Il Premio Nobel di quest’anno mette in luce il problema degli economisti con il colonialismo

Traduzione ed introduzione di Federico Arcuri.

Federico Arcuri frequenta il master di Ecologia Politica, Decrescita e Giustizia Ambientale dell’istituto di scienze e tecniche ambientali dell’Università Autonoma di Barcellona (ICTA-UAB). Fa parte dell’Associazione per la Decrescita ed è co-fondatore della Piattaforma per la Post-crescita dei Giovani Europeisti Verdi. Ha co-organizzato la conferenza Beyond Growth Italia 2024. Il suo background è in Studi Internazionali e Sinologia.  


L’ultimo articolo di Jostein Hauge su The Conversation sottolinea che la scelta del Premio Nobel per l’Economia di quest’anno evidenzia come la disciplina economica continui a evitare domande critiche rispetto a temi quali colonialismo, imperialismo e universalità delle istituzioni occidentali. Il lavoro di Acemoglu, Johnson e Robinson, celebrato per il legame tra istituzioni e sviluppo, ignora le eredità violente del colonialismo e glorifica senza riflettere i modelli occidentali. Come ci ricorda anche Jason Hickel, in un tweet degli ultimi giorni, le settler colonies europee come USA e Israele non prosperarono per merito di “istituzioni migliori”, ma grazie al sostegno attivo degli stati imperiali, integrate nei mercati centrali e risparmiate da politiche distruttive come gli Structural Adjustment Programs (SAPs) che devastarono il resto delle economie nazionali del Sud Globale. Questo riflette un fallimento più ampio della disciplina economica mainstream, che evita di interrogarsi sui rapporti di potere dietro le narrazioni di crescita. Per questo, è urgente promuovere approcci ‘anti-economicisti’ come decrescita e post-crescita, che sfidano l’ossessione per il la massimizzazione della rendita e mettono al centro la giustizia sociale e ambientale, decostruendo l’egemonia dei modelli economici occidentali.

Di seguito la traduzione dell’articolo completo.


Il 16 ottobre 2024, Daron Acemoglu, Simon Johnson e James Robinson hanno ricevuto il premio Nobel per l’economia per il loro lavoro sull’influenza delle istituzioni umane per lo sviluppo economico. Molti ritengono che questo riconoscimento fosse atteso da tempo, poiché la loro ricerca è tra le più citate in economia, e il loro libro Why Nations Fail ha avuto un impatto notevole. Questo lavoro ha stimolato un ricco dibattito sul legame tra le istituzioni sociali e lo sviluppo economico. Tuttavia, oltre agli elogi, sono anche arrivate critiche interessanti. Il punto centrale delle critiche riguarda il legame che gli autori stabiliscono tra la qualità delle istituzioni di un paese e il suo sviluppo economico. Nella loro analisi, le istituzioni si dividono in due categorie: “inclusive” ed “estrattive”.

Le istituzioni inclusive, come quelle che tutelano i diritti di proprietà, la democrazia e limitano la corruzione, favoriscono lo sviluppo economico, secondo i tre studiosi. Invece le istituzioni estrattive, caratterizzate da maggiore concentrazione del potere e scarsa libertà politica, concentrano le risorse nelle mani di una piccola élite, soffocando così lo sviluppo economico. Secondo i premiati, l’introduzione di istituzioni inclusive ha effetti positivi a lungo termine sulla prosperità economica, ed è proprio nei paesi ad alto reddito, soprattutto in Occidente, che queste istituzioni si trovano oggi.

Un grosso problema di questa analisi, però, è la pretesa che certe istituzioni siano una condizione necessaria per lo sviluppo economico.

Mushtaq Khan, professore di economia alla Soas, University of London, ha studiato a fondo il lavoro di Acemoglu, Johnson e Robinson, sostenendo che esso dimostra soprattutto che i paesi ad alto reddito odierni ottengono punteggi più alti negli indici istituzionali basati su criteri occidentali, ma non che lo sviluppo economico sia stato raggiunto grazie all’adozione precoce di istituzioni inclusive.

La storia offre infatti numerosi esempi di paesi che hanno registrato una crescita rapida senza avere queste istituzioni come prerequisito. Stati dell’Asia orientale come Singapore, Corea del Sud e Taiwan ne sono un buon esempio, così come, più recentemente, la Cina.

I libri di Yuen Yuen Ang, che analizzano il processo di sviluppo della Cina, mostrano nel dettaglio come il paese fosse caratterizzato da un alto tasso di corruzione durante il suo processo di crescita. In seguito all’assegnazione del Nobel di quest’anno, Ang ha affermato che la teoria dei premiati non solo non spiega la crescita in Cina, ma nemmeno quella dell’Occidente. Secondo Ang, ad esempio, anche le istituzioni degli Stati Uniti erano molto corrotte durante il processo di sviluppo del paese.

L’economia classica ignora la brutalità del colonialismo

Le nazioni non sbagliano nel cercare di creare alcune delle “istituzioni inclusive” delineate da Acemoglu, Johnson e Robinson. Tuttavia, un lato preoccupante della loro analisi è che essa finisce per legittimare la supremazia delle istituzioni occidentali e, nel peggiore dei casi, le dinamiche di imperialismo e colonialismo.

Il loro lavoro è stato infatti criticato per non dare importanza alla brutalità del colonialismo. Per capire meglio questa critica, è necessario approfondire i metodi dei tre economisti.

I premiati sostengono la loro tesi analizzando lo sviluppo a lungo termine delle colonie di insediamento [settler colonies, colonie in cui la popolazione del nuovo stato doveva sostituire la popolazione indigena, come USA e Australia] rispetto a quelle non di insediamento [le colonie in cui l’estrazione di risorse da colonia a centro imperiale era un interesse prioritario rispetto alla sostituzione della popolazione indigena locale]. Secondo gli autori, nelle colonie di insediamento – come gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia – gli europei avrebbero introdotto “istituzioni inclusive”. Nelle colonie non di insediamento, come molte parti dell’Africa e dell’America Latina, gli europei avrebbero introdotto “istituzioni estrattive”.

Secondo Acemoglu, Johnson e Robinson, le colonie di insediamento sono state caratterizzate, nel tempo, da una performance migliore. Da ciò, deducono che le istituzioni europee siano le migliori per lo facilitare lo sviluppo umano in una nazione.Tuttavia, considerando che il colonialismo è un elemento centrale della loro ricerca, è un mistero il motivo per cui i premiati non discutano più ampiamente i costi sociali del colonialismo.

Anche nelle colonie di insediamento, dove in seguito si sono sviluppate “istituzioni inclusive”, anni di violenza, in molti casi ai limiti del genocidio delle popolazioni indigene, hanno preceduto lo sviluppo di tali istituzioni. Non dovrebbe forse essere preso in considerazione questo aspetto nel processo di sviluppo?

Dopo aver ricevuto il premio, Acemoglu ha affermato che domande normative [valutative] sul colonialismo non erano di loro interesse: “Piuttosto che chiederci se il colonialismo sia buono o cattivo, notiamo che diverse strategie coloniali hanno portato a diversi modelli istituzionali, che sono persistiti nel tempo”.

Questa affermazione può sorprendere alcune persone: perché Acemoglu non si preoccupa di stabilire se il colonialismo sia giusto o sbagliato? Ma per chi conosce la disciplina economica, questa dichiarazione non è sorprendente. Purtroppo, è diventato un motivo di vanto nell’economia mainstream analizzare il mondo senza una lente normativa o giudizi di valore. Questo è un problema più ampio della disciplina, che spiega in parte perché l’economia sia diventata sempre più isolata e distante dalle altre scienze sociali.

Il premio Nobel per l’economia, che in realtà non faceva parte dei cinque premi Nobel originali, illustra anche questo problema. L’elenco dei vincitori passati è limitato in termini geografici e istituzionali, con economisti provenienti soprattutto da un numero ristretto di università d’élite negli Stati Uniti. Inoltre, uno studio recente ha rilevato che la concentrazione istituzionale e geografica dei premi in economia è molto più elevata rispetto ad altre discipline accademiche. Quasi tutti i vincitori dei principali premiati hanno attraversato una delle migliori università statunitensi (tra le migliori dieci) nel corso della loro carriera.

Il premio Nobel per l’economia di quest’anno non fa eccezione. Forse è per questo che ogni anno sembra che il premio venga assegnato a qualcuno che si chiede “come una variazione nella variabile X influisca sulla variabile Y”, piuttosto che affrontare domande difficili sul colonialismo, l’imperialismo o il capitalismo, mettendo in discussione la supremazia delle istituzioni occidentali.

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