Ad inizio luglio 2024, insieme ad un gruppo internazionale di compagnə, ho avuto modo di passare otto giorni in Palestina. Più precisamente in Cisgiordania, visitando Ramallah, Hebron, Jenin, Nablus e alcune zone rurali. Quello che segue è un resoconto imprudente e non meditato. Nulla di quello che c’è qui sotto ha alcuna pretesa di scientificità: né accademica, né, tanto meno, militante. Ovvero, non si tratta dei risultati di una conricerca. Al meglio, potrebbe trovarsi qualche premessa. Si tratta invece della necessità di fissare alcune impressioni immediate, soprattutto per offrirle ai/alle compagnə più prossimə. Spunti per una discussione.
Non ero mai stato in Palestina prima di questo viaggio. Non so se posso permettermi di dirlo, mi sono sentito a casa.
A Ramallah e in altri luoghi della Cisgiordania ho chiacchierato con diversi Palestinesi: donne, queer e uomini. Soprattutto ricercatori o artisti, molti con esperienza di vita e di lavoro all’estero. Alcuni dichiaratamente marxisti, nessuno smaccatamente conservatore (così mi è parso). Ho incontrato commercianti e giovani agricoltori nati in villaggi rurali che, pur avendo studiato, hanno scelto di “tornare alla terra”, magari costituendo cooperative e lavorando secondo i crismi dell’agricoltura biologica e sinergica. A nessuno ho chiesto se fosse credente o meno. Certamente una delle ricercatrici che ho ascoltato era musulmana, mentre un’operatrice culturale che ho intervistato era discendente di una famiglia cristiana.
Vorrei partire da un dato che apparirà scontato ai Palestinesi e a chi si è preso la briga di parlare con loro negli ultimi mesi, ma ancora scandaloso ad altrə, specialmente in Europa e negli Stati Uniti. Nessuno dei miei interlocutori ha espresso parole di condanna nei confronti del 7 ottobre, né prese di distanza nei confronti di Hamas o della Jihad islamica.
Ho visitato il campo di Jenin. Il giorno precedente la mia visita, l’esercito israeliano aveva compiuto un raid nel campo, uccidendo un ventitreenne, presunto leader delle Brigate Jenin. Il giorno successivo, nuovo raid e bombardamenti; questa volta, 7 morti. I miei interlocutori mi descrivono le Brigate come un gruppo militante locale, formato da giovanissimi, non esclusivamente, ma maggioritariamente affiliati alla Jihad islamica e alla Brigate Al Quds. Tipicamente, mi dicono, i ragazzi del campo entrano a far parte delle brigate intorno ai 15 anni e vengono arrestati o uccisi tra i 20 e i 25.
Eravamo lì per incontrare il Freedom Theatre, una compagnia teatrale che lavora con i bambini del campo. La persona che ci ha accolti ci ha guidati negli spazi del teatro, pesantemente vandalizzati dall’IDF. Nella sala cinema, ci ha mostrato una stella di David vergata, a sfregio, da un soldato israeliano sullo schermo. Ci ha indicato le porte abbattute, le videocamere di sorveglianza interna distrutte a colpi di arma automatica, per non lasciare testimonianze. La conversazione, inevitabilmente, è virata sulla politica, sulle condizioni di vita nel campo, sui giovanissimi che animano la resistenza, sulla brutalità dell’esercito israeliano, ma anche sullo stato di salute dell’Autorità Palestinese e la corruzione. Ad un certo punto la nostra guida ci ha detto di essere stato iscritto a Fatah, ma ricordando le elezioni del 2006, ci ha confessato di avere rinunciato al voto, consigliando agli amici di scegliere Hamas.
Questo piccolo aneddoto esemplifica due questioni. Primo, dalla seconda intifada in poi, con un’ulteriore accelerazione dopo il 7 ottobre, la violenza coloniale di Israele (nelle sue diverse forme) è aumentata esponenzialmente fino al genocidio in corso a Gaza. Secondo, com’è arcinoto, l’Autorità Palestinese è unanimemente considerata alla stregua di un burattino di Israele. Secondo bis, le formazioni islamiche sono largamente e trasversalmente considerate come le uniche (o quasi) in grado di opporre una resistenza militare alla colonizzazione e all’apartheid. Di ciò va preso atto. Hamas e la Jihad non sono corpi estranei al sociale. Il voto del 2006 è stato un voto democratico, magari preoccupante per chi critica ogni forma di società confessionale, ma determinato anche da una diffusa protesta nei confronti della corruzione morale e giudiziaria dell’Autorità Palestinese e dalla volontà di riprendere la lotta di liberazione. Lotta abbandonata, nel “dopo Oslo”, in nome del progetto dei due popoli-due stati la cui inconsistenza, soprattutto a causa del boicottaggio israeliano, non ha tardato a palesarsi.
Ad ogni modo, le formazioni islamiche non sono le uniche a coprire una funzione militante, il FPLP (Fronte popolare per la liberazione della Palestina), ad esempio, è ancora attivo. Divenuto celebre in tutto il mondo nel 1970 con i dirottamenti di Dawson’s Field, il FPLP è una formazione marxista-leninista. Fondata negli anni Sessanta, i suoi vertici si trovano in esilio in Libano. Anche membri del Fronte hanno partecipato al 7 ottobre e sebbene godano di meno pubblicità rispetto ad Hamas e alla Jihad, sono ancora radicati in alcuni villaggi o zone della West Bank. Ideologicamente, si tratta di una formazione nazionalista che si è presto votata al Marxismo, vedendo in Israele un avamposto del progetto imperialista americano-occidentale. Da sempre, l’FPLP coltiva rapporti con Hezbollah e con il regime iraniano. Le ragioni sono pratiche ed ideologiche. Pratiche poiché l’Iran lo finanzia, lo addestra e lo arma. Ideologiche perché l’Iran, in un modo diviso in blocchi, diventa argine al progetto imperialista dell’Occidente.
Chiarisco. Ciò che lo spaccato di società civile che ho incontrato mi ha comunicato, non è certo l’adesione ad una visione confessionale dello stato o ad un antimperialismo supino alla logica dei blocchi. Ciononostante torna una richiesta, a volte espressa chiaramente, a volte in filigrana e suona così: resistete, voi occidentali, all’ingiunzione della condanna del 7 ottobre come condizione preliminare ad un discorso sulla Palestina. Tale ingiunzione, infatti, vi inquadra in un ordine di discorso coloniale (poiché pretendete di scegliere con che armi e strumenti un popolo oppresso debba difendersi, tra l’altro un popolo oppresso anche a causa dell’appoggio incondizionato che i vostri governi danno ad Israele) e produce due fraintendimenti. In primis, produce un’illusione di simmetria tra le forze in campo. In secondo luogo, è strumentale ad un discorso che riduce il genocidio di Gaza ad una reazione alla barbarie di un atto terroristico, decontestualizzandolo rispetto alla storia della barbarie della colonizzazione e della pulizia etnica in atto dal 1948. Tale storia non è alle spalle del popolo palestinese, esso vi è imbrigliato in un quotidiano corpo a corpo. Perciò lo spaccato laico e cosmopolita di società civile palestinese che ho incontrato, considera il 7 ottobre come un legittimo atto di resistenza.
Enzo Traverso (che difficilmente è tacciabile di simpatie pro-Hamas) lo sottolinea: “L’attacco del 7 ottobre fu atroce. […] Se la fine è la liberazione di un popolo oppresso, ci sono mezzi che non sono compatibili con questo obiettivo: la libertà non può essere conquistata uccidendo consapevolmente persone innocenti. Tuttavia, questi mezzi incongrui e riprovevoli sono stati utilizzati in una lotta legittima contro un’occupazione illegale, disumana e inaccettabile”[1].
Di questa legittimità bisogna prendere atto e della legittimazione che queste formazioni militanti, islamiche e non, godono nella società palestinese, anche negli strati laici. Ciò non significa, naturalmente, che in Palestina non vi sia una dialettica politica tra forze di sinistra (in crisi) e forze islamiche (in crescita), non significa che i dissensi siano risolti o che il femminismo secolare e quello islamico esprimano la stessa visione del mondo (sulla famiglia, ad esempio, le distanze sono notevoli). Ma la postura che i miei interlocutori, perlopiù laici, hanno invariabilmente tenuto con me, è stata quella dell’unità del popolo palestinese impegnato nella lotta di liberazione dal giogo coloniale. Inoltre, sempre dal mio limitato punto d’osservazione (che può forse dire qualcosa sulla vita metropolitana palestinese, ma niente su quella rurale), gli scambi, il dialogo, la commistione tra elementi secolari e religiosi, la condivisione di spazi di lavoro, di studio, di svago, squalifica ogni immaginario orientalista teso a descrivere il mondo arabo come spazio arcaico e oscurantista.
Se questa è una (vaga) premessa di inchiesta, vi sono almeno due importanti problemi che ne conseguono. I temi distinti della violenza e del segno politico di tale violenza.
Al primo punto si veda, ancora, Frantz Fanon il quale, a ragion veduta, definiva la decolonizzazione come un “programma di disordine assoluto”[2] e aggiungeva: “Per il colonizzato, questa violenza rappresenta la prassi assoluta”[3]. Non ci si adegui, ma non ci si sorprenda, la violenza decoloniale è il riflesso della violenza coloniale, è un passaggio ancora oggi storicamente inevitabile per fare i conti con quest’ultima. Al tempo stesso, però, la condizione che lo psichiatra martinicano rilevava come necessaria per il successo della violenza decoloniale, era l’impossibilità del paese colonialista di procedere ad una “installazione prolungata di forze di occupazione considerevoli”. Ovviamente, tale impossibilità non si applica ad Israele, in cui madrepatria e colonie condividono la medesima geografia. Né, sempre sulle orme di Fanon, è possibile ascrivere ai colonizzati la colpa di farsi interpreti della logica del “o noi, o loro”, visto che questa logica “manichea” è fondativa dell’ordine coloniale, basato sulla segregazione totale. Non c’è luogo migliore della Palestina per confermarlo. Esistono città dei coloni e città dei colonizzati, strade dei coloni e strade dei colonizzati, servizi per i primi e assenza di servizi per i secondi, monopolio delle risorse per i primi (a partire dall’acqua) razionamento delle risorse per i secondi, biopolitiche per i primi, necropolitiche per i secondi. Lo ha stabilito la Corte internazionale dell’Aia che è “plausibile” parlare di genocidio per descrivere cosa sta accadendo a Gaza[4]. Non è forse lo stesso governo israeliano, intriso di sionismo, a perseguire la logica del “o noi, o loro”?
Il secondo tema è quello del segno politico della violenza.
Il riconoscimento della legittimità del 7 ottobre non equivale né, ovviamente, ad un’adesione alla visione del mondo espressa da formazioni militanti islamiche, né all’accettazione di un antimperialismo dei blocchi, per cui il nemico del mio nemico si trasforma immediatamente nel mio amico. Il regime iraniano che pure appoggia materialmente la resistenza palestinese, è un sistema liberticida. Erdoğan, sostenitore di Hamas, appoggia i Palestinesi mentre massacra i Curdi.
Proprio quest’ultimi, tramite la KCK (l’Unione delle comunità democratiche del Kurdistan), propongono una prospettiva che sembra scartare dall’ottica del reciproco annichilimento in cui la contesa arabo-israeliana pare essersi cristallizzata. Certo, il punto di partenza dei Curdi rimane la ferma condanna del sionismo e il ricordo della battaglia comune a fianco dell’OLP, nel 1982, durante l’invasione israeliana nel sud del Libano. Al tempo stesso, però, Cemil Bayik sottolinea l’importanza di abbandonare i nazionalismi e di abbandonare l’idea di stato nazione come orizzonte unico della lotta. “Il nazionalismo ebraico pretende che la Palestina appartenga esclusivamente a Israele e che pertanto gli arabi debbano essere eliminati; il nazionalismo arabo invece auspica l’instaurazione di una sovranità araba in Palestina e che quindi Israele debba essere distrutto. Entrambi questi approcci basati sugli Stati nazione, improntati al nazionalismo tradizionale e alla religione, fanno sì che la questione sia irrisolvibile, considerando l’escalation del conflitto e il genocidio del popolo palestinese”[5].
Coerentemente con l’esperienza di governo confederale e democratico nel Rojava, il KCK auspica, anche in Palestina, l’abbandono di una logica nazionalista di reciproco annichilimento e la costruzione di un internazionalismo post-statale delle autonomie. Per quanto materialmente lontano dalla sua realizzazione, questo augurio non va derubricato come utopico, proprio perché emerge dalla regione e perché è sostenuto dall’esperienza di autogoverno del Rojava. Inoltre, tale riflessione, sebbene fatichi ad emergere sullo sfondo del genocidio in atto e della generale crisi epocale delle sinistre (istituzionali e di movimento), non è assente dalla società palestinese: né dal suo dibattito accademico, né (cosa ancora più incoraggiante) dalla materialità del sociale. Del primo caso siano esempio le parole che ho ascoltato da un docente di filosofia della Birzeit University, Mudar Kassis. Kassis si è occupato estensivamente della crisi dei diritti umani in epoca neoliberale[6]. Nel suo intervento di benvenuto all’università, ha sottolineato l’importanza di rinnovare una prospettiva socialista, superando però l’idea che tale prospettiva si incarni essenzialmente nella forma stato, a suo avviso ormai condannata dal neoliberismo all’alternativa tra stato tribale (di cui Israele è un esempio) e corporate state (ovvero una forma totalmente subordinata alle logiche di mercato e agli imperativi della finanza).
A livello sociale, le realtà e le persone che ho incontrato, principalmente occupate nel settore culturale ed agricolo, esprimono un’urgenza comune e trasversale a diversi settori della società palestinese. L’urgenza di autonomia. È questa spinta che oggi sembra arricchire le grammatiche del sumud. Sumud, com’è noto, è una parola che indica un valore culturale fondante della società palestinese. Concetto complesso la cui traduzione mobilita molteplici parole italiane: perseveranza, resistenza, resilienza, fermezza. Indica una moltitudine di forme di resistenza che si differenziano (sommandosi, non opponendosi) dalle forme più militanti. Di fatto, dal mio punto di osservazione, sumud è una parola che può descrivere la quasi totalità della forma di vita palestinese, il “miracolo” sociale del suo riprodursi in condizioni impossibili, la forza del comune cooperante, l’ostinazione collettiva del rimanere, la tessitura di istituzioni del comune in assenza di stato o dentro una struttura parastatale fragile e corrotta. A tale potenza cooperante del sociale, a tale forza istituente, Israele oppone sempre nuovi e più severi dispositivi coloniali. Il check-point, il settlement, una rete viaria segregata, il furto e il razionamento delle risorse naturali, la sorveglianza elettronica, la brutalità dei coloni e dell’esercito, il pinkwashing e così via. Naturalmente il sumud è legato a doppio filo alla terra (uno dei suoi simboli è l’albero di ulivo), quella terra che quotidianamente resiste all’esproprio coloniale e che tornerà fertile e viva dopo essere stata bombardata.
Oggi, alla luce del genocidio di Gaza, questa resistenza diffusa si sta riorientando, esprimendo una nuova priorità: la messa a critica del sistema di finanziamento venutosi a creare dopo gli accordi di Oslo, quando la Palestina è stata “invasa” da una miriade di ONG occidentali. Questa critica è anche, immediatamente, quella di un certo tipo di società. Il sistema di aiuti qui in discussione, per quanto chiaramente importante sotto svariati punti di vista, ha creato un fenomeno di dipendenza generalizzata che ha prodotto una vasta neoliberalizzazione della società palestinese. Ad esempio, sostiene Farah Daibes, i fondi delle ONG hanno contribuito ad una sostanziale depoliticizzazione dei movimenti femministi palestinesi
However, with the signing of the Oslo Agreement in 1993 and the establishment of the Palestinian Authority, neoliberal development aid and funding became an intrinsic component of Palestinian civil society at a time when leftist political parties were also being systematically weakened. The increasingly precarious and life-threatening conditions permeating every facet of Palestinian life prompted many civil society organizations, including feminist and women’s rights groups, to conform to (neo)liberal development and “co-operation” agendas in order to be able to sustain themselves. Constrained by limited budgets and timelines, short-term projects cycles, and globally influenced agendas, the newly NGO-ized feminist movements underwent a gradual process of depoliticization[7].
Qui apro e chiudo una parentesi. Oggi, specialmente per quanto riguarda queste nuove forme di sumud, mi pare che il ruolo delle donne palestinesi sia di primo piano, nell’ambito di un generale processo di ripoliticizzazione del sociale che affronteremo immediatamente. Si smascherano così quegli ostinati pregiudizi orientalisti ancora così diffusi in occidente e la strumentalizzazione in chiave coloniale del femminismo bianco non intersezionale. A questo proposito, Nada Elia ci ricorda un fatto tanto macroscopico quanto spesso invisibile all’occhio occidentale:
When the circumstances of the Palestinian women are considered at all, it is generally a denunciation of “life under Hamas rule”. Yet Palestinian women have been expressing for decades that they are at least as much, if not more oppressed by Israel and Zionism than they are by their fellow Palestinian men[8].
Torniamo al tema della depoliticizzazione del sociale. Se essa descrive un processo in atto almeno dagli anni Novanta, dopo il 7 ottobre dell’anno scorso, molti paesi europei hanno vincolato la ricezione di fondi all’accettazione di clausole “anti-terrorismo” (anti-incitement). Le istituzioni, gruppi o organizzazioni palestinesi che ricevono i fondi, devono garantire di non incitare all’odio antisemita, devono accettare lo scrutinio di terze parti in merito e devono assicurare di non avere legami con il “terrorismo”. Nella narrazione filo-israeliana, però, fatta propria da questi paesi ed organizzazioni, accade che la nozione di terrorismo, di fatto, si conformi a quella di resistenza. Dunque, per le ragioni citate in apertura, esiste oggi un trasversale e condiviso rifiuto di questa logica.
Si tenta, insomma, una decolonizzazione del sistema di finanziamento umanitario che passa non solo per la richiesta di non condizionalità, ma anche per il rifiuto di nuovi sostegni finanziari e per la restituzione di fondi già incamerati. A Ramallah ho conversato con ricercatrici universitarie, direttrici di spazi culturali pubblici, membri di piccole cooperative agricole, artisti e dipendenti della municipalità. Questi soggetti e queste organizzazioni, diversi tra loro per settore, dimensione e stato giuridico, stanno lavorando alla creazione di avanzate reti di solidarietà e mutuo aiuto, allo scopo di condividere le risorse finanziarie e non solo, così da garantire ad altri la possibilità di affrancarsi dagli aiuti esterni e di costruire percorsi di autonomia. Dopo oltre due decenni di depoliticizzazione del sociale, la società palestinese è oggi attraversata da una ripoliticizzazione della produzione che disegna una prassi caratterizzata dal contemporaneo dispiegamento di critica al modello neoliberale, cooperazione e solidarietà materiale, il tutto in ottica decoloniale.
Ora, una certa cautela è in ogni caso d’obbligo. Rana Anani descrive infatti la difficoltà del settore culturale palestinese (imbrigliato da decenni nel sistema di finanziamento delle ONG internazionali) nel rispondere al genocidio in atto a Gaza.
But the genocidal war on Gaza revealed the fragility of the cultural structure in Palestine, its weakness, its existence associated with foreign funding and partisan biases, its distance from its foster community, its fragmentation and loss of compass, specifically with regard to collective work towards a national liberation project[9].
Ciò nonostante, Anani sottolinea una prima importante presa di posizione di un gruppo di ONG palestinesi:
A group of Palestinian NGOs, including cultural institutions, responded by stating that “the international financing system is a tool in the hands of colonial hegemony in our region, that the aid system is being used as a weapon to bring the Palestinians to their knees… and that this policy is an integral part of the Oslo doctrine and control systems imposed on us to maintain the security of the occupation.” They pointed out that the duty of organizations today is to “build a system of community solidarity and grassroots action networks, believe in the capabilities and potential of families and youth, remain alert to the hegemony of foreign funding, and deal with international institutions on the basis of full equality”. While these institutions announced their intention to disengage from foreign aid, in reality, very few of them took practical steps[10].
Il rifiuto dei fondi (e del connesso modello sociale addomesticato dai dispositivi neoliberali) non è ancora un fenomeno di massa, ma è certamente presente nel dibattito come uno dei temi centrali. Alla tragica luce del genocidio di Gaza, non è più possibile nascondere il fatto che la neoliberalizzazione della società palestinese ha progressivamente indebolito la lotta si liberazione e lo ha fatto, in particolare, intaccando i suoi nessi sociali laici e cosmopoliti.
Siamo nella fase in cui il settore culturale palestinese (e non solo) prende atto di una crisi. Da questa presa d’atto emerge un grande piano di lavoro che è oggi in cerca di energie, adesioni, alleanze. Del resto, prima ancora che le bombe cominciassero a piovere su Gaza, la critica del sistema di finanziamento sviluppatosi dopo gli accordi di Oslo, era al centro del lavoro di un collettivo di artisti palestinesi. Nel 2022, a Kassel, nell’ambito di documenta 15, la più importante mostra d’arte contemporanea al mondo, The Question of Funding (questo il nome del gruppo) ha presentato un progetto che mette a critica il sistema del finanziamento neoliberale, proponendo una possibile alternativa. Questa va sotto il nome di Dayra, un sistema (ovviamente basato su blockchain) di condivisione di risorse su cui individui, cooperative, spazi culturali e piccole imprese possono contare per ampliare la produzione e la circolazione di beni e servizi all’insegna dell’indipendenza; il tutto basandosi sullo studio di un arsenale di pratiche di condivisione delle risorse che è parte integrante del patrimonio culturale palestinese. Su questa falsariga, oggi, un gruppo di circa trenta istituzioni culturali e cooperative palestinesi, sta sviluppando un progetto, Owneh, che prevede la creazione di un fondo comune e di un parco risorse condiviso. Il fondo avrebbe lo scopo di rendere sostenibile il rifiuto o la restituzione di quei fondi stranieri la cui erogazione viene vincolata, da governi e ONG, alle condizioni di cui sopra.
Oggi, dunque, è possibile affermare che le preoccupazioni espresse da The Question of Funding nel 2022, alla luce del genocidio di Gaza e della stretta sulle condizioni per i finanziamenti dall’estero, si stiano diffondendo nella società palestinese. Osservando, sebbene superficialmente, i primi (magari teorici) propositi di questo possibile movimento, se ne intuiscono le potenzialità. Si intuisce inoltre che è questo lo spazio potenziale della relazione per tutte quelle espressioni di movimento (perlomeno in Europa) che si rifanno alla tradizione dei movimenti autonomi, alla critica della sovranità, dei populismi e dei nazionalismi, che guardano ai femminismi, all’ecologismo radicale e che lavorano contro la logica guerrafondaia di un mondo diviso in blocchi. Certo, non illudiamoci, per questi movimenti, l’internazionalismo è oggi un grande punto interrogativo e opporsi alla macchina della guerra globale dei contrapposti imperialismi non è semplice. Al tempo stesso, questo nuovo “sumud dell’autonomia” ha la potenzialità di strappare spazi all’egemonia sociale neoliberale costruita attorno al sistema delle ONG. Si vuole fare argine alla colonizzazione dell’umanitario, restituendo respiro ad un’impresa radicale e collettiva. Si tratta di un’azione che chiama in causa le grammatiche della cura, del mutuo aiuto, della solidarietà, ma anche dei contropoteri e dell’autorganizzazione, della formazione di istituzioni del comune. È qui che oggi è possibile tessere delle relazioni, costruendo un dialogo tra esperienze europee e palestinesi. Ciò, senza negare la legittimità delle pratiche militanti all’interno del percorso di decolonizzazione, ma anche senza ridurre quest’ultimo alle prime, agendo gli spazi di radicalità sociale che vanno aprendosi. Le domande sono ancora molte, la necessità di inchiesta (ovvero di sperimentazione politica) è tutt’altro che esaurita, ma questo potrebbe essere uno dei terreni su cui iniziare a praticare un internazionalismo moltitudinario e costituente.
12 luglio 2024