppo’ è l’imposizione di uno stile di vita orientato alla crescita industrialista e capitalista nel Sud globale (la cosiddetta occidentalizzazione del mondo, [Westernisation of the world]), in contrasto con le visioni alternative della prosperità come il buen vivir (Sud America), ubuntu (Sud Africa) e swaraj) (India). Questa critica chiede una difesa di un “pluriverso” (pluriverse) in cui tutte le comunità dovrebbero avere un’autonomia nel perseguire le proprie visioni della prosperità.
In aggiunta a questi sette filoni critici, il capitolo finisce facendo una rassegna di altre cinque critiche alla crescita che sono al di fuori del discorso sulla decrescita: critiche conservatrici (conservative critiques) (semplificate da Meinhard Miegel in Germania), fascismo verde (green fascism) (Alain de Benoist in Francia, Björn Höcke in Germania, Ecopop in Svizzera, il Movimento 5 Stelle in Italia), antimodernismo (anti-modernism) (il documentario “Il pianeta degli umani” [Planet of the Humans]) e ambientalismo dei ricchi (environmentalism of the rich). Gli autori argomentano che la decrescita è del tutto differente da queste critiche: “l’essenza della decrescita con la sua enfasi sulla giustizia ecologica, una critica di tutte le forme di sfruttamento e gerarchie, ed una visione di solidarietà, ha modalità totalmente opposte a quella delle critiche alla crescita conservatrici, anti-moderne, o regressive […] la visione della decrescita, le proposte e le strategie […] contraddicono sostanzialmente qualsiasi cosa assomigli a queste critiche di tipo regressivo della crescita” (pag. 177).
Capitolo 4: Visioni
“La decrescita non è solo una critica del presente, ma anche una proposta e una visione per un futuro migliore” (“Degrowth is not only a critique of the present but also a proposal and a vision for a better future”) (pag. 180) e questo capitolo chiarisce a cosa assomigli l’utopia della decrescita. Per fare ciò, identifica cinque correnti nello spettro della decrescita: orientamento alle istituzioni (institution-oriented), orientamento alla sufficienza (sufficiency-oriented), commoning, o economie alternative (alternative economy), femminismo (feminist), postcapitalismo (post-capitalism) e alter-globalizzazione (alter-globalisation) che “forniscono risposte differenti, in parte complementari e in parte contestate, sulla questione di come possa essere una società della decrescita” (pag. 181).
Corrente n°1
La corrente orientata alle istituzioni (institution oriented) “mira a superare l’ancoramento politico alla crescita e chiede la trasformazione delle istituzioni, in precedenza dipendenti e guidate dalla crescita, attraverso riforme e politiche basate sulla sufficienza” (pag. 181-182). Come scrivono gli Autori: “questa è la corrente che, al momento, avrà più probabilità di divenire una posizione governativa” (This is the current most likely to become a government position) (p.181). Una società verde-liberale con tasse e regolamenti eco-sociali in linea con “l’economia della ciambella” (doughnut economy) di Kate Raworth e la sua applicazione nella città di Amsterdam o in linea con la discussione sul post-crescita (post-growth) al Parlamento Europeo.
Corrente n°2
La corrente orientata alla sufficienza (sufficiency-oriented) ha lo scopo “di ridurre radicalmente il consumo attraverso la creazione di economie di sussistenza locali e decommercializzate, iniziative del tipo fai da te (do-it-yourself) e di ‘semplicità volontaria’ (voluntary simplicity) e quindi si concentra su pratiche che sono al di fuori del capitalismo di mercato che è quello basato sui consumi qui ed ora” (pag. 183). Questa è la posizione dell’economista tedesco Niko Paech, del Movimento per la Decrescita Felice, del Global Ecovillage Network, di parte delle Transition Towns, ed è simboleggiata da Can Decreix la piccola comunità (commune) utopistica nel sud della Francia che ospita ogni anno una scuola estiva per la decrescita.
Corrente n°3
La corrente commoning o economia alternativa (alternative economy) si concentra sulla “costruzione di infrastrutture alternative, cooperative basate sulla solidarietà e forme non capitalistiche di produzione collettiva e di sussistenza” (pag. 185–86). Alcuni esempi sono l’agricoltura supportata dalla comunità (community-supported agriculture) e le reti solidali, Wikipedia, il giardino o orto comunitario (community garden), le reti di produzione da pari a pari (peer-to-peer) e le monete alternative. Quello che hanno tutte in comune è il principio del “commoning“ come modo democratico di governance nello spirito del “riprendersi l’economia” (taking back the economy).
Corrente n°4
La corrente femminista cerca “di mettere le attività riproduttive e di cura – che formano le basi della società e della vita in generale – al centro dell’economia e del pensiero economico e cerca di superare la separazione tra produzione e riproduzione” (pag. 188). Questa è la linea che viene difesa dall’Alleanza per il femminismo e la decrescita (Feminisms and Degrowth Alliance) che auspica una radicale riduzione del tempo di lavoro, una redistribuzione delle attività di cura e la scomparsa delle strutture patriarcali.
Corrente n°5
Le correnti del postcapitalismo e dell’alter-globalizzazione mirano “a disfare il dominio del mercato, socializzare settori chiave dell’economia e ridurre le relazioni sociali di dominio” (pag. 189). Si può menzionare al riguardo il recente caso dell’alleanza tra eco-socialisti e decrescisti, come esempio per una più larga convergenza per una decrescita post-capitalista. Questa corrente si concentra sulla “riappropriazione e socializzazione della ricchezza” (“reappropriating and socializing wealth”) (pag. 190), per esempio attraverso imprese controllate dai lavoratori, alloggi sociali e regimi di reddito su base universale.
Poi arriva il momento che noi tutti stavamo aspettando: definire la decrescita. Per fare ciò, gli Autori analizzano le caratteristiche comuni alle cinque correnti della decrescita che gli permettono di definire con precisione tre principi comuni, tre “dimensioni della visione della decrescita” (pag. 206):
“Una società della decrescita, quale noi proponiamo, è una società che, in un processo democratico di trasformazione (1) permette una giustizia ecologica globale (global ecological justice) – in altri termini, trasforma e riduce il suo metabolismo materiale, e perciò anche la produzione e il consumo, in modo tale che il suo stile di vita sia ecologicamente sostenibile nel lungo periodo e globalmente giusto; (2) rinforza la giustizia sociale e l’autodeterminazione e mira al vivere bene (good life) per tutti, nelle condizioni date da questa trasformazione metabolica; e (3) ridisegna le sue istituzioni e infrastrutture in modo che non siano dipendenti dalla crescita e dalla continua espansione per poter funzionare” (pag. 195).
Cerchiamo di sistematizzare un po’ di più questi principi. Il primo è quello di giustizia ecologica, “la visione di un mondo ecologicamente sostenibile e socialmente più giusto” (pag. 196). Questa è la decrescita nel senso letterale del termine (“una contrazione pianificata dell’attività economica”; “una riduzione della produzione e dei consumi tra i benestanti,” pag. 196) per il bene della giustizia globale: la riduzione delle impronte ecologiche da parte di coloro che sono più ricchi allo scopo di acquisire un “modo di vivere solidale” (solidary mode of living) che può far regredire le relazioni le relazioni di sfruttamento tra il Nord e il Sud globale.
Il secondo principio riguarda la giustizia sociale, l’autodeterminazione (self-determination) e il vivere bene (good life). Con giustizia sociale, gli Autori intendono “la dissoluzione delle più ampie strutture di dominio come la società basata sulle classi, il razzismo, il colonialismo, l’(etero)sessissmo, la discriminazione dei disabili (abilismo) e altre forme di esclusione” (pag. 203). L’autodeterminazione, per Cornelius Castoriadis, si ottiene con la democrazia collettiva e con l’autonomia individuale. E infine, un vivere bene (good life) è la ricerca della comprensione olistica della prosperità, una forma di “edonismo alternativo” (alternative hedonism) [Kate Soper] che include la nozione di “risonanza” (resonance) [Hartmut Rosa] (“relazioni significative e buone con se stessi ed il mondo” [“meaningful and good self-world relationships”] pag. 205), la convivialità (conviviality) (“che mira alla convivenza e all’autodeterminazione collettiva”, pag. 205) e “prosperità di tempo” (time prosperity) (“più tempo autodeterminato” [more self-determined time] (pag. 206).
Il terzo principio è l’indipendenza dalla crescita. “Una società della decrescita è una società che attraverso un processo democratico trasforma le sue istituzioni e le infrastrutture in modo che non siano dipendenti dalla crescita, e dalla continua espansione, per il loro funzionamento” (pag. 206). Questo comporta lo smantellamento di alcune infrastrutture materiali e dei sistemi tecnici che spingono alla crescita come: il sistema basato sull’automobile, la trasformazione di istituzioni sociali dipendenti dalla crescita, il finanziamento dello stato sociale (welfare), la pulizia delle infrastrutture mentali (mental infrastructures) per rimuovere la credenza che il “di più” sia sempre meglio e, più in generale, rassicurare che il sistema economico, nel suo insieme, possa “prosperare senza crescita” (prosper without growth) [Tim Jackson].
E se cercate una definizione più breve, qui ne trovate una: “la transizione democratica verso una società che – per permettere una giustizia ecologica globale – sia basata su un minore flusso di energia e di risorse, che rinforzi la democrazia e garantisca un buon vivere ed una giustizia sociale per tutti non dipendendo dall’espansione continua” (pag, 4).
Capitolo 5: Percorsi verso la decrescita
La descrizione della società della decrescita offerta nel Capitolo 4 è una bella utopia, ma come può realizzarsi? Per una risposta a questa difficile domanda, questo capitolo fa un inventario “delle proposte politiche più caratteristiche” (pag. 215) che si trovano nella letteratura sulla decrescita, suddivise in sei percorsi.
Percorso n°1: Democratizzazione, economia solidale e commoning
L’obiettivo è rendere condivisa l’economia (commonization of the economy). Demercificare certe cose come lavoro, risorse naturali, scuole, ospedali e conoscenze, per gestirle in forma democratica seguendo il principio del “commoning”. I beni comuni come “pratiche sociali attraverso cui le comunità auto-organizzate governano beni, risorse o territori in base a regole e istituzioni auto-progettate” (social practices through which self-organized communities govern certain goods, resources, or territories, according to self-designed rules and institutions) (pag. 217).
L’idea dell’economia solidale (solidarity economy) si riferisce a “cooperative, e altre compagnie più piccole, orientate al bene comune” (pag. 219) che intraprendono attività commerciali basate sulla cooperazione invece che sulla competizione e che pongano lo scopo da perseguire al di sopra del profitto. Gli autori menzionano il caso austriaco dell’economia per il “buon bene comune” (economy for the good common good) come un esempio di “attività imprenditoriale orientata in senso socio-ecologico” (pag. 220).
La democrazia economica (Economic democracy) mira a “contenere e smantellare l’elevata concentrazione del potere economico in poche corporazioni” e “permette a tutti di partecipare alle attività economiche” (pag. 221). Questa comprende la re-municipalizzazione di servizi di base, come l’acqua e l’attività bancaria, e la riappropriazione delle imprese private in forme di proprietà collettiva. Tale approccio si basa sulla progettazione partecipata (participatory planning) in assemblee con più attori (multi-stakeholder) che seguono modelli come quelli della “economia partecipativa” (participatory economy) o del “confederalismo democratico” (democratic confederalism).
Percorso n°2: Sicurezza sociale, redistribuzione e limiti massimi su reddito e ricchezza
La proposta centrale è il ”permesso di autonomia incondizionata” (unconditional autonomy allowance) [Vincent Liegey et al.] che è un misto di reddito di base universale (nelle valute nazionali e/o in valute alternative) e di “servizi di base universali” (universal basic services) per garantire che beni e i servizi, come: alloggio, cibo, acqua, energia, trasporto locale e comunicazione (o qualsiasi altra cosa democraticamente stabilita come essenziale), sia messa a disposizione di tutti a prescindere dal potere d’acquisto.
In parallelo a queste “forniture di base garantite o reddito per tutti” la decrescita ha l’obiettivo di “tassare i ricchi con l’effetto di farli scomparire” (taxing the rich out of existence) (pag. 228) mediante limiti di reddito e di ricchezza (income and wealth caps) ed una più basilare “revisione del regime della proprietà privata” che restringe la proprietà della terra, abitazioni e proprietà intellettuale. Lo scopo è ottenere “una società più egualitaria e, di conseguenza, un modo di vivere basato sulla solidarietà che non trasgredisca i confini ecologici a livello globale” (a more egalitarian society, and thus a mode of living based on solidarity that does not transgress ecological boundaries globally) (pag. 228).
Percorso n°3: Convivialità e tecnologia democratica
La decrescita è “caratterizzata da una visione differenziata della tecnologia e dalla democratizzazione dello sviluppo tecnologico (per esempio, attraverso una moratoria sulla ricerca e sulle tecnologie ad alto rischio). La domanda che la decrescita pone come centrale è: “Quale tecnologia dovrebbe usare la società?” E per cosa, da chi, come e quanto di questa tecnologia? E chi decide? (pag. 229).
Il concetto centrale è la “tecnologia conviviale” (convivial technology) (ispirato a Tools for conviviality , “Strumenti per la convivialità,” di Ivan Illich) che gli autori definiscono in cinque valori centrali: “connessione” (connectedness) (promuovere relazioni sociali sane), “accessibilità” (accessibility) (uso libero e controllo autonomo), “adattabilità” (adaptability) (riparabilità e compatibilità con altri strumenti), “bio-interazione” (bio-interaction) (impatti sostenibili sul mondo vivente) e “appropriatezza” (appropriateness) (soddisfazione dei bisogni). In breve, lo sviluppo tecnologico dovrebbe essere orientato ai bisogni e non al mercato (Esempi di questi strumenti per la convivialità sono le tool-lending libraries [luoghi in cui possono essere chiesti in prestito degli utensili] i repair cafés [laboratori per la riparazione di oggetti], i do-it-yourself spaces [gli spazi per il fai da te], gli hacker spaces [laboratori di condivisione di tecnologie informatiche], i makerspaces (luoghi di condivisione di strumenti) e i fab labs [fabrication laboratories, servizi personalizzati di fabbricazione digitale]).
Percorso n° 4: Rivalorizzazione e redistribuzione del lavoro
La decrescita ha come scopo di trasformare in modo sostanziale il lavoro. L’agenda si può sintetizzare in una frase: “una radicale riduzione delle ore lavorative, senza che i lavoratori a basso reddito vedono ridotta la paga; la possibilità di accedere per tutti a lavori buoni, non alienanti e significativi; una valorizzazione del lavoro riproduttivo e di cura e la distribuzione di questo fra tutti; l’auto-determinazione collettiva sul posto di lavoro e, infine, il rafforzamento dei diritti dei lavoratori, e della loro autonomia, attraverso la fornitura di servizi di base, indipendentemente dall’impiego lavorativo delle persone” (pag. 232).
Lo scopo è quello di ridurre i bullshit jobs (lavori del “cavolo”) (che sono inutili) e i batshit jobs (lavori “da matto”) (che sono dannosi) e liberare il tempo per attività più significative. Si suggerisce una radicale riduzione delle ore di lavoro (ad esempio a 21 ore) e, in contemporanea, la valorizzazione dei redditi più bassi (lavorare di meno senza che vi sia un taglio nel guadagno dei lavoratori a basso reddito) e una redistribuzione del lavoro di cura tra le persone e tra i generi.
Percorso n°5: Democratizzare il metabolismo sociale
Democratizzare il metabolismo sociale (Democratising social metabolism) significa deliberare relativamente a ciò che dovrebbe crescere e ciò che, invece, dovrebbe decrescere. L’eliminazione graduale e l’espansione simultanea di differenti settori, tecnologie, uso delle risorse o attività economiche, non sarebbero più lasciati al mercato, alla competizione e ai prezzi (ma piuttosto) sarebbero deliberati democraticamente e politicamente a livello regionale, nazionale e globale” (pag. 238). I cittadini dovrebbero decidere, in tal modo, attraverso uno spirito di “auto-limitazione collettiva” (collective self-limitation), quali settori dovrebbero essere ridimensionati (gli autori nominano a riguardo: il carbone e il gas, l’aviazione, le automobili, l’industria delle armi e quella militare, la pubblicità, le attività di lobby, l’obsolescenza programmata, la moda veloce (fast fashion), la sicurezza alla frontiera, gran parte dell’industria della finanza e quella dell’allevamento degli animali), e quali settori, invece, dovrebbero essere ulteriormente sviluppati.
Per quanto riguarda le riduzioni, gli Autori menzionano alcuni strumenti come un limite massimo nell’uso delle risorse (considerando come priorità i consumi in eccesso dei ricchi), la moratoria per nuovi progetti di costruzione e le riforme ecologiche delle tasse. Chiedono anche l’appropriazione diretta dei mezzi di produzione chiave: “certe industrie dovrebbero essere espropriate e poi trasferite alla proprietà comune al fine di non ostacolare il cambiamento socio-ecologico” (certain industries must be expropriated and transferred to common ownership in order not to stand in the way of socio-ecological change) (pag. 243-44). Nel prendere controllo del posto di lavoro, le persone potrebbero decidere di smantellare alcune infrastrutture (miniere di carbone e impianti ad energia nucleare), e far retrocedere altre (industrie automobilistiche riconvertite in produzione di biciclette).
Percorso n° 6: Solidarietà internazionale
Il Nord globale deve vivere in modo semplice permettendo, in tal modo, che il Sud globale possa semplicemente vivere o, per metterla in un’altra forma: la decrescita nei paesi più ricchi per permettere una prosperità sostenibile nelle nazioni più povere. Per fare ciò, bisogna cancellare i debiti odiosi, dare supporto alle popolazioni indigene nella loro lotta per i diritti, riformare la proprietà delle terre proteggendo i mezzi di sussistenza dei contadini, retrocedere dall’agricoltura industriale, rimuovere le regole commerciali che non sono corrette e che vanno a svantaggio del Sud globale, organizzare trasferimenti finanziari, e tecnologici a compensazione dei debiti climatici, anche quelli causati dalle conseguenze del colonialismo, restringere i movimenti internazionali del capitale, creare un sistema monetario internazionale democratico, mettere un freno alle pratiche di accaparramento dei terreni e abolire le organizzazioni internazionali: come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale-FMI.
Capitolo 6: Rendere la decrescita reale
Dopo il Capitolo 4 sulla desiderabilità (desirability) della decrescita e il Capitolo 5, che riguarda la sua fattibilità, questo capitolo affronta la questione complicata della sua realizzabilità (achievability): come possiamo immaginare la trasformazione in una società della decrescita? Gli autori rispondono in tre passaggi – che seguono le tre logiche della trasformazione di Erik Olin Whright nel suo Envisioning real utopias (Immaginando vere utopie) – e che sono: l’interstiziale (interstitial), la simbiotica (symbiotic) e la rottura (ruptural).
Strategia n°1. “Utopie adesso“ (Nowtopias): spazi autonomi e laboratori per il vivere bene (good life)
Questa parte riguarda le strategie interstiziali (interstitial strategies), che sono iniziative che emergono all’interno delle crepe esistenti nelle istituzioni dominanti. Un esempio che si riporta è quello della Cooperativa Integral Catalana (CIC). “Le strategie interstiziali, come questa cooperativa, cercano di sperimentare nuove istituzioni, infrastrutture o forme di organizzazione. Sono laboratori in cui vengono sviluppate, intenzionalmente, nuove forme di pratiche che, in seguito, sono messe alla prova e praticate. Queste strategie emergono all’interno, e malgrado il vecchio sistema, prefigurando relazioni post-capitalistiche in scala ridotta” (pag. 256). Gli autori indicano anche le scuole estive della decrescita (degrowth Summer schools) e i climate camp come esempi che “offrono alle persone un’esperienza di stile di vita in comune, auto-determinato e sufficiente, che si esplica attraverso l’auto-organizzazione collettiva, il lavoro di cura condiviso e l’uso di sole energie rinnovabili e di toilette compostanti” (pag. 257). Altri esempi sono: “imprese collettive, agricoltura supportata dalla comunità, media alternativi, orti urbani, assistenza all’infanzia e scolarizzazione alternativa, cucine collettive e recupero del cibo, progetti per l’alloggiamento e l’accampamento, occupazioni, progetti energetici municipali, banche del tempo o valute regionali, repair cafés o open source hardware” (pag. 257).
Strategia n°2. Riforme non-riformiste: cambiare le istituzioni e le politiche
Il termine “riforme non-riformistiche” (non-reformist reform) è spesso associato a André Gorz (1923-2007) che ha differenziato tra riforme neo-capitalistiche, che mantengono solo il sistema in funzione, e riforme “non-riformiste” che coinvolgono più cambiamenti strutturali. Per esempio, un piccolo cambiamento nel salario minimo non apporterà grandi cambiamenti nel funzionamento quotidiano del capitalismo mentre, al contrario, se si riducesse la settimana lavorativa a tre giornate lavorative l’impatto sarebbe più dirompente. La stessa logica riguarda l’introduzione di una tassa radicalmente progressiva sulla ricchezza che utilizza il normale sistema di tassazione, ma con livelli che alterano radicalmente le dinamiche sociali. È una logica detta simbiotica (symbiotic) perché la trasformazione inizia dall’interno del sistema e si muove insieme al sistema. Sarebbe, quindi, possibile usare l’esistente infrastruttura politica per legalizzare le valute locali, permettere nuovi esperimenti dal basso e forse, alla fine, causare la trasformazione del sistema complessivo. È a questo punto che gli Autori si connettono al Green Deal europeo (Green New Deal for Europe) e al Green New Deal Globale (Global Green New Deal) considerandole iniziative alleate.
Strategia n°3. Contro-egemonia: sviluppare il potere della gente contro la crescita
La logica finale della trasformazione riguarda l’opporsi al sistema corrente. Gli Autori menzionano la tedesca Ende Gelände (che vuol dire qui e non oltre), che “è stata probabilmente la prima grande azione di disobbedienza civile a prendere luogo in stretta connessione con il movimento della decrescita”) (pag. 267), tra le altre ci sono il blocco dell’oleodotto North Dakota Pipeline, la resistenza dei contadini in Brasile contro l’industrializzazione dell’agricoltura, gli isolani indigeni del pacifico che hanno bloccato il trasporto via nave del carbone in Australia e, tra gli altri, innumerevoli movimenti di resistenza contro l’estrattivismo, l’aviazione, i megaprogetti e gli aggiustamenti strutturali. Queste azioni di disobbedienza civile – che Naomi Klein riunisce sotto il termine “blockadia” – aumentano la consapevolezza riguardo alle misfatte del capitalismo e creano uno spazio per immaginare un mondo dove la natura non venga trattata come un buffet all-you-can-eat. Uno spazio dove i mezzi di sussistenza dei cittadini del Sud globale non vengano sacrificati per il benessere di ricchi consumatori e dove la democrazia non sia calpestata dal potere delle lobby delle corporazioni transnazionali.
Capitolo 7: Il futuro della decrescita
Il capitolo ha una struttura più rilassata rispetto al resto del libro. Ci sono due messaggi principali che ho trovato importanti. Il primo è una riflessione sulla gestione della pandemia che viene considerata dagli autori come una forma parziale di decrescita. “Per supposizione, le politiche per combattere la pandemia possono essere interpretate come una chiusura (shutdown) deliberata e pianificata di gran parte dell’economia, allo scopo di perseguire il bene comune (appiattendo la curva al fine di salvare delle vite). Si effettua, in tal modo, una differenziazione tra settori ritenuti essenziali per l’approvvigionamento di beni e di servizi e quelli considerati meno essenziali. Per ottenere questa chiusura (shutdown) e ammortizzare i suoi effetti, i governi hanno introdotto politiche che da tempo si ritenevano impossibili. Hanno messo in aspettativa i lavoratori, hanno protetto i mezzi di sussistenza, hanno stabilito che gli aerei restassero a terra, hanno assicurato la conservazione dell’impiego attraverso permessi di lavoro a breve termine, hanno investito nella cura o sono intervenuti direttamente nel processo produttivo attraverso la nazionalizzazione delle aziende in crisi e delle strutture sanitarie o hanno pianificato la produzione di attrezzature sanitarie. Tutto ciò attraverso l’uso esclusivo del potere sovrano che è dato al governo nel creare denaro. Questi interventi, e molti altri di vasta portata, sono stati inizialmente sostenuti da larghe maggioranze e hanno condotto a (temporanee), ma significative, riduzioni nelle emissioni e nel consumo dei materiali.” (pag. 285–86).
Il secondo messaggio riguarda le lacune nella letteratura sulla decrescita e le “sfide importanti che sono solo affrontate in modo parziale nel libro.” Gli autori citano quattro di queste.
La prima riguarda la classe e la razza. All’interno della letteratura sulla decrescita, sostengono, “vi è una tendenza a concentrarsi soprattutto sulle questioni ecologiche in una prospettiva che non considera le classi sociali e che è focalizzata solo sui consumatori. Si minimizzano, in tal modo, le questioni sociali e ciò comporta una sostanziale depoliticizzazione della decrescita” (pag. 289). Sapendo che molte persone impegnate nel dibattito sulla decrescita sono bianche, provenienti da contesti socialmente privilegiati del Nord globale, gli Autori chiedono un miglior collegamento delle proposte alle lotte politiche in atto, come nel caso dell’affitto e dell’alloggio, dell’eliminazione graduale dei combustibili fossili, delle lotte femministe per il lavoro di cura e delle battaglie sindacali.
La seconda riguarda la geopolitica e l’imperialismo. “I sostenitori della decrescita non hanno adeguatamente affrontato le ramificazioni geopolitiche della transizione che immaginano. Queste includono la relazione tra crescita, stato, imperialismo e militarizzazione e gli effetti politico-economici che la decrescita avrebbe sulle relazioni internazionali e, in particolare, sulle comunità nel Sud globale” (pag. 291).
La terza riguarda la tecnologia dell’informazione. Qual è la relazione tra decrescita e digitalizzazione? E come potrà la transizione al capitalismo dell’informazione trasformare l’agenda della decrescita? Invece di rifiutare le tecnologie industriali in blocco, la decrescita “ha bisogno di analizzare in che modo la piattaforma informatica cooperativistica, che cerca di sforzarsi a creare qualcosa di nuovo – quindi le piattaforme di proprietà cooperativa che si creano per sostituire i social media, i quali sono for-profit e le piattaforme imprenditoriali – possano essere integrate nella visione della decrescita” (pag. 294).
Infine, gli Autori deplorano certi silenzi sulla pianificazione democratica. “La decrescita dovrebbe impegnarsi in modo più esplicito con la questione della pianificazione. Curiosamente, mentre ‘programmazione’ (planning), ‘progettazione’ (design) o ‘coordinamento’ (coordination) sono spesso menzionati nelle discussioni sulla decrescita, la realtà della pianificazione stessa – i suoi attori primari, sia essa centralizzata o decentralizzata, partecipativa o imposta – è raramente coinvolta” (pag. 295)
Conclusione
Il libro è notevole sotto molti aspetti e leggermente deludente per altri. Nella parte positiva, in contrasto alla solita “modalità incentrata sulla storia del pensiero della decrescita maschile” (male-focused story of degrowth thinking), gli autori hanno dato la meritata attenzione alle autrici donne. “La corrente femminile della decrescita è trascurata in molti resoconti sulla stessa. Questo perché le argomentazioni femministe hanno dovuto combattere in larga misura per essere riconosciute all’interno del dibattito sulla decrescita. Nonostante ciò, molti dei principali concetti della decrescita sono stati anticipati, fin dagli anni Settanta, dalla teoria economica e dalla critica femminista come anche dall’approccio sussistenza” (pag. 188).
Forse ho avuto troppe aspettative riguardo al Capitolo 4: Visioni, ma l’ho trovato infine un po’ troppo astratto. Concetti generali come la “giustizia ecologica”, la “giustizia sociale”, la ”auto-determinazione”, il “vivere bene” e l’ ”indipendenza dalla crescita” sono concetti potenti, ma come si traducono nella pratica? Con pratica intendo cose molto semplici come: organizzare la cura dei bambini, applicare uno schema pensionistico o creare una nuova attività. Queste sono questioni pratiche che hanno bisogno di risposte pratiche. (In difesa degli autori va considerato che gran parte di queste non esistono ancora, per ora, nella letteratura esistente, il che è una scusa abbastanza buona per spiegare perché non sono nel libro.).
Ho disperso una larga parte della mia (corta) carriera affrontando la questione della crescita verde. La letteratura sul disaccoppiamento é un “buco nero” di sottigliezze astratte e tecniche, con pochissimi approfondimenti che siano utili su come ridurre effettivamente le pressioni sull’ambiente. Gli Autori, saggiamente, fanno in modo di non essere risucchiati in questo dibattito e affermano che la questione del disaccoppiamento del PIL dalla natura è una questione alquanto assurda: “il punto, invece, è quello di muoversi verso un’economia in cui il benessere può aumentare e, al contempo, i danni ambientali diminuire velocemente. In tal modo, ci sarebbe un disaccoppiamento tra prosperità e impatto ecologico e, di conseguenza, anche tra prosperità e crescita economica” (pag. 92). Questo sarebbe notevole e spero che inspiri molti a smettere di perdere il proprio tempo a sezionare gli sciocchi modelli di alcuni economisti ecologicamente analfabeti.
Un’altra piccola delusione, questa volta riguarda il Capitolo 2: La crescita economica. Gli Autori non si impegnano per nulla ad affrontare le teorie neoclassiche della crescita. Detto ciò, neanche io l’ho fatto in The political economy of degrowth (La politica economica della decrescita). Avrebbe infatti richiesto un incredibile quantità di tempo con poca soddisfazione. Questa omissione, allo scopo di guadagnare del tempo è, forse, un’altra forma di assennatezza in quanto ci fa evitare di impantanarsi in un ambito che si è rivelato del tutto inutile per comprendere la crisi in cui siamo e il modo in cui uscirne fuori.
Riguardo al Capitolo 5: Percorsi verso la decrescita, avrei voluto vedere una più netta divisione tra fini e mezzi. In “Exploring degrowth proposals” (Esplorare le proposte per la decrescita) abbiamo cercato di organizzare la “cassetta degli attrezzi” della decrescita abbinando gli strumenti (mezzi) agli obiettivi (fini). Questo è difficile ma non impossibile. Se vogliamo che la decrescita diventi un quadro di riferimento utile per organizzare una giusta transizione, dobbiamo presentare le nostre proposte in una forma scomponibile e non in un pacchetto del tipo tutto o niente (all-or-nothing) (anche in questo caso è più facile a dirsi che a farsi).
In ogni caso, sono stato un po’ avaro. Gli Autori di “The Future is Degrowth: A Guide to a World beyond Capitalism” (Il futuro è la decrescita: una guida verso un mondo oltre il capitalismo) hanno già fatto molto e hanno prodotto un capolavoro che adesso è ufficialmente il mio libro preferito sul tema. Complimenti!
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[1] Matthias Schmelzer ha scritto la sua tesi di Dottorato (PhD): The Hegemony of Growth (2016) (L’egemonia della crescita) ha partecipato, in coedizione, ai libri: Degrowth in Movement(s) (2020) (La decrescita in movimento) e History of the Future of Economic Growth (2017) (La storia del futuro della crescita economica) ed è coautore di Research on degrowth (2018) (Ricerca sulla decrescita). Andrea Vetter è coautore (con Matthias) di Degrowth/Postwachstum zur Einführung (2019) (Decrescita/Postcrescita per un’introduzione), il libro su cui basa The Future is Degrowth (Il futuro è la decrescita) e ha pubblicato un notevole articolo sulla “decrescita e la tecnologia conviviale” (degrowth and convivial technology (2018) basato sulla tesi di Dottorato (PhD). Quest’ultima Autrice ha partecipato alla creazione del sito degrowth.info e (insieme a Matthias) ha organizzato numerose conferenze sulla decrescita. Aaron Vansintjan ha scritto la dissertazione di Dottorato-PhD sulla resistenza alla gentrificazione A piece of land is a piece of gold, 2020 (Un pezzo di terra è un pezzo d’oro) pubblicato in Giorgos Kallis’ In defense of degrowth (2018), (In difesa della decrescita) e ha, inoltre, pubblicato sull’argomento un considerevole numero di articoli online.
[2] Per più informazioni riguardanti la storia del Prodotto Interno Lordo (PIL): Gross Domestic Problem: The Politics Behind the World’s Most Powerful Number (2013), The Little Big Number: How GDP came to rule the world and what to do about it (2015), Mismeasuring our lives: Why GDP doesn’t add up (2010), Replacing GDP by 2030: Towards a Common Language for the Well-being and Sustainability Community (2019), GDP: A brief but affectionate history (2014), The Power of a Single Number: A Political History of GDP (2016), The Great Invention: The Story of GDP and the Making (and Unmaking) of the Modern World (2014).