- di Fabio Ciabatti
Marco Gatto, Fredric Jameson, Futura Editrice, Roma 2022, pp. 192, € 14,25
Recentemente Fredric Jameson ha fatto una interessante puntualizzazione su quella che è probabilmente la più citata delle sue affermazioni: “quando ho detto che è più difficile immaginare la fine del capitalismo che la fine del mondo, non volevo certo intendere che fosse impossibile”. Questa presa di posizione può essere letta come una precisazione relativa ai possibili esiti della sua celebre analisi sul postmodernismo che sembrerebbe depotenziare le istanze critiche presenti nei suoi precedenti lavori incentrati sulla produzione culturale moderna e modernista. La citazione conclude la prefazione, firmata dallo stesso critico americano, al testo di Marco Gatto, intitolato Fredric Jameson.1 Il libro ripercorre sinteticamente le fasi più rilevanti dell’avventura intellettuale di un autore capace di produrre testi fondamentali, in ambito marxista e non solo, come Marxismo e forma, L’inconscio politico e Postmodernismo. Opere in cui si sostanzia “l’esperimento materialista di Jameson” che, sintetizza Gatto, consiste nello “sforzo di capire il presente attraverso le forme e le rappresentazioni dell’immaginario”.2
Il senso ultimo di una lettura dialettica dei fenomeni culturali consiste, secondo Jameson, nel mettere in luce la relazione profonda che essi intrattengono con una storia che li contiene e surclassa. Cosa accade a questo approccio, quando, con l’avvento del postmodernismo, possiamo sostenere, utilizzando la formula suggerita da Marco Gatto, che la spazialità sostituisce la temporalità? In questo articolo si cercherà di ritagliare un percorso di lettura attraverso il testo di Gatto per abbozzare una risposta a questa domanda, cercando di non fare torto alla densità concettuale della sua ricostruzione di un percorso intellettuale quanto mai complesso.
Possiamo iniziare col notare che, nel mettere in relazione storia e immaginario, Jameson combatte su due fronti. Da una parte, contro la riduzione della realtà a linguaggio, pone l’accento sul contenuto storico-materiale dell’opera d’arte, sottolineando che un’adeguata descrizione dell’evoluzione letteraria sia possibile a condizione che “il contenuto, materiale grezzo disponibile, non sia visto soltanto come cianfrusaglia inerte, ma come ciò che favorisce o impedisce lo sviluppo della forma letteraria che ne fa uso”.3 Dall’altra parte, la sua “metodologia dialettica [è] capace di demistificare la tendenza, propria di certo marxismo, a scorgere una relazione omologica, e dannosamente statica, tra il testo e la realtà storica”.4 In breve, il testo letterario non è mero riflesso di una realtà sottostante, ma “atto simbolico” che elabora attivamente quella stessa realtà.
La natura dell’atto simbolico non è manifesta, ma va ricostruita attraverso l’interpretazione che “presuppone sempre, per Jameson, l’esistenza di una ‘mistificazione’ o di una ‘rimozione’ da ricondurre a una qualche pratica intellettuale di contenimento”.5 La ricostruzione dei nessi tra atto simbolico e materiale grezzo evidenzia la necessità di concepire l’oggetto testuale come una sorta di freudiana “formazione di compromesso” che dissimula la relazione implicita del testo stesso con una totalità più ampia. Una relazione che occorre recuperare in sede analitica, scardinando la pretesa autonomia dell’opera d’arte.
Ciò avviene nell’ambito di tre orizzonti interpretativi che ampliano progressivamente il contesto di riferimento. Il testo letterario si costruisce come “risoluzione immaginaria di una contraddizione reale” nell’ambito della storia politica di breve periodo, come frammento dei grandi discorsi collettivi di classe nell’ambito dello scontro tra questi soggetti collettivi, come campo di forze attraversato dalle tensioni determinate dai distinti sistemi di segni che corrispondono univocamente a ciascuno dei differenti modi di produzione (quello egemonico e quelli arcaici, residuali o emergenti) simultaneamente presenti in un dato momento storico.
Occorre sottolineare che per Jameson la critica letteraria non può limitarsi esclusivamente alla demistificazione.
Il testo certamente produce il riflesso di una direzione ideologica o il rispecchiamento di certi valori dominanti. Ma la sua azione simbolica non può esaurirsi nell’aderenza passiva a certe precondizioni. Come abbiamo già detto, il fatto estetico è una risposta; e di per sé ciò implica un contrasto o un’elaborazione potenzialmente imprevedibili.6
Jameson, per essere ancora più chiari,
senza rinunciare alla critica demistificante, insiste sulla costruzione di un senso condiviso e di una collettività nuova, diversa. Non è un caso che L’inconscio politico si chiuda con un richiamo all’utopia.7
A questo punto torniamo alla questione sollevata all’inizio per notare che è proprio questo impulso utopico che non sembra più rintracciabile nell’epoca postmoderna, così come descritta dallo stesso Jameson. La dimensione storica, che apre all’utopia, appare infatti congelata quando una spazialità priva di barriere e confini si presenta come la cifra dominante della nostra epoca: con la globalizzazione del capitale e la mondializzazione del web il postmodernismo sembrerebbe annunciare la fine della storia. Il capitale, data la sua intrinseca tendenza all’accumulazione senza fine, si caratterizza da sempre come un progetto, benché portato avanti da un soggetto non antropomorfo, finalizzato a riplasmare il mondo intero a sua immagine e somiglianza. Il capitale, detto altrimenti, è da sempre una totalità in costruzione, ma in epoca postmoderna ambisce a presentarsi come una totalità già compiuta.
Lo spazio totalizzante del capitale contemporaneo è contrassegnato dalla molteplicità e dalla frammentazione con la conseguente disgregazione delle forme collettive e condivise di vita sociale e culturale. Ogni insieme umano diventa un aggregato provvisorio, un surrogato di comunità, un volubile sciame digitale. Non va meglio all’ego borghese moderno perché il postmodernismo ne decreta la fine annullando l’esperienza come acquisizione progressiva di conoscenza. L’individuo postmoderno, potremmo dire, non ha più una storia e men che meno una storia che possa essere raccontata come un romanzo di formazione. L’individuo si muove, per così dire, soltanto in orizzontale attraversando l’“iperspazio” postmoderno con fluidità, apparentemente senza traumi, accumulando esperienze effimere incapaci di consolidarsi come tappe di un qualche tipo di sviluppo che procede per gradi.
Tutto ciò non può essere disgiunto da un processo di mercificazione sempre più pervasiva che approfondisce una tendenza propria della modernità capitalistica, ma con una significativa differenza: la produzione estetica si è oramai integrata nella produzione di merci in generale. Ciò contribuisce a generare l’illusione ottica di una totalizzazione culturale onnipervasiva. Se tutto diventa cultura, i rapporti tra struttura e sovrastruttura, tra natura e cultura, tra corpo e mente si trasformano in un modo profondamente disorientante.
Il disorientamento, però, non giunge ai suoi esiti estremi perché la suadente brillantezza della merce, che satura lo spazio postmoderno, promette un risarcimento edonistico all’individuo spaesato e favorisce una forma di euforia compensatoria al soggetto che ha smarrito sé stesso. A prevalere è dunque una nuova tonalità emotiva ilare e leggera, grazie al dominio dell’immagine sulla parola, dell’apparenza epidermica sul fondamento concreto, del simulacro sull’oggetto reale e della superficialità sulla profondità.
Ma condannare moralisticamente il postmodernismo non avrebbe alcun senso per Jameson. E’ necessario piuttosto mettere in evidenza il nodo politico che esso pone: l’estrema difficoltà di rappresentare filosoficamente la realtà postmoderna in modo sistematico. Per usare direttamente le parole di Jameson, oggi ci troviamo di fronte alla “incapacità delle nostre menti, almeno al presente, di tracciare una mappa della grande rete comunicazionale, globale, multinazionale e decentrata, nella quale ci troviamo impigliati in quanto soggetti individuali”.8 Detto altrimenti, il postmodernismo oppone una sostanziale “resistenza ideologica nei confronti del concetto di totalità”.9
Per un pensiero dialettico non è però possibile rinunciare a una qualche rappresentazione della totalità. Senza di essa non si dà la possibilità di pensare fino in fondo le contraddizioni fondamentali del proprio tempo e dunque la capacità di immaginare un futuro realmente diverso che sia in grado di superarle. Senza totalità non si dà utopia. Per dirla con le parole di Marco Gatto, per Jameson “Pensare la totalità (e rappresentarla) significa considerare il punto di vista sul presente scatenato da una dimensione superiore, che è quella del futuro (e delle sue possibilità)”.10
Non sorprende dunque che dopo Postmodernismo Jameson torni sull’utopia. Come aveva già sostenuto, ogni coscienza di classe, ogni ideologia in senso forte è per sua stessa natura utopistica perché esperienza e coscienza, nella lotta, dell’unità di un determinato gruppo sociale che rimanda, anche se solo allegoricamente, alla possibilità di una concreta vita collettiva in una società senza classi. Perciò, anche al di là dell’esplicito impegno alla realizzazione di un programma utopico, è possibile rintracciare una pulsione utopica oscura ma onnipresente che trova modo di affiorare in superficie in tante forme ed espressioni camuffate. Per esempio, ricorda Jameson, gli spazi utopici sono descrivibili come “un’oasi territoriale immaginaria all’interno dello spazio sociale reale”.11 La differenziazione spaziale e sociale tipica della frammentazione postmoderna non spinge in una direzione simile? Detto altrimenti, una quantità di sottosistemi originariamente semiautonomi, i distinti livelli sociali definiti in termini culturali, religiosi, razziali, di genere ecc., non sono forse portati a rivendicare la propria immaginaria autonomia? A ritagliarsi, cioè, una nicchia utopica che si pretende al riparo dallo spazio sociale reale?
L’ideologia, insomma, è una pratica narrativa che permette al soggetto di sperimentare una serie di vive e reali contraddizioni attribuendo loro una qualche forma, seppur embrionale, di significato condiviso. Questa necessità non viene meno nel tardo capitalismo ma la sua soddisfazione è tutt’altro che scontata perché il sistema ideologico postmodernista lavora alla produzione di “un individuo privo di ancoraggio spazio-temporale e dunque disorientato anche e soprattutto sul piano ideologico-rappresentazionale”.12 La contraddizione, motore della storia, non viene risolta ma addomesticata attraverso strategie di contenimento. Il tutto si gioca, potremmo dire, sulla capacità del sistema di continuare a offrire con sufficiente persuasività quelle compensazioni edonistiche e euforiche che danno espressione a una nuova e contraddittoria idea di libertà: una libertà “fondata su un’accettata costrizione a esprimersi, esporsi, rappresentarsi”13 dietro la quale, però, si può rintracciare “una gratificazione utopica che straripa dalla repressione in atto”.14
Ma, ci chiediamo, la tonalità emotiva ilare e leggera del postmodernismo può sopravvivere in un periodo contrassegnato da lockdown e razionamenti? Negli anni ruggenti della globalizzazione, della finanziarizzazione e della digitalizzazione abbiamo assistito ad un crescita economica che, sebbene fragile, era reale e come tale poteva puntellare i toni entusiastici dell’ideologia postmodernista. Oggi i nodi vengono al pettine perché pandemie e guerre non sono fattori esterni, ma l’esito di contraddizioni interne allo sviluppo del tardo capitalismo. Di fronte alla malattia e ai bombardamenti la materialità dei corpi riemerge alla faccia della pretesa della loro completa culturalizzazione, la fisicità delle fonti energetiche e delle relative infrastrutture di trasporto si fa beffe della pretesa smaterializzazione dell’economia digitale. Con questo, però, non vogliamo sostenere che siamo fuori dal postmoderno. La molteplicità, la frammentazione e lo spaesamento segnano ancora la nostra esperienza anche se la tonalità emotiva dominante si fa, per così dire, bipolare: di fronte allo sradicamento degli individui la compensazione euforica si alterna con una di segno opposto che dà sfogo a passioni tristi e rancorose.
In questo contesto rimane prezioso l’approccio dialettico di Jameson che, assumendo la frammentazione del postmoderno, rifiuta di farsi sistema, ma senza rinunciare a una rappresentazione della totalità. A tal fine, non si tratta semplicemente di rinviare alla determinazione in ultima istanza della marxiana struttura, operazione che comunque continua ad avere una sua valida ragion d’essere per il critico americano. Occorre piuttosto, riprendendo la lezione di Benjamin, rispondere alla frammentazione postmoderna con “uno studio specifico del ‘fatto in sé’ … e della sua ricchezza, capace di cogliere, nella datità singolare del testo o del fenomeno preso in esame, sia il momento generale della produzione sia quello individuale della rappresentazione (base e sovrastruttura, insieme; nel loro contraddittorio dualismo)”.15 Potremmo azzardare l’ipotesi che le immagini dialettiche di cui parla il filosofo berlinese possono rappresentare i nodi di quella mappa concettuale invocata da Jameson per ricostruire una qualche rappresentazione, o forse sarebbe meglio dire approssimazione, della totalità. Una costellazione di fattori concreti e fenomeni interrelati.
Diversamente dalle sue origini, la dialettica stessa deve essere concepita “in termini utopici, come una modalità di pensiero del futuro”,16 sempre provvisoria e costitutivamente irrealizzabile. Erede del pensiero moderno e delle sue ambizioni deve fare i conti con un nuovo contesto storico in cui
non è certo la descrizione di Marx dell’‘essenza’ del capitalismo a essere cambiata (e neppure la descrizione delle ‘determinazioni’ del pensiero approntata da Hegel), quanto piuttosto, a essere precisi, quell’‘apparenza oggettiva’ del mondo del capitalismo globale che sembra parecchio lontana dalla vita esteriore del periodo vittoriano o del nascente modernismo vissuto da Marx”.17
Pensiero della totalità che non vuole farsi sistema, metodo che non vuole trasformarsi in automatismo, la dialettica di Jameson non ci offre facili vie di fuga dallo scintillante pantano del postmoderno. Di sicuro ci invita ad abbandonare molte delle certezze che, nel bene e nel male, avevano dato forza e attrattiva a una vera e propria visione del mondo che si voleva alternativa totalizzante a quella dominante. Ma, con altrettanta certezza, mantiene una vocazione rivoluzionaria aiutandoci a immaginare una possibile fine del capitalismo perché, come sostiene Marco Gatto in conclusione del suo volume, non rinuncia mai al compito “di mostrare la disintegrazione laddove sussista l’unità e l’unità laddove sembri profilarsi un confuso paesaggio di rovine”.18