Paolo Fusco, socio del circolo di Lucca, ha una ottima vena letteraria ed ha iniziato a scrivere dei bellissimi racconti che pubblicheremo con cadenza bimestrale sul nostro sito.
Lasciamo alle sue parole la presentazione dell’iniziativa. Suggeriamo anche ai soci di organizzare sui propri territori dei momenti di lettura e commento di questi racconti, poiché sono certamente fonte di interessanti suggestioni e riflessioni.
A Breve il primo racconto.
Presentazione della collana
Tra i pensatori considerati a loro modo “precursori” della decrescita, il mio interesse ultimamente si è concentrato in particolar modo su Ivan Illich. Devo ringraziare di questo l’amico Aldo Zanchetta, che lo conobbe personalmente e che da sempre si spende per divulgare il suo pensiero. La mia curiosità, nella mole enorme di temi affrontati da Illich, è stata presto attirata da quello che potrei definire “Illich narrativo”. Non nel senso che egli abbia affrontato questo genere (non mi risulta che lo abbia fatto), ma per la sua attenzione agli aspetti “narrativi” dei temi a cui si è dedicato. Questo mi riporta direttamente ad un altro dei pensatori che mi ha accompagnato sin da ragazzo, James Hillman, che nel suo Healing fiction (Le storie che curano) – il primo libro che ho letto di lui – sostiene con forza che l’Io si fonda sulla sua propria attività narrativa. «Il modo in cui raccontiamo la nostra vita è anche il modo in cui ci apprestiamo a viverla» vi si legge.
Illich nell’affrontare i temi scottanti della tecnologia, dell’istruzione, della sanità – solo per citarne alcuni – non manca mai di notare come spesso le storture di quello che ormai, almeno nella cultura occidentale, chiamiamo tutti “sistema”, passano appunto anche per disfunzioni narrative. In questo senso la narrazione che accompagna il mito della crescita è forse l’esempio più lampante. La crescita, nell’occidente sviluppista, è considerata un dogma. Non la si può mettere in discussione. Può rallentare, talvolta, subire degli scossoni, necessitare di assestamenti, talvolta bruschi, ma è scontato che sarà, comunque, infinita. Non solo: essa è sempre e comunque un bene. Si tratta senza dubbio di una narrazione forte, che in molti – coscientemente o meno – hanno alimentato e alimentano e che pochi, ahimè, sentono di dover mettere in discussione. Eppure se ci pensiamo bene, se trasferissimo questo mantra dell’occidente all’interno di una fiction, ci accorgeremmo presto di quanto noiosa sarebbe una trama siffatta. Di quanto poco interessante, avvincente potrebbe essere un racconto in cui le cose vanno sempre bene, anzi, sempre meglio. La realtà è ovviamente assai diversa. Tanto per cominciare, pare che nel racconto best-seller dell’occidente, ci si soffermi troppo smaccatamente su alcuni personaggi, tralasciandone altri. Siamo proprio sicuri che le cose vadano sempre meglio per tutti? Che il benessere non abbia un risvolto più controverso? La narrazione comincia a vacillare… C’è forse qualcuno a cui i sedicenti sceneggiatori di questo dramma non si sono degnati di dar voce. La stessa voce che, in ultima analisi, emerge dagli scritti di Illich. Ma se la malattia dell’occidente passa da una narrazione malata, perché non iniziare la cura proprio dalla narrativa (come direbbe Hillman)?
Questo, più o meno, è il modo in cui è nata l’idea di affrontare i temi della decrescita raccontando storie. Raccontando di un piccolo universo – un villaggio – dove si possa immaginare una narrazione diversa da quella scontata della crescita. Se gli spazi sconfinati di pianura possono a buon titolo rappresentare il mito della crescita infinita, dove non sembra esserci alcun limite a ciò che si può desiderare e realizzare, allora il villaggio in cui innalzare la bandiera della decrescita non può che essere un villaggio di montagna. Un luogo dove si è ben consci della finitezza delle proprie possibilità, dove la sintonia con l’ambiente circostante non è un vezzo o una moda, ma la prima fondamentale necessità. Un villaggio in cui si comprende bene il senso del limite (da qui il titolo), un villaggio a cui, appunto, i fondatori dettero il nome di Limite. Fuggendo dalla pianura, dopo guerre e carestie, forse pandemie (!) uno sparuto gruppo di folli visionari decise di tornare ad abitare un vecchio alpeggio, dando vita ad una comunità che oggi qualcuno definirebbe resiliente (o addirittura ecovillaggio, termine per certi versi assai disturbante). A distanza di decine di anni, altri profughi della crescita, fuggendo dalla pianura, col loro fardello di paure, luoghi comuni e stereotipi, si imbattono in questa strana comunità. Da questo incontro-scontro tra due mondi (e due narrazioni) nascono queste storie.
Lo scopo? Al momento, non quello di mostrare che un’altra via è possibile, ma solo che un’altra narrazione è possibile. Un domani, chissà…Utopia? Allo stato attuale delle cose, ovviamente sì. Ma la capacità di immaginazione è forse il primo ingrediente, il più importante, che deve essere stimolato affinchè un domani si possa creare davvero qualcosa di concreto. A questo proposito mi tornano in mente due frasi, la prima è di Adriano Olivetti, e riguarda proprio il termine utopia. Scrive Olivetti: «Il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità, o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande». La seconda è di Antoine de Saint-Exupery. «Se vuoi costruire una nave, non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato».