di Francesco Festa
Gennaro Ascione, Untori, Magmata, Napoli, 2022, pp. 92, € 15,00
Dopo il De umbris idearum, in cui enuclea i fondamenti teorici della “nova filosofia”, Giordano Bruno pubblica Il Candelaio, una commedia in volgare. La scelta del volgare non è casuale. Dal 1583 al 1586, tra Parigi e Londra, il nolano pubblica anche i sei dialoghi italiani ma continua a scrivere opere in latino. Il che si spiega per una volontà politica, ossia la volontà di esprimere la sua filosofia con un linguaggio nuovo volto a comunicare con il “volgo”, dunque, lontano dal latino pedantesco adoperato nelle università e concatenato all’elitismo dell’universo aristotelico. D’altronde, i dialoghi filosofici come anche le commedie, Bruno li utilizza stravolgendone i canoni e inserendo elementi del dialogo nella commedia ed elementi teatrali; e di conseguenza ne rivoluziona le regole imposte dai grammatici ortodossi. Il rifiuto interno e la consapevolezza che un pensiero nuovo imponeva un linguaggio nuovo, lo spingeva a ricercare forme espressive corrispondenti al suo pensiero da tradurre in una lingua viva; e la scelta del volgare era in sé segno di vitalità, vivacità e di musicalità del suo idioma natìo.
Alla prima presentazione del romanzo Untori (Magmata, Napoli, pp. 92), presso lo spazio Dopolavoro culturale, all’interno del Monopolio – Laboratorio di Cultura popolare di Ariano Irpino (Av), l’autore Gennaro Ascione ha riconosciuto il debito verso Giordano Bruno, il filosofo arso vivo a Campo dei Fiori. Un debito che rievoca la sentenza del filosofo pronunciata alla modernità, tanto del potere statuale quanto del potere economico, che da quel 17 febbraio del 1600 giunge fino a noi: “Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam” (“Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell’ascoltarla”). È alla “ragion di Stato” e ai suoi dispositivi di “governo degli uomini” che si rivolge Bruno, a quei primi passaggi – secondo Michel Foucault – tali da costituire le strategie disciplinari dello Stato moderno. E con queste forme e strategie, seppur fra le righe, il libro di Ascione fa i conti.
Untori è un’opera costruita magistralmente sull’uso della lingua. Quale debito col nolano, l’autore dà vita a una “lingua nuova”: un melting pot di spagnolo, veneziano, napoletano e latino. Il libro è costruito seguendo dei ritmi musicali, con tempi lenti e di repente rapidi, e parole onomatopeiche in grado di accompagnare la lettura. È redatto come un amanuense trascriverebbe un testo, in maniera maniacale, proprio perché è la lingua o meglio il codice linguistico delle differenti lingue che conduce il lettore nel senso storico in cui si svolgono i fatti: è nella musicalità della lingua che entrano in scena i fatti.
Untori è difatti costruito come una pièce teatrale. Ed ecco il secondo debito di Ascione, ossia un debito con la tradizione del teatro napoletano, le cui radici risalgono suppergiù agli anni d’ambientazione del romanzo, fra il XV e il XVI secolo; sono le maschere teatrali cui si rifà l’autore che rimandano a quel teatro: sono i personaggi in grado di farsi beffa dell’intera classe politica e delle sue magagne solamente tramite l’ironia, denunciando la condizione del volgo, vessato dalle ingiustizie e soggetto alla fame e alla povertà. Insomma, il teatro come strumento di satira e lotta politica.
Da una parte, abbiamo la “lingua nuova”, dall’altra, il teatro. Sono i due attrezzi, fra i tanti della sua cassetta, adoperati nella scrittura di Untori. Il lettore viene così trasportato in epoca rinascimentale, nel Cinquecento, e in un luogo ben situato, la Napoli dei decumani e dei cardini, ma soprattutto la Napoli della stratificazione sociale e della distribuzione nello spazio urbano, che proprio in quel secolo trova la forte polarizzazione sociale perpetuatasi fino ad oggi, che corrisponde all’organizzazione residenziale, ossia i ricchi e poveri insediati negli stessi edifici (bassi e piani inferiori popolari, piani superiori nobili) o in strade adiacenti (borghesi e aristocratici nei larghi viali, classi popolari in stradine e vicoli perpendicolari a queste).
“Al risveglio mattutino senza pioggia in quella via, Pia Gargiulo, la comare, schiude il basso rabbuiato ai pié dell’arco monumentale. Mette il latte sopra al fuoco per la figlia e sbadiglia stropicciandosi le palpebre col polso. Lo strillone irriverente diffonde il nuovo editto per la cittadinanza viva: ‘Ormai è nota quasi a tutti la potenza trasmittibile del male ch’oltre a dita, mani, naso, bocca e gola, non risparmia il contagio per la via delle membrane tanto all’oculi che anale, anche al glande o vaginale. Caro popolo, non ti crucciare con dottori e sanitari se in principio, quando il morbo ha iniziato a mieter vite, ripetevano concordi ammonendo tutti quanti che era l’aria il sol vettore onde porre attenzione. Sicché voi, anime belle, avrete certo perdonate a miglior vita la gran parte delle strambe marachelle combinate all’insaputa… Ma per ora, poveracci non vi resta che di dar la testa al muro perché, pur senza saperlo, hate diffuso mortal morbo strofinandovi le mani tra l’ascelle e le dita dentro al culo!” (p. 3)
Il lettore si trova scaraventato in un incedere energico di vicende, fra la diffusione del morbo e la ricerca degli untori. La lettura è come un fiume in piena al disciogliersi delle nevi, reso vigoroso da mille rivoli ed affluenti con espressioni vernacolari, proverbi popolari, equivoci e colpi di scena, metafore oscene e figure retoriche, forme sintattiche esasperate, utilizzando tutti gli elementi della scrittura per esprimere la teatralità dei fatti storici.
La trama si articola nella ricerca degli “appestati”, i quali imprimono le mani rosso sangue sui portoni dei palazzi nobiliari in cui infettano donne e uomini che patiscono atroci sofferenze per poi morirne. I rimandi storici sono per certi versi espliciti a quanto vissuto negli ultimi anni di pandemia. L’investigazione dei gendarmi sui generis termina con un processo canzonatorio, deridente le paure e le fobie che un virus riverbera nei rapporti sociali. Il processo è a due “loschi figuri” dinanzi a Torquato Pere Lonc, “eloquente magistrato”, aduso all’uso di un misto di spagnolo, latino e napoletano, nella Chiesa dei Banchi di Giustizia, sita in “via dell’Anticaglia per via d’Atri”.
Il processo a nulla porta se non all’assoluzione dei due “figuri”. Ed è parabola di come la “ragion di Stato”, tramite l’uso strategico di emergenze e “stato di eccezione”, fungano da dispositivi di disciplinamento e governo delle popolazioni, fra poteri costituiti e poteri paralleli, laddove proprio il Leviatano non è in grado di contenere la potenza e la cooperazione delle donne e degli uomini liberi.
“C’è qualcun che vuol saper di Piazza e Mora? Vivi e vegeti; prosciolti dalla ruota.
Che boutade – a ben guardare – il clamore popolare: prima v’eran occhia centinaia incollati loro addosso con la brama di vederli consumati fino all’osso dal dolor de la sevizia; pochi istanti dopo, nessuno n’have a cuore più la sorte né domanda più loro notizia. Proprio adesso che la storia vera – se vi pare – inizia.
‘Ce la fai?’
‘Sì, ma sto uno schifo’.
‘Dopo il tramonto. Alla locanda del Glifo’.
Sogghigna torvi ormai solinghi i due furfanti. L’occhi lor accendon a vicenda un fosco fuoco al canticchiare complice di quel segreto carme che tramandano zelanti gl’iniziati ai riti torbidi della congrega antica cui appartengono, pestiferi, i venefici briganti.
Simmo malati e facimmo paura
E cu’a sputazza vulimmo infettàr!
Femmine, huommini, viecchie e creature…
La sterminiamo quest’umanità!
‘A sterminammo chest’umanità!
Eh, oh, ah ah ah ah!
Eh, oh, ah ah ah ah!” (p. 92)