Il “tempo nuovo” che incombe

La rivoluzione non è una mela che cade quando è matura. Devi farla cadere. (Ernesto Che Guevara)

Abbiamo da poco superato un mese dall’inizio della “quarantena nazionale”. Un mese terribile, di quelli che si ricorderanno a lungo: l’evoluzione del Covid-19 in pandemia globale, i lockdown che stanno immobilizzando mezzo mondo, la crisi economica, la mancanza di liquidità monetaria. E chissà come saranno i mesi a venire: maggio, e poi l’estate, e l’autunno in cui già si prefigura l’incubo di una nuova ondata. Questo testo è stato creato attorno ai dialoghi di una segregazione domestica che “concede” di contaminarsi a vicenda, vivendo ognuno le proprie dimensioni e le proprie routine attraverso la continua ricerca del ritorno al Comune.

Il problema del “tempo”

In questo shock tutto sembra essere sospeso, una realtà imbalsamata che sembra definire una nuova dimensione temporale, astorica e cristallizzata: “il tempo del Coronavirus”. Il nuovo sovrano, che decide della vita e della morte di milioni di persone, il demone che pare piombare improvvisamente dal passato remoto o, chissà, da qualche scheggia impazzita di futuro. L’agente del caos che scompagina, azzera e livella. L’essere alieno, capace di riportarci nel cuore del XIV secolo o di accelerare d’incanto il crollo del capitalismo.

Come diceva Jacques Le Goff, la concezione del tempo è perfettamente intrinseca alla struttura sociale e si modifica con essa. E così, il tempo del mercante che fa irruzione nel Basso Medioevo forgia la cultura materiale rompendo lentamente quel tempo della Chiesa che aveva regolato i ritmi vitali per quasi un millennio. Non esiste, dunque, un tempo che si isola dal flusso storico, un evento che si astrae dai processi. Ma questo flusso non è mai meccanico e il crono-schema “normalità-stato d’emergenza-ritorno alla normalità” è quanto di più deterministico si possa immaginare in un mondo che si è invece forgiato nella complessità.

“Il tempo del coronavirus” è un’astrazione, buona forse per dare un tono letterario a qualche nostro articolo, ma poco utile per tentare di immergere fino in fondo il nostro sguardo nella realtà odierna, dove l’abbraccio dialettico tra “tempo dell’emergenza” e “tempo della normalità” è forte come non mai. Le pandemie sono sempre state il prodotto delle organizzazioni socio-ecologiche che regolano il divenire della vita e della natura nel pianeta, la loro sfera produttiva e riproduttiva, i loro dispositivi di potere, sfruttamento, assoggettamento, i loro spazi di conflitto e liberazione. Non si può scindere la “Peste nera” dal commercio di larga scala del Trecento, la “Spagnola” dalla Prima Guerra Mondiale, il “Covid-19” dalla crisi climatica che segna la nostra era, quella del capitalocene.

Questa pandemia sta agendo da caleidoscopio, miscelando e amplificando le crisi preesistenti che, probabilmente, il sentire collettivo – ma spesso anche quello dei movimenti sociali – percepiva come elementi separati. Vale la pena, invece, recuperare e riattualizzare il concetto di crisi sistemica globale, forse in maniera ancora più profonda rispetto al 2008, quando per la prima volta il capitalismo contemporaneo si è trovato di fronte alla possibilità di non potersi riprodurre per l’eternità.

Ed è in questo contesto – dove tutto è inedito, ma allo stesso tempo “uguale” – che bisogna sovvertire sia l’emergenza che la normalità, perché è solo in questa rottura che può respirare un “tempo nuovo” che spazzi via quei “fenomeni morbosi” tipici di un interregno di gramsciana memoria.

Una crisi sistemica

Se c’è un legame diretto e misurabile tra quello che stiamo vivendo oggi e la “grande recessione” del 2008, questo lo si legge nella depredazione che il neoliberismo ha fatto delle public utilities, in primo luogo la sanità. In Italia, tra il 2007 e il 2017 il numero di posti letto in strutture di cura pubbliche o private accreditate è passato da 225.000 (4,3 per ogni mille abitanti) a 191.000 (3,6 per mille ab.); dato che diventa ancora più significativo se rapportato al 1998, anno in cui iniziano i primi grandi blocchi di privatizzazione, quando avevamo quasi il doppio di posti letto, ben 311.000 (5,8 per mille ab.)[1]. Una vera e propria tenaglia – che da un lato ha visto perennemente diminuire la spesa pubblica in ottemperanza alle politiche di austerità e dall’altro ha messo il Welfare al centro di una nuova accumulazione originaria – ha strangolato il diritto alla salute. Il collasso avvenuto poco dopo una settimana di emergenza sanitaria è spiegato, con pochi e semplici dati.

In generale, l’accesso differenziato ai beni e ai servizi pubblici, è il vettore del divenire sistemico di una crisi sanitaria. E questo lo spiegano le trasformazioni del sistema di welfare che ci sono state in Occidente, accelerate nell’ultimo decennio. Trasformazioni che hanno accompagnato la fine della società salariale e che hanno fatto diventare il “vecchio continente” uno dei principali laboratori di un processo di concentrazione di ricchezza e patrimoni che ha lasciato ampi strati della popolazione senza tutele e spesso in balia dell’indebitamento. 

In questa situazione il virus ha sprigionato la propria essenza di classe, come accaduto per qualsiasi evento storico di portata “eccezionale”. Ed ecco tornare in voga la simbologia della “scialuppa di salvataggio”, già ampiamente usata rispetto agli effetti della crisi ecologica, grazie alla quale vecchi e nuovi privilegi concorrono nel definire una sorta di “patente si sopravvivenza”. No, il virus non è democratico, o lo è molto meno di quanto voglia farci credere la narrazione mainstream. L’ecatombe verificatasi nelle case di riposo italiane, la mole di contagi che sta avvenendo nelle banlieue francesi, sproporzionata rispetto ad altre aree metropolitane, il boom di morti nei ghetti newyorkesi sono solo alcune delle immagini che descrivono le diseguaglianze in essere.

Ma è nella dimensione socio-economica e riproduttiva che il diseguale assume forme ancora più evidenti: il blocco dell’economia reale ha effetti sul lavoro vivo e non sui dispositivi della rendita; l’isolamento domestico può assumere caratteri perversi se letto nell’ottica della violenza patriarcale o può diventare addirittura un ossimoro se rapportato alle tantissime persone che non godono del diritto all’abitare.

Ed è proprio dentro queste contraddizioni che il capitalismo si rivela – al solito – un poema brutto, ma imperfetto. C’è un flusso vitale che non si spegne, che non riesce ad essere governato dai continui decreti d’emergenza né dall’isolamento forzato. E se è vero che questa primavera ha l’odore della morte e della sofferenza, è vero anche che questa non ha l’odore della fine e della rassegnazione. Nella rete non hanno circolato solo le immagini strazianti e angoscianti delle colonne militari cariche di salme, quelle delle città deserte in preda alla decadenza, ma anche nuovi legami sociali, piattaforme rivendicative e organizzative. Dalla rete si sono sviluppate le prime forme di mutualismo che hanno un portato estremamente politico perché riescono a ribaltare lo spazio e il tempo dell’emergenza prefigurando che un Welfare del comune si può fare, qui e ora.

Si coglie una consapevolezza sottile, ma diffusa: la situazione che stiamo vivendo è destinata a modificarsi, a diventare forse ancora più drammatica, ma non a sciamare consentendo alla governance di rinnovarsi senza pagare qualche conseguenza. Probabilmente siamo di fronte a qualcosa di molto più complesso di quel “capitalismo dei disastri” che Naomi Klein ci ha brillante descritto e che è stato un paradigma degli ultimi decenni. E qui entriamo in gioco noi, comunità, ribelli, animatori sociali, in una parola: i movimenti. E ricordiamocelo sempre che l’ontologia stessa dei movimenti è diametralmente opposta al senso di immobilismo, in qualsiasi situazione.

Il Dio-pan e la governance europea

Addentrandoci nella discussione, proviamo a fare un divertissement linguistico. Nonostante, infatti, il prefisso pan di pandemia derivi dal tutto ellenico, noi vogliamo richiamare un altro Pan, questa volta scritto con la maiuscola. Ci riferiamo al Dio Pan, che non è associato alle altre divinità olimpiche e celesti, ma che vive nell’elemento che gli è connaturato, quello boschivo. In età tardo antica Pan assurge a divinità naturalistica nella sua totalità, protettore della natura e capace di scatenare un enorme terrore – il panico appunto – in chi tentasse di intaccarla.

Non ce ne vogliano i filologi e i classicisti, ma è molto evocativa l’idea di pandemia associata al panico e alla natura. Si può leggerla come un meta-fenomeno che crea “panico” rispetto ai processi di ri-produzione della macchina del capitale, principale nemica della vita e della natura? Questa condizione oggettiva può aprire varchi per una messa in discussione – più che mai necessaria – del modello sociale, economico e politico su scala globale? E ancora: il panico si direziona dall’alto verso il basso o in senso inverso?

Chissà se sia stato proprio il panico a muovere le parole di Mario Draghi, in quella intervista al Financial Times diventata ormai cult dei giorni nostri. L’ex governatore della Banca Centrale Europea parla apertamente di “guerra”, unendosi tra l’altro al coro della militarizzazione del linguaggio istituzionale che sta imperversando in questa fase. Ma la cosa più interessante del suo discorso consiste nell’aver spalancato la strada a un nuovo dibattito sulla possibilità di incrementare il debito pubblico su scala europea, sfatando quel tabù che ha accompagnato gli anni in cui è stato alla guida dell’Eurotower.

Su questo bisogna fare molta chiarezza: le parole di Draghi hanno poco a che vedere con il superamento della gestione del debito come strumento di governamentalità politica. Il suo è stato, semmai, un furbo appello che mira alla salvaguardia di questo sistema. Nel momento in cui non viene messo in discussione il tratto costitutivo di questa Unione Europea, il Trattato di Maastricht, ogni dibattito economico rimarrà schiavo della diatriba tra “rigoristi” ed “espansionisti”, come già accaduto al tempo delle prime misure di Quantitative Easing varate proprio dallo stesso Draghi. Il compromesso tra i vari Stati membri dell’UE avvenuto durante l’ultima riunione dell’Eurogruppo – ossia il ricorso al Fondo Salva-Stati senza condizionalità – dimostra questa tesi. 

Il punto non è schierarsi in difesa dei Coronabond piuttosto che del Mes (posto che, come dice Andrea Fumagalli, i primi sarebbero più adeguati in un’ottica di circolazione di liquidità), ma di rompere “da sinistra” i vincoli di Maastricht e del patto di stabilità prima che lo si faccia da “destra”. L’incubo sovranista e reazionario è infatti dietro l’angolo e non più questa volta per un mero posizionamento ideologico, ma per una tenuta nel lungo periodo delle politiche di debito che potrebbero riproporre lo Stato nazione come soggetto di riferimento dell’azione politica e monetaria.

I movimenti e il nuovo patrimonio delle lotte

Emanciparsi da un lato da Maastricht, dall’altro dall’ipotesi “statalista” può essere fatto solamente aprendo un processo di integrazione europeo che si basi sulla riscrittura complessiva della cittadinanza all’interno dell’Unione, Non più dunque sulle politiche di rigore e piani di rientro dal debito che automaticamente comportano una corrosione della spesa pubblica. 

Un nuovo Welfare, una nuova politica fiscale che prenda risorse dai grandi patrimoni, che individui ad esempio nella digital tax uno degli strumenti per rompere i meccanismi forsennati di valorizzazione nel “capitalismo delle piattaforme”, che stanno crescendo a dismisura proprio in questa fase di lockdown. Un welfare femminista, slegato dai vincoli di sangue e di nascita, altamente redistributivo; un welfare realmente ecologista che rompa il grande bluff del green new deal, da molte parti considerato il perno di un nuovo “Piano Marshall” post pandemia.

Attenzione, non stiamo parlando di un piano rivendicativo che miri al ritorno del “pubblico” in senso novecentesco. Ma di un piano complessivo che metta al centro la gestione comune dell’intera produzione antropogenetica.

Non stiamo dicendo niente di nuovo, sia chiaro. Ma siamo certi che il dibattito sul presente e sul futuro dell’Europa non possa essere appannaggio della schiera di opinionisti che in questi giorni si affrettano a ingombrare il campo di analisi preconfezionate. È uno spazio che i movimenti necessitano di cogliere nella sua interezza, riannodando nell’attuale congiuntura le fila di tante lotte che negli ultimi anni sono state in grado di riscrivere un lessico e pratiche nuove, in particolare nella sfera riproduttiva. 

Le lotte contro la crisi climatica, contro il patriarcato e il razzismo non possono essere ascrivibili a singole “questioni”. Non esiste una “questione climatica”, una “questione femminista” o antirazzista, ma un intreccio che sedimenta secoli di sviluppo capitalistico in cui lo sfruttamento della natura nella sua totalità è andato di pari passo con la crescita delle diseguaglianze. Il patrimonio di queste lotte è fondamentale, anche perché si sono dipanate nello spazio globale senza soluzione di continuità, pur se con dinamiche di applicazione molto differenti tra loro. 

Quante volte ci siamo chiesti se fossimo all’altezza delle sfide di fase? Quante volte abbiamo evocato, immaginato o provato a costruire nuovi cicli conflittuali? Se c’è una cosa di differente nella sfida che si sta aprendo, è probabilmente una combinazione inedita tra i nuovi processi di soggettivazione, avvenuti negli ultimi anni, e la materialità delle condizioni storiche imposte dalla pandemia. In un tempo in cui, stando ai dati diffusi in questi giorni dall’agenzia ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro), nel 2020 potrebbero essere bruciati circa 25 milioni di posti di lavoro – una cifra simile se non superiore a quella avvenuta dopo la crisi del ‘29 – irrompe quasi con naturalità il tema della redistribuzione della ricchezza. Bisogna, però, stare attenti a non trattare anche questa come “una questione” sganciata dalle altre. 

Le possibilità che si stanno verificando, in particolare in Italia, sul tema/campagna del “reddito di quarantena verso il reddito universale” può essere un esempio. Lungi da essere una battaglia solamente vertenziale, la pretesa di un reddito oltre il lavoro sintetizza al meglio la necessità di riconoscersi in una battaglia di emancipazione complessiva, che vede l’attività umana – retribuita e non – parte di una cattura del lavoro-energia che il capitale applica all’intera biosfera.

Lo spazio digitale come campo di conflitto e organizzazione?

È scontato che i nessi strategici appena descritti non possono prescindere da un elemento concreto: il ribaltamento dei rapporti di forza, dimensione impensabile senza una corporeità che la situazione odierna sta negando. È vero anche che non possiamo glissare su quanto sta accadendo nella websfera.

Se il tempo dell’organizzazione è “qui e ora”, dobbiamo saper cogliere gli spazi nei quali operare e lavorare, comprendendo limiti e possibilità. La questione del digitale all’oggi, prende una centralità non più accantonabile nel dibattito (anche) di movimento perché pone interrogativi che devono saper sfuggire alle semplificazioni ideologiche.. Da un lato esiste una spazio vertenziale di cui già accennavamo e nella pretesa di una “digital tax” un elemento dirimente che ponga freno al furto di comune messo in atto dalle principali piattaforme. Dall’altro, lo spazio digitale mai come adesso investe direttamente il terreno dell’organizzazione, pone al centro il tema del potere e della democrazia, denota molte controversie, ma anche un enorme potenziale.

Non fraintendiamoci, non crediamo che la semplificazione della lotta da casa/dal pc, isolata e individuale, inneschi processi di soggettivazione sociale larga e, soprattutto, nel lungo periodo. Il rischio di riprodurre nel virtuale le liturgie a cui talvolta gli spazi di movimento ci hanno abituati in questi anni è sempre dietro l’angolo. Ma porsi delle domande e mettere a verifica ciò che stiamo costruendo soprattutto a non leggere con categorie ideologiche i processi che si stanno innescando.

Non andando a scomodare “Gezi Park” o le Primavere Arabe, primi esperimenti di organizzazione telematica utile ai processi reali, ma probabilmente quasi arcaici rispetto all’attuale livello dello sviluppo tecnologico. Tra gli esempi recenti più interessanti va annoverato senza dubbio quello francese dei gilets jaunes.

Il “metodo giallo”, per dirla all’italiana, si inserisce perfettamente nei nodi affrontati fino ad ora. Coglie l’elemento di intersezione dei piani di lotta e affronta in maniera innovativa il tema della democrazia e del potere, della soggettivazione di classe a partire da composizioni sociali articolate e storicamente poco sindacalizzate. Ma soprattutto è riuscito a costruire una dialettica virtuosa tra le reti virtuali e quelle reali, capace di operare sul terreno dello scontro l’equilibrio tra l’uso della forza e della contrattazione sindacale, dalle pratiche sociali di blocco estese e dell’universalizzazione dello sciopero. Una dialettica che è riuscita a porre con forza e in maniera duratura quel legame tra giustizia sociale e giustizia climatica, necessario per aprire processi costituenti in una fase come questa.

Cerchiamo dunque di recuperare fino in fondo quella sana visione marxiana che mette gli strumenti a disposizione delle lotte e non viceversa. Una cosa non facile, perché lo spazio digitale non è un mero strumento, ma è intrinsecamente un campo di valorizzazione e conflitto. Ma in questo momento abbiamo maledettamente bisogno di visioni, spinti proprio da quella necessità che può diventare virtù.


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