di Sandro Moiso
“Mai pensare che la guerra, anche se giustificata, non sia un crimine” (Ernest Hemingway)
“Cosa preferiamo: la pace oppure star tranquilli con l’aria condizionata accesa tutta l’estate?” (Mario Draghi)
In tutte le guerre la prima a morire è la verità, così come hanno indirettamente dichiarato alcuni corrispondenti di guerra (qui) sulla falsariga di una ben più celebre e interessata frase di Winston Churchill (“in tempo di guerra la verità è così preziosa che dovrebbe essere circondata da un muro di bugie“), ma certamente il suo funerale è accompagnato dal trionfo dell’ipocrisia che la sostituisce con la propaganda intesa come unica fonte di informazione.
Il primo esempio di tale ipocrisia, forse il più importante e fuorviante, è proprio quello di voler definire, all’interno del ben più vasto crimine costituito dalla guerra, quelli che dovrebbero essere i crimini di guerra da addossare a qualcuno dei partecipanti a un conflitto. Una questione di lana caprina che trasforma le violenze odiose e i soprusi ignobili che accompagnano, inevitabilmente, i conflitti tra Stati e imperialismi in colpe specifiche di cui occorre accusare una delle parti in guerra. Possibilmente quella che la parte avversa spera destinata alla sconfitta.
Dalla prima guerra mondiale e dal congresso di Versailles e, in particolare, dal secondo dopoguerra in poi gli sconfitti del macello imperialista devono risultare colpevoli di “aggressione” e crimini indescrivibili, proprio per giustificare la parte svolta dei “buoni”, ovvero i vincitori, nel corso del conflitto. Motivo per cui la Germania, stato aggressore secondo i parametri individuati a Versailles nel corso del processo di risistemazione dei confini europei dopo il primo conflitto mondiale, fu condannata a pagare le riparazioni di guerra agli stati vincitori. Non importava se i generali di questi ultimi avevano mandato al macello, fatto fucilare o condannato alla follia milioni di giovani in divisa.
Dopo la seconda guerra mondiale furono i “criminali” di un’unica parte, quella sconfitta e nazista e possibilmente anche i più insignificanti sul piano politico ed economico, a sedere sui banchi del processo di Norimberga. Lo fecero rassegnati, spesso indossando occhiali scuri per nascondere gli occhi chiusi dei dormienti e degli annoiati, consapevoli che su quegli stessi banchi non avrebbero mai preso posto gli ideatori dei bombardamenti a tappeto sulle città tedesche, delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki oppure i generali sovietici che avevano mandato all’assalto le proprie fanterie senza alcun riguardo nel trattarle come autentica carne da cannone. La colpa doveva essere soltanto degli sconfitti. I buoni trionfavano, nelle ridefinizione del mondo e nell’immaginario.
Anche se a proprio in “casa” dei buoni alcuni dei principali esponenti dei cattivi avrebbero trovato riparo come scienziati (Wernher von Braun, ideatore delle V1 e V2 tedesche utilizzate per bombardare Londra e poi responsabile del primo programma spaziale americano), spie (tutti coloro che furono messi a capo di settori dei servizi occidentali nella Germania Ovest e in America Latina, dove avevano trovato rifugio, dopo aver accumulato “esperienze” negli apparati polizieschi e militari nazisti) e così via. Grazie anche all’aiutino fornito in molti casi dal Vaticano.
Già, crimini di guerra, ma solo quelli di una parte, e guai a sostenere, come fece Hemingway, che la guerra è un crimine in sé. Guai a sostenere che chi si oppone alla guerra, non si schiera, si dichiara antimilitarista, pacifista e antimperialista lo fa perché sa già in anticipo che la guerra porta con sé soltanto dolore, violenza, morte e distruzioni che ricadranno quasi sempre e principalmente sugli strati meno agiati della società, sulle donne, sui bambini, sui giovani, sugli anziani e sui lavoratori.
Domenico Quirico, in un testo già citato nella puntata precedente di questa serie di interventi sulla guerra, ha giustamente affermato:
Con leggerezza si parla della guerra, della sua necessità senza averne mai saggiato la pornografia della morte e la crudezza delle sue perversioni. Senza accorgersi che si lustra così la sua forza di attrazione, le si offre uno scopo, un senso, una dignità, una causa, un quarto di nobiltà. E’ un errore fatale1.
Spesso chi parla con troppa facilità e superficialità di “crimini di guerra” sembra voler far credere, oppure credere egli stesso, che esistano guerre pulite, senza ricadute sui civili. Ammaestrati da un immaginario cinematografico di stampo hollywoodiano in cui al massimo sono gli “eroi” a morire. Ignorano, i sostenitori della guerra pulita e intelligente, possibilmente democratica, che dal secondo conflitto mondiale e per tutta la seconda metà del secolo appena trascorso sono stati i civili a subire il maggior numero di perdite, violenze di ogni genere e patimenti. In un crescendo in cui dalla Palestina a tutto il Medio Oriente, dal Vietnam a tutte le tragedie asiatiche fino alle guerre balcaniche (di cui i media si dimenticano sempre, fingendo che prima della guerra in Ucraina non vi siano più state guerre sul territorio europeo fin dal 1945) e passando per le tragedie infinite del continente africano e del sub-continente latino-americano sono stati milioni i civili uccisi, mutilati, stuprati, torturati. Di ogni genere e età, ma non sempre appartenenza sociale, poiché in fondo alla scala stanno sempre i poveri, i lavoratori, i senza riserve. Vittime della violenza del capitale sia in guerra che in pace.
Se poi qualcuno osasse ricordare le bufale che accompagnarono la caduta di Ceausescu, senza per altro voler affatto difendere la sua dittatura personale, con i cadaveri tirati fuori dalle fosse per dimostrare una strage mai avvenuta a Timisoara nel 1989, oppure ricordare che sulle pagine del «Guardian», quotidiano britannico tutt’altro che filo-putiniano, sarebbe apparsa un’inchiesta in cui si rileverebbe che diverse vittime di Bucha sarebbero state abbattute da proiettili ucraini2 o, ancora, ricordare come tre ben noti salotti televisivi (Piazza Pulita, Controcorrente e Porta a porta) abbiano utilizzato immagini tratte da un videogioco per illustrare la “struttura inespugnabile” dei bunker sottostanti alle acciaierie Azovstal di Mariupol, allora apriti cielo e caccia all’untore filo-putiniano e creatore di fake news anti-occidentali.
Guai a dire che il diritto che riconosce la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali e imperiali è un diritto che non è tale, che è nato morto per disseminare la Morte in nome degli interessi nazionali, geopolitici e proprietari. Guai a dire soltanto che, anche nel contesto di un diritto internazionale segnato dal marchio di produzione capitalistico e borghese, chi invia armi ad un paese in guerra è cobelligerante di fatto. Tanto poi ci penserà la propaganda a spiegare che era inevitabile finire in guerra a causa dell’aggressività del nemico. E che le armi servono a disseminare la Pace. Anche quando, nelle parole di leader come Boris Johnson e dei media occidentali, non servono più a difendere la nazione “offesa”, ma ad aggredire e colpire l’ avversario. In casa, sul “suo” territorio.
Un “nemico odioso” che ci obbliga a scegliere tra il nostro meritato benessere e la rinuncia a qualche grado di fresco in estate e di caldo in inverno, mentre i nostri democratici governanti si arrovellano tra l’accontentare le richieste del socio di maggioranza a stelle strisce e le necessità, non della popolazione civile e reale, dei soci di minoranza (impresari, investitori, compagnie petrolifere e del gas, banchieri e finanzieri) che potrebbero subire gravi perdite nei loro interessi economici e manifatturieri.
Già, ma non chiamateli oligarchi. Loro no, loro sono altra cosa. Si nutrono di carne umana e di lavoro vivo, di prebende statali e interessi politico-mafiosi ma, non scherziamo, son mica russi!
Hanno giornali e televisioni, si son comprati giornalisti, intellettuali e politici di ogni risma, colore, sesso, età e origine sociale. Controllano il mercato azionario e delle materie prime, magari rivendendo le scorte accumulate ad altri paesi per approfittare degli alti prezzi causati dalla speculazione ancor prima che dalla guerra, ma no chiamateli oligarchi. No, magari squali e profittatori, come furono definiti dopo il primo conflitto interimperialista da coloro che seppero ribellarsi alla prima carneficina su scala mondiale.
Un “nemico odioso” che, nella vulgata propagandistica a favore della guerra, si annida in ogni Stato che non abbia accolto a braccia aperte la predicazione liberal-democratica troppo spesso associata al biancore della pelle e alla religione cristiana. Stati canaglia che perseguono interessi contrastanti con quelli del ricco Occidente. Nemici sicuramente nazionalisti, autoritari, fascisti e imperialisti e per questi motivi, appunto, non troppo diversi dai governi che ci vogliono armare in difesa dei propri interessi che qui, come nei paesi “nemici”, non coincidono mai con quelli della maggioranza della popolazione e della specie.
E non importa che i governi dei paesi democratici, come l’Italia, possano agire in piena libertà extra-costituzionale per fornire armi di ogni genere al novello alleato. Senza sentire la necessità di informare, almeno formalmente, quel parlamento che nella narrazione democratico-liberale dovrebbe costituire il cuore della democrazia rappresentativa. Ma non preoccupiamocene, poiché ogni guerra è stata dichiarata sempre sopra e oltre il dibattito parlamentare. La centralizzazione del potere riguarda anche, e forse soprattutto, questo: lo stato d’eccezione. E cosa può esserci di più eccezionale di una guerra, magari mondiale?
Motivo per cui anche il piagnisteo del pacifismo generico o di chi vorrebbe salvare almeno la facciata di sinistra di partiti scaduti da tempo, appartiene, in fin dei conti alla stessa ipocrisia. Quella che non denuncia mai le reali radici della guerra, delle mafie, della distruzione ambientale e sociale, dell’impoverimento e dello sfruttamento esercitato da una classe sociale ristretta sul resto dell’umanità.
Umanità che, soprattutto nel continente africano e in Medio Oriente, sarebbe condannata soltanto ora, secondo la vulgata ipocrita della propaganda di guerra, alla fame, a causa del conflitto scatenato dall’”odioso nemico” in Ucraina3. Minaccia cui la gestione capitalistica e imperiale dell’esistente intende rispondere con quelle scelte e tecnologie che proprio hanno contribuito a creare quella fame e quella povertà diffusa soprattutto in Africa. Magari suggerendo, proprio per l’Africa sub-sahariana, strategie innovative basate sulla digitalizzazione e il “miglioramento genetico” delle colture tradizionali4.
Umanità che non è più costituita da proletari o poveri, ma da “persone fragili”, in modo da disconoscerle qualsiasi caratteristica sociale riconducibile alle classi e ai loro conflitti nei confronti di una sempre più diseguale ripartizione delle ricchezze e delle risorse. Umanità che là dove alza la testa e si ribella al giogo infame dell’imperialismo, del sionismo e dei corrotti governi locali, non ha mai potuto usufruire dell’appoggio militare dei paesi che oggi foraggiano abbondantemente la “resistenza” ucraina. Umanità per la quale il presidente Mattarella non ha mai speso parole di elogio, non soltanto quando era sottosegretario alla Difesa ai tempi dei bombardamenti sulla Serbia e i Balcani. Umanità che quando si arma e resiste è definita dai nostri governanti come dagli altri governi occidentali non “resistente”, ma “terrorista”. Motivo per cui, a differenza degli “eroici” volontari che accorrono in difesa dell’Ucraina, non importa se nazisti o membri effettivi delle forze speciali americane e inglesi, quelli che vanno a combatter sul fronte del Rojava, pur in qualche modo riconosciuto dagli Occidentali in funzione anti-turca, al ritorno in patria devono sottostare a pesanti misure di sicurezza preventive. Come nel caso di Eddi Marcucci e tanti altri militanti italiani.
Affermazioni che nel loro insieme rendono evidente la necessità dello spaccio dell’ipocrisia trionfante, parafrasando l’eretico Giordano Bruno e la sua opera intitolata Spaccio de la Bestia trionfante (1584), opera filosofica di cui uno degli intenti principali resta fondamentale quello della polemica di Bruno contro la Riforma protestante, che agli occhi del Nolano rappresentava il punto più basso di un ciclo di degenerazione iniziato col cristianesimo. E in cui il termine “spaccio” sta per “cacciata”. Unica e definitiva degli antichi vizi che da secoli accompagnano la vulgata occidentale, razziale e cristiana del mondo.
(13 – continua)