Già nel precedente articolo sullo stato dell’arte degli ospedali e sullo stato di salute degli operatori della sanità, avevo promesso di tracciare un report su come si sia arrivati alla situazione emergenziale odierna di collasso dovuta sì alla pandemia che ci ha colpiti alla sprovvista ma anche a delle enormi carenze strutturali e sociali.
Mi si perdoni la trattazione superficiale di argomenti quali la Costituzione della Repubblica Italiana.
Partiamo dalla definizione della parola “salute”. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) la salute è un diritto fondamentale dell’uomo ed è definita come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia“.
Sulle carenze dello stato nella tutela di aspetti quali il completo benessere fisico, psichico e sociale si esprime in maniera esaustiva, in una intervista del 2019, la Prof.ssa Francesca Biondi, Ordinaria di Diritto Costituzionale dell’Università Statale di Milano: “Per fare alcuni esempi, uno Stato che non si preoccupa di impedire le ludopatie, che non rende obbligatori, ma si limita solo a raccomandare, protocolli di screening per le patologie oncologiche, per il quale l’ambiente è uno dei più importanti valori da tutelare, ma non disincentiva seriamente i maggiori produttori di particolato, può essere davvero considerato un buon garante del diritto alla salute?”
Il Sistema Sanitario Nazionale, in epoca repubblicana, non è sempre stato come lo conosciamo oggi ma nel tempo ha subito una serie di trasformazioni e riforme.
Per ragioni di spazio sarò costretto a semplificare alcuni concetti e non entrerò nel merito di tutte le relazioni causa-effetto che hanno portato alle varie riforme, scelte politiche e tagli. Proverò a fornire solo alcune informazioni e spunti di riflessione. A chi volesse approfondire, suggerisco la lettura di questo ebook gratuito.
Già l’articolo 32 della Costituzione riconosceva la tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività ma, almeno per i primi vent’anni di storia repubblicana, un’ampia fetta di cittadini non ha goduto pienamente di questo diritto e vi erano delle profonde disuguaglianze.
Fino al 1978 era ancora in piedi un sistema basato sulle casse mutue di categoria, tra cui la più importante era l’INAM (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro le Malattie): un ente istituito in epoca fascista che tutelava esclusivamente la salute dei lavoratori e delle loro famiglie sulla base di un prelievo obbligatorio dalla busta paga. La salute era, di fatto, un privilegio di classe e le disuguaglianze sulla base del reddito erano lampanti. Ci si può fare un’idea guardando il film “Il medico della mutua” di Luigi Zampa del 1968 in cui Alberto Sordi interpreta il dottor Guido Tersilli, che trae spunto dall’omonimo romanzo dell’ex partigiano Giuseppe D’Agata sulle miserie della professione medica tradita dall’ambizione e dall’avidità; film che, utilizzando la metafora del “corpo come merce”, traccia una lucidissima inchiesta sul sistema sanitario nel secondo dopoguerra.
Nel 1958 viene finalmente istituito il Ministero della Sanità e nei dieci anni successivi lentamente gli ospedali si trasformano in enti pubblici.
Lo step successivo è la conquista più importante; oserei dire una rivoluzione. È lo stesso anno di un’altra grande conquista: la legge sull’aborto e sono infatti proprio quegli anni in cui, dopo una lunga stagione di lotte, i movimenti operai, studenteschi, femministi registrano delle importanti vittorie nelle lotte per i diritti sociali.
Con la legge 833 del 23 dicembre 1978 viene finalmente istituito il Sistema Sanitario Nazionale.
Questa legge è, a mio avviso, tra le più belle del nostro ordinamento in quanto, riconoscendo la salute come diritto dell’individuo ed interesse della collettività, sancisce tre principi fondamentali:
- l’universalità (ossia l’estensione delle prestazioni mediche e sanitarie a tutta la popolazione);
- l’uguaglianza (l’accesso alle cure senza nessuna discriminazione);
- l’equità (la parità di accesso in relazione a uguali bisogni di salute).
La Repubblica Italiana si dota così di quello che, almeno sulla carta, viene definito “il sistema sanitario più bello al mondo”.
Oltre a questi tre pilastri fondanti, inoltre, la legge ha otto obiettivi, tanto ambiziosi quanto fondamentali:
- la formazione di una moderna coscienza sanitaria sulla base di un’adeguata educazione sanitaria del cittadino e delle comunità;
- la prevenzione delle malattie e degli infortuni in ogni ambito di vita e di lavoro;
- la diagnosi e la cura degli eventi morbosi quali che ne siano le cause, la fenomenologia e la durata;
- la riabilitazione degli stati di invalidità e di inabilità somatica e psichica;
- la promozione e la salvaguardia della salubrità e dell’igiene dell’ambiente naturale di vita e di lavoro;
- l’igiene degli alimenti, delle bevande, dei prodotti e avanzi di origine animale per le implicazioni che attengono alla salute dell’uomo, nonché la prevenzione e la difesa sanitaria degli allevamenti animali ed il controllo della loro alimentazione integrata e medicata;
- una disciplina della sperimentazione, produzione, immissione in commercio e distribuzione dei farmaci e dell’informazione scientifica sugli stessi diretta ad assicurare l’efficacia terapeutica, la non nocività e la economicità del prodotto;
- la formazione professionale e permanente nonché l’aggiornamento scientifico culturale del personale del servizio sanitario nazionale.
Purtroppo, però, tale legge arriva in un periodo immediatamente successivo alla crisi finanziaria del ’73 e successiva inflazione, perciò la “rivoluzione” parte a rilento e stenta a decollare.
Gli investimenti pubblici indispensabili per uniformare gli standard qualitativi delle cure mediche su tutto il territorio nazionale vengono di volta in volta ridimensionati dalle manovre finanziarie che si susseguono negli anni; il complesso sistema ramificato di competenze decisionali a livello territoriale presenta delle falle e ben presto emerge che i costi sono spesso difficilmente controllabili, anche per via della separazione di poteri tra chi finanzia la spesa e chi la effettua, ossia Stato e Regioni. È così che inizia ad essere portata avanti una campagna denigratoria contro la spesa sanitaria che nel giro di pochi anni viene considerata eccessiva da larga parte dell’opinione pubblica. Ma è davvero così? La risposta è no! Se negli anni ’80 ci sono degli sprechi, questi riguardano la sanità solo in maniera marginale; la spesa pubblica per questa voce si aggirava, infatti, mediamente attorno al 6% del PIL (dati CENSIS).
Il 1992 è l’anno propizio per iniziare a smantellare il sistema sanitario pubblico gratuito, universalistico e d’eccellenza. Tra tangentopoli ed il mercoledì nero della finanza, l’opinione pubblica accusa la politica di sperperare il denaro pubblico attraverso la sanità. Di lì a poco arriva il decreto legislativo 502/92 il quale crea le “Aziende Sanitarie”, imponendo livelli di assistenza subordinati alle disponibilità finanziarie dello Stato, stabilisce le prestazioni che possono restare gratuite e quelle per le quali avremmo dovuto pagare. Da quel momento, se le singole regioni avessero voluto garantire più diritti ad i cittadini, avrebbero dovuto trovare fondi propri.
Semplificando, se per la legge 833 del 1978 i “livelli assistenziali” sono i diritti da uniformare su tutto il territorio nazionale affinché tutti i cittadini ne possano godere alla stessa maniera, per il decreto legislativo 502/92 (e successive modifiche) tali livelli sono il minimo che lo stato riesce a garantire di volta in volta a seconda delle sue risorse economiche ed eventualmente spetta alle singole regioni innalzare tali standard.
Com’era facilmente prevedibile, le regioni del settentrione, più industrializzate e più ricche, sviluppano una sanità di serie A lasciando indietro il meridione, i cui cittadini sono costretti a doversi accontentare di livelli assistenziali di serie B o spesso da terzo mondo, o dover fare i “turisti sanitari” al nord.
Ma accade un’altra cosa. La sanità italiana perde la sua umanità. Con l’aziendalizzazione delle strutture ospedaliere e delle ASL, tali aziende vengono messe in concorrenza tra loro e sono costrette a chiudere il proprio bilancio in positivo. In pratica, con la scusa del controllo della spesa, sono chiamate a generare profitto (da reinvestire nel potenziamento dell’azienda sanitaria, sia chiaro). Il meccanismo concorrenziale si basa sui DRG, ovvero dei rimborsi fissi per ciascuna procedura calcolati sulla base della complessità assistenziale. Come si fa ad ottimizzare i profitti in questo modo? Investendo il più possibile sulla iper-specializzazione, riducendo i costi di ciò che viene ritenuto “superfluo”, lavorando sotto organico con il personale, investendo i medici di ruoli manageriali che non dovrebbero competergli ed assegnando premi produttività legati al raggiungimento di obiettivi economici. Lasciare al cittadino la scelta della struttura presso la quale curarsi innesca dinamiche concorrenziali tipiche del liberismo.
Verrebbe da pensare che peggio di così non potrebbe andare e, invece, 7 anni dopo arriva la Legge Bindi che mette la sanità pubblica completamente in mano alle regioni. Il sistema diventa sempre più “ospedale-centrico”, depotenziando le cure di base, il rapporto con il territorio e tutto ciò che è legato alla prevenzione. I privati entrano a gamba tesa, accaparrandosi convenzioni per gran parte di quelle prestazioni per le quali il rapporto costo/DRG è vantaggioso in termini di guadagni e lasciando al pubblico quelle “in perdita”. Gli ospedali dimenticano del tutto la visione olistica del paziente ed il rapporto umano di cura, promuovendo calcoli basati sui “minuti assistenziali”, riducendo all’osso il personale medico, infermieristico, tecnico, ausiliario, bloccando il turn-over. I “bisogni” dei pazienti si sono trasformati in “fredde cifre”.
L’aziendalizzazione della Sanità Pubblica che ha portato alla trasformazione, anche dialettica, del diritto alla salute in “beni e servizi alla persona” e degli esseri umani bisognosi di cure da “pazienti” in “utenti”, a partire dalla legge delega 421 del 23 ottobre 1992, è stato il primo passo verso lo smantellamento di quel sistema universalistico fondato sull’equità.
Gli investimenti in Sanità sono stati ridotti drasticamente nel corso degli ultimi vent’anni, come viene descritto in questo articolo.
La situazione è drammatica anche rispetto ai nostri “vicini di casa”, come ci mostrano i dati OCSE.
Germania, Francia e Regno Unito, che sono i paesi europei che stanno dando la risposta sanitaria più adeguata a quest’emergenza, nel 2018 hanno registrato percentuali di spesa pubblica in sanità rispetto al Pil più alte delle nostre. Rispettivamente 9,5%, 9,3% e 7,5% contro il nostro 6%
Sempre in base ai dati Ocse, possiamo analizzare anche la spesa pro capite per il sistema sanitario nazionale italiano. Nel 2018, questa cifra si aggirava intorno ai 2.545 dollari (circa 2.326 euro). Germania (5.056 dollari), Francia (4.141 dollari) e Regno Unito (3.138 dollari) due anni fa spendevano più di noi.
In Italia c’è un infermiere impiegato ogni 5,8 abitanti contro l’uno ogni 8,5 della media europea.
Altri 2 dati sono allarmanti: Il primo è che oltre il 2% della popolazione residente in Italia ha segnalato “un bisogno sanitario non soddisfatto”. Ciò significa che vi è una discriminazione di tipo economico o geografico nell’accesso alle cure. Il secondo dato allarmante è che, tra crisi economica, aumento del ticket ed allungamento delle liste d’attesa, oltre il 23% della spesa sanitaria è direttamente a carico dei pazienti: quasi un quarto del totale!
Proprio dallo smantellamento della sanità pubblica voglio partire per ribadire che in questo momento storico va sovvertita la retorica dell’eroicità degli operatori e delle operatrici sanitarie. Non siamo eroi, non siamo in guerra e soprattutto non siamo soldati votati al sacrificio. Non stiamo difendendo alcun concetto di patria ma, anzi, stiamo difendendo proprio quei principi di uguaglianza, equità e universalità di cui sopra.
Se ci troviamo in questa situazione, e non che prima non ci fossero carenze di posti letto e cure, non è a causa solo del covid-19 ma di uno stato che ha scelto di disinvestire su un diritto fondamentale in favore di altre ragioni economiche e di profitto. Per il futuro dobbiamo assolutamente impedire la privatizzazione della sanità in nome di millantate “maggiori efficienze” e “maggior disponibilità economica per gli investimenti”. Se da qualche parte bisognerà scegliere di tagliare i finanziamenti, non dovrà essere sui diritti fondamentali quali la salute e l’istruzione, che devono restare pubbliche, gratuite, di alto livello e solidali.
Pertanto è il momento di ricordarci della situazione in cui versa ora la sanità italiana, perché quando le cose rallenteranno sarà il caso di mobilitarsi tutti e tutte insieme per la tutela e il welfare di chi lavora in tale sistema ma anche per la garanzia della nostra salute collettiva. I responsabili di questa crisi sono facilmente identificabili e di certo non è il coronavirus a cui delle nostre vite non interessa poi molto.
Il nostro compito ora è stare a casa e tutelarci l’un l’altro ma quando questo sarà finito non potremo fermarci ma dovremo lottare per riprenderci, con qualsiasi mezzo, i diritti che ci spettano.
Nel momento in cui finisco di scrivere questo articolo, sono 67 i medici caduti in Italia durante l’epidemia di Covid-19 e sono oltre 10000 le persone contagiate durante lo svolgimento del proprio lavoro nella sanità (quasi il 10% dei contagi totali). Qui la nota di denuncia dell’associazione medici ospedalieri.