L’intervista che state per leggere prosegue l’approfondimento dell’opera della scrittrice Veronica Tomassini, dopo la recensione del suo libro “Sangue di cane” (La Nave di Teseo, 2024) pubblicata il 13 novembre scorso.
Di Claudio Vitagliano per ComeDonChisciotte.org
Veronica Tomassini è un’autrice che vive tra noi umani. Probabilmente non ha mai deciso di essere una scrittrice, perché è chiaramente nata con le stimmate della letteratura. Scrittrice al servizio della verità dell’indole umana, lontana dal contesto intellettualistico italiano, essa vive la sua condizione nella anormalità di una natura che unisce in modo inusuale il grande talento ad una prassi di vita intrisa di quotidianità.
Fatto sta che leggendo le sue pagine non riusciamo a trattenere il nostro pensiero dallo spiccare il volo verso reminiscenze gravide di letteratura, nelle quali intravediamo con una certa insistenza il nome di Dostoevskij. Ciò sarebbe comunque attribuibile alla nostra inveterata abitudine a munirci di armatura ogni volta che ci addentriamo in territori sconosciuti. In fondo, cercare rive familiari per mettere a tacere la paura dell’ignoto è una tecnica umana di autoconservazione.
Verosimilmente la sua scrittura non ha precedenti. Una scrittura che porta dentro di sé i segni del caos senza pronunciarne mai il nome. Ogni cosa in essa avviene con la placidità di un bisbiglio o la brutalità di un grido, lasciandoci intuire, i segni premonitori della ineluttabilità del destino. Ma ciò che ha risvegliato con forza in noi la passione del lettore, oltre i temi trattati, sono lo stile, che essa stessa propone come carne e sangue della letteratura. I periodi da lei fissati sulla carta sono una parossistica sequenza di tempi e controtempi, che nella nostra intima cassa armonica trovano un’accoglienza senza precedenti. Dimentichi della noia che contraddistingue montagne di letteratura contemporanea, sentiamo il suo cuore guidare la mano, che in ossequio ad una anarchia consolidata, scrive libera, facendosi sorda al richiamo del business della cultura.
Veronica scrive per sé e quindi per tutti noi. Ed è forse, proprio questa sua spudoratezza nel calarsi senza riserve nella palpitante materia umana, che per assonanza riguarda il suo prossimo, a creare intorno a lei una sorta di vuoto, di cui la cultura ufficiale e la relativa industria sono le protagoniste. Riflettersi per riflettere è un esercizio che stride con i dettami della contemporaneità. Il suo spirito guida si chiama amore, ma forse ancor di più pietà, e questo è intollerabile in un’epoca di sentimenti preconfezionati e prenominati. Il mondo da lei esplorato, per quel che riguarda la trilogia slava almeno, è quello dei derelitti arrivati per lo più dai paesi dell’est, attirati dalle sirene di un nuovo eden, che si rivela invece un inferno in cui si riempie il carrello della spesa con l’illusione di colmare il vuoto esistenziale. Racconta le loro odissee quotidiane, nelle quali, arrivare vivi all’alba del giorno seguente è un’impresa probabile ma non scontata. Racconta in definitiva della vera natura della nostra indifferenza, che ci risparmia di vedere il dolore altrui, come se questo non fosse altro che il rimando dello stesso tormento che ci portiamo dentro.
Visti gli innumerevoli motivi che ci hanno resi ammiratori della sua opera, ci siamo decisi a chiederle un’intervista che lei con infinita gentilezza ci ha concesso.
Claudio Vitagliano (CV): Quando e come si è resa conto di essere una scrittrice?
Veronica Tomassini (VT): Il mio amore per le parole: credo sia stato un indizio. Il mio sguardo sul mondo, perfezionato dai fatti della vita che mi è accaduta così straordinaria, fuori dai ranghi direi. Le letture precoci, leggere Henry Miller a tredici anni ad esempio. Un tema scritto in quinta elementare sul tempo che passa. Le parole, ricordo, che affioravano misteriosamente e di gran lunga superiori alle mie poche consapevolezze. Ed è un mistero che si ripete ancora oggi, tutte le volte, le parole affiorano e sono di solito di gran lunga superiori alle mie poche conoscenze.
CV: Può raccontare la genesi della tua slavofilia?
VT: A 17 anni leggo Anna Karenina. Una folgorazione per i russi. Lessi tutto quel che offriva la biblioteca di mio padre. Tolstoj, Dostoevskij, Gogol, Gorkij. Puskin. Cechov. Isaak Babel. Mi iscrissi all’università, scelsi tra le complementari “storia della letteratura teatrale russa”. Per istinto o per amore. Poi la vita, gli incontri, confermarono l’assunto. Incontrai gli eroi capovolti di Gogol; la vita parossistica e disperata in cui ero precipitata con gli altri, meravigliosi “altri”, era il riflesso della pozzanghera mirgorodiana di Gogol. E ancora i film di Kusturica, sempre in bilico tra il riso e il pianto, un vagabondaggio poetico, circense e tragico, a mezzo tra Milos Forman e Fellini.
CV: Ha dichiarato che da ragazza è stata condizionata dalla lettura di “Christiane F. – Noi i ragazzi dello zoo di Berlino”. Più specificamente cosa l’ha segnata del romanzo?
VT: Leggendo il diario di Christiane Felscherinow a nove anni il mio sguardo è irrimediabilmente deragliato verso la debolezza, la fragilità, l’abiezione della caduta. Amavo tutto ciò nella creatura, il momento della caduta. Ne ero attratta e insieme turbata. Ascoltavo inoltre le canzoni di De André che considero salmi, o una narrazione evangelica e apocrifa. La mia vita ha militato nella poetica dell’errore dietro cui intercettare la possibilità dell’oltre a cui siamo destinati. Il mio sguardo da allora finiva pietosamente nelle ombre, dove gli altri lo toglievano. Perché per me cominciava la luce proprio dove per gli altri iniziavano le ombre.
CV: A quali altri autori è debitrice la sua prosa?
VT: I russi intanto, i nostri padri russi. Poi gli scrittori del neorealismo, Fenoglio, Pavese, Buzzati, Pratolini. Ho amato molto Moravia, Saul Bellow tra gli americani, anche se Bellow non lo era; l’incommensurabile “Herzog” di Bellow.
CV: E’ una scrittrice senza ripensamenti o torna più volte su ciò che ha scritto?
VT: Ogni mio romanzo è la prima stesura. Non c’è una revisione. Mai. Come si dice: buona la prima.
CV: In realtà la sua scrittura sembra sgorgare libera e imprevedibile. E così, oppure c’è a monte, magari solo in parte, un’architettura preordinata?
VT: Quando inizio a scrivere qualcosa non ho mai idea di dove andrò, cosa succederà. Le parole mi vengono in soccorso, sono migliori di me, trascuriamo tomi di parole, dizionari di raffinatissima eloquenza, 11 mila lemmi ignorati. Vorrei salvarne qualcuno.
CV: Scorrendo le sue pagine ci viene in mente il flusso di coscienza di Molly Bloom. Troppa fantasia?
VT: Il flusso di coscienza è in realtà la traduzione dell’anima che interroga il suo Dio. Forse il riassunto di tutto ciò che ho scritto è il riassunto di una preghiera. Senza saperlo, voglio dire. Sembrerebbe, per l’impeto che a tratti agita i testi.
CV: Annotiamo che è difficile leggerla riuscendo a stabilire il confine tra prosa e poesia.
VT: Mi è stato detto, i miei romanzi sono stati definiti “poemi in prosa”.
CV: A differenza di buona parte della letteratura contemporanea leggi e getta, i suoi scritti sembrano scolpiti nella pietra. Le capita di immaginare i suoi romanzi tra i classici, in un futuro non troppo remoto?
VT: Non saprei, posso augurarmelo, da qualche nome della critica “Sangue di cane” (appena rieditato per La nave di Teseo) è considerato già un classico.
CV: Nel suo caso l’esistenza si sovrappone alla scrittura ; in percentuale quanta corrispondenza c’è tra le due?
VT: La mia scrittura traduce la mia vita. Una collaborazione perfetta. Non voluta. Non so quanto l’una abbia deciso sull’altra. Un concorso stabilito a priori, a mio avviso. Possiamo chiamarlo destino.
CV: Tra le sue righe , si avverte l’aura del sacro. Quanta fede riversa nella sua prassi letteraria?
VT: La parola è Dio. Tutto riconduce a Lui. Ogni parola, ogni mio scritto, accade attraverso Lui. Il mio stesso sguardo è il dono di una pietà altrimenti sconosciuta. Una pietà che anticipa la cuna celestiale da cui proveniamo, l’Eterno Volto che non smettiamo di cercare.
Intervista di Claudio Vitagliano per ComeDonChisciotte.org
30.11.2024
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